Ora so che la vera lotta non è contro la malattia, ma contro la paura. Ho trovato il coraggio di aprire veramente la mia vita utilizzando la pratica per allargare lo sguardo e liberare la mente dalla sfiducia e riuscire ad accogliere tutto con il giusto atteggiamento
Ho conosciuto il Buddismo nel 2001, quando un’amica mi disse: «Questa sera niente cinema, andiamo dai buddisti». Durante l’incontro mi sentii perfettamente a mio agio e tornai a casa serena. Ero separata da anni e vivevo con le mie figlie a casa del mio compagno. Iniziai a frequentare le riunioni con regolarità e ad avere i primi benefici della pratica. Decisi di ricevere il Gohonzon e poco dopo accettai la responsabilità di gruppo. Inoltre desideravo che tutta la mia famiglia praticasse, cosa che avvenne in breve tempo.
Ero molto grata per i benefici ottenuti, ma le difficoltà non tardarono ad arrivare: una delle mie figlie per un forte stress emotivo e sentimentale, rapidamente sfociato in psicosi, si ammalò di depressione e rifiutava di curarsi. La confortavo come potevo: lunghe notti insonni abbracciate nel letto, cantandole le canzoni che amava. Recitavo Daimoku per riuscire a sentire la Buddità anche in questa sofferenza, e basandomi sulle parole del maestro Ikeda mi dedicavo all’attività per gli altri. Decisi di non arrendermi, così mi impegnai ancora di più nella pratica con la convinzione che avrei certamente trovato la strada per proteggere le nostre vite. In quel periodo accettai di essere una delle referenti dello staff Corallo di regione, mi separai dal mio compagno e dopo l’ennesima crisi di mia figlia fu chiaro che bisognava ricoverarla anche se rabbrividivo al solo pensiero. Sapevo che non lo avrebbe accettato ma non volevo agire con la forza, pregavo per realizzare l’impossibile. L’ondata d’incoraggiamento ricevuta dai compagni di fede mi permise di convincerla a fare un colloquio in ospedale e successivamente a fermarsi qualche giorno per approfondire.
La Legge mistica ci aveva protette e l’”impossibile” si era manifestato: iniziò un lungo cammino fatto di accettazione, consapevolezza, amore e trasformazione. Il Daishonin scrive: «Per esempio, gli spiriti affamati vedono il fiume Gange come fuoco, gli esseri umani come acqua e gli esseri celesti come amrita. L’acqua è sempre uguale, ma appare diversamente secondo la retribuzione karmica di ognuno» (Risposta al prete laico Soya, RSND, 1, 431). Così imparai a vedere il reparto di psichiatria non come l’inferno in terra, ma come un luogo protetto dove chi soffre di un disagio psichico può trovare un valido aiuto e iniziare un recupero. Parlai di Buddismo a tutti: pazienti, medici e famiglie disperate.
Avevo avuto tanto, ma non mi bastava, sentivo che potevo abbattere questo muro fatto di silenzi, ma non sapevo come, mi mancavano terribilmente la sua voce, le sue risate, la sua ironia, la nostra complicità, mia figlia.
Un giorno lessi un incoraggiamento su come aiutare le persone che soffrono della stessa malattia di mia figlia: «Le persone vicine a chi soffre per questi problemi devono curare il loro modo di interagire con la persona malata. […] Il modo migliore per sostenere una persona che affronta una malattia psichica è trasmetterle che noi per primi non ci arrendiamo e che la sosterremo fino alla guarigione. Chi è afflitto da questo tipo di malattia affronta interiormente una grande sofferenza, ma se è circondato da amici e parenti con una condizione vitale elevata, che trasmettono lo spirito di non rassegnarsi, sicuramente riuscirà a trasformare la sua situazione e a guarire. Bisogna essere capaci di fargli sentire il suo valore, vivendo noi per primi in sintonia con la Legge mistica» (BS, 156, 14).
Avrei trasmesso a mia figlia la gioia di vivere attraverso la mia gioia. Questa era la mia occasione per creare valore e trasformare in modo radicale la mia vita.
Non mi sarei arresa alla sua malattia. Iniziai così un lavoro duro e costante su me stessa, una psicologa mi insegnò un modo nuovo di starle accanto e riuscii ad apprezzare il valore di ogni momento passato insieme. Questo percorso iniziato per mia figlia arrivò a toccare anche me: il guscio di dolore che mi avvolgeva e mi faceva sentire che per lei ero la sola persona indispensabile si spezzò: il padre di mia figlia, dal quale ero divorziata da più di venticinque anni, ora trascorreva parte del suo tempo con noi e insieme ci occupavamo della gestione quotidiana. Dopo qualche mese anche l’altra mia figlia tornò a Cosenza e così ora eravamo in tre: ecco l’armonia che cercavo.
Avevo più tempo e avevo anche bisogno di lavorare, perciò senza farmi tanti problemi accettai di promuovere i prodotti di un panificio in un grosso punto vendita. Nonostante l’ambiente non fosse stimolante mi sentivo a mio agio: «Che bello, adoro il profumo del pane! Voglio divertirmi!». Ma la realtà era diversa: ero letteralmente sommersa da forme di pane e la sera ritornavo a casa distrutta. Ancora una volta, grazie al Daimoku passai dalla lamentela e dalla paura di non farcela alla decisione di trasformare tutto in forza ed energia: ebbi persino delle intuizioni strategiche su come migliorare la vendita. Parlai di Buddismo alle altre promoter e soprattutto al responsabile commerciale. In tredici giorni di promozione con la mia collega vendemmo 2.772 chilogrammi di pane, un successo inaspettato anche per la direzione che propose al panificio una postazione fissa. L’azienda mi assunse con un contratto part-time a cui seguì poco dopo uno a tempo pieno. In seguito il panificio decise di replicare l’esperimento in altri punti vendita creando uno staff di promoter-venditrici adeguatamente formate e pagate: voleva dire ribaltare completamente l’idea della promoter demotivata e sottopagata, e soprattutto, creare una nuova prospettiva di lavoro per le donne adulte in questo difficile momento lavorativo. Scrissi il progetto Il valore e l’efficacia della vendita assistita nella grande distribuzione alimentare basandomi sulla teoria della creazione di valore di Makiguchi: bellezza, bene e guadagno e poco dopo mi ritrovai a gestire per l’azienda altri punti vendita assistiti.
Una frase di Gosho è diventata il motore delle giornate passate assieme a mia figlia: «Se non sei disposta a fare sforzi per guarire, sarà molto difficile curare la tua malattia» (Il prolungamento della vita, RSND, 1, 848). Adesso lei, dopo tanto tempo, spesso sorride e mi chiede di uscire, facciamo shopping, andiamo in bici, dal parrucchiere e in piscina. Abbiamo trovato un giovane medico che sa interpretare le sue esigenze, ci sostiene e partecipa con gioia ai suoi miglioramenti. Forse grazie a questa rinnovata leggerezza di vivere, ho incontrato un uomo che con grande coraggio, amore e determinazione ha saputo abbattere il muro che avevo alzato verso questo aspetto della vita.
Ora so che la vera lotta non è contro la malattia, ma contro la paura. Ho trovato il coraggio di aprire veramente la mia vita utilizzando la pratica per allargare lo sguardo e liberare la mente dalla sfiducia e riuscire ad accogliere tutto con il giusto atteggiamento: ogni circostanza è un’occasione per creare valore.