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La gioia di essere donna - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:59

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    La gioia di essere donna

    Ciò che accomuna è più forte di ciò che separa. Valorizzando le differenze tra noi e gli altri, creiamo armonia dentro la nostra vita, scoprendo la ricchezza del confronto, l’opportunità della varietà

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    Ciò che accomuna è più forte di ciò che separa. Valorizzando le differenze tra noi e gli altri, creiamo armonia dentro la nostra vita, scoprendo la ricchezza del confronto, l’opportunità della varietà

    Quando mi hanno proposto di scrivere un articolo sulle donne della Soka Gakkai mi sono sentita un po’ in difficoltà. Daisaku Ikeda ripone una fiducia assoluta nei membri della Divisione donne e giovani donne della Gakkai e non perde occasione per ricordare quanto nobile e profonda sia la loro missione: tante volte, in editoriali, articoli, proposte di pace avevo potuto leggere espressioni come “madri Soka” o “nobili membri dell’Ikeda Kayo-kai”, ma senza sentirmene partecipe. Perciò mi sono domandata: «Chi sono le donne della SGI?». Ho recitato Daimoku per ampliare la mia prospettiva. Ho provato a focalizzarmi sul maestro e la sua visione delle donne e le sue parole di lode colme di fiducia mi hanno rassicurata, coccolata, ma ancora non coinvolta. Non mi sembrava stesse parlando delle donne del mio capitolo, né tanto meno di me. In seguito nella mia mente sono emersi gli studi che ho fatto: femminismo, teorie di genere, storia delle donne; uscivano fuori dalla mia testa le immagini dei personaggi femminili che hanno popolato il nostro pianeta lasciando doni a tutte noi.

    La molla per realizzare qualsiasi cosa

    Mi rispecchiavo nelle visioni e prospettive di quelle donne che hanno fatto la storia, anche se la sensazione che mi rimaneva dentro si poteva racchiudere solo in una parola: incompletezza. Mancava qualcosa. Alcune di quelle vite sono veramente degne di essere ricordate, e nella possibilità che oggi ho di riviverle, raccontarle e scriverne, la mia gratitudine verso di loro si espande a macchia d’olio e mi invade dolcemente. Nonostante ciò, non sono mai riuscita a percepire verso di loro quel senso di soddisfazione piena e totale che mi piace immaginare simile a quando trovi la posizione giusta sulla spiaggia, quando il corpo si adatta perfettamente alla superficie del terreno, e da lì non ti vuoi più muovere. Prendiamo per esempio Goliarda Sapienza: io per questa donna ho un amore spassionato. Scrittrice del Novecento, semi sconosciuta all’umanità, donna colta, indipendente, una persona che compì una feroce lotta con se stessa per emanciparsi dalle convenzioni sociali che evidentemente le stavano strette. Scrive in duello con la parte più oscura di sé che la conduce perfino a tentare il suicidio un paio di volte, e lo fa per esortare a una vita libera, non menefreghista, pregna di quella libertà che nasce dall’essere coerente con i propri desideri. Goliarda scrive: «È curioso come ci hanno abituato a subire le assenze, le privazioni. Loro dicono che è volontà; è invece sottomissione umile: “siamo nati per soffrire”, “non si può avere tutto”. Non siamo nati per soffrire e si può avere tutto, si deve lottare per avere tutto: ogni ora, ogni attimo anche da noi stessi. Così si perde l’allenamento all’insaziabilità che è la molla per realizzare cose, idee» (La porta è aperta – vita di Goliarda Sapienza, pag. 155).
    I pensieri di questa donna mi hanno cambiato la vita. In un dialogo con il suo compagno afferma: «Una persona, è vero, può sentirsi oppressa dalla cultura dominante: il fatto è che la responsabilità non è fuori ma dentro di noi… nella paura di non poter esistere se non mi conformo a una etichetta, anche se questa non c’entra niente con me; nella paura di sbagliare che mi impedisce di camminare da sola. […] Questa storia che la donna è uguale all’uomo non è altro che la reiterazione della solita misoginia. Solo la donna può condurre per mano la figlia e farle accettare la vita. Solo la donna può col suo calore carnale, terreno, sciogliere le false immagini che appannano gli occhi. Ma perché le madri, le maestre a scuola non insegnano la gioia di esser donna? […] questo sì, sarebbe rivoluzionario!» (Ibidem, pag. 84). Questa scrittrice mi ha insegnato che nascere donna può essere una gioia, e ciò andrebbe visto come una potenzialità in più, non in meno, che proprio questa condizione può essere la mia forza e non la mia debolezza. Anche altre filosofe, storiche, studiose, hanno messo in luce le difficoltà e le possibilità dell’esser donna, ad esempio la francese Hélène Cixous: «L’immaginario delle donne è inesauribile, come la musica, la pittura, la scrittura: il flusso delle loro visioni è incredibile. Ho provato più volte stupore per quello che una donna mi descriveva di un suo mondo, che ella inseguiva segretamente dalla più tenera età», e in queste parole ho ritrovato la stessa poliedricità con cui spesso mi scontro pensando di dover essere più “univoca” e coerente.

    Esplorare noi e il mondo

    Un’altra prospettiva interessante è quella di un’italiana, Rosi Braidotti, la quale afferma che ogni donna deve fare i conti con tre aspetti essenziali: la differenza fra uomo e donna, la differenza tra donne, e la differenza all’interno di ciascuna donna. Esortando ognuna di noi a «transitare da un livello a un altro, in un fluire di esperienze, di sequenze temporali e di strati di significazione, (e ciò) rappresenta quella modalità nomade che sostengo non solo dal punto di vista intellettuale ma anche come pratica esistenziale». Quindi ci suggerisce uno stato d’essere nomade, in continuo movimento: spaziare, esplorare noi stesse e il mondo senza rimanere imbrigliate nelle appiccicose tele del pregiudizio e delle convenzioni, tele con le quali spesso mi sono ritrovata a combattere, perché, seppur è vero che le differenze tra uomo e donna e fra donne possono essere difficili da gestire, ammetto che la più complessa è proprio quella che Braidotti battezza “differenza all’interno della donna stessa”. È dentro me che avvengono le battaglie più feroci: quando mi combatto nella convinzione che forse sto desiderando qualcosa di “sbagliato”, di “non giusto”, quando decido di censurarmi, perché mi pesa troppo il pensiero che gli altri, e soprattutto le altre, mi possano osservare e giudicare male, ogni volta che non tifo per me, la vera me, ma per quello che penso ci si aspetti che io sia. Non lo vedo, ma in quel momento mi sto offendendo profondamente. E per quanto mi illuda di essere al sicuro non osando nulla fuori dallo schema “degli altri”, quella sensazione di soffocamento che sento è prova che non ho scelto me. E in quell’istante solo io e l’universo ne siamo consapevoli. Proprio quel soffocamento ringrazio ora e non lo sfuggo più, decidendo di attraversarlo.
    Bene, dopo aver rivisitato i miei studi, le mie radici culturali, mi sembrava quasi di aver raggiunto quella posizione di comodità sulla spiaggia. Avevo sistemato il mio telo e tranquillamente mi ci ero accomodata; in fondo, su quel fazzoletto di sabbia ci ero stata sdraiata tante volte, ne conoscevo forme, dossi, avvallamenti, consistenza. Era il mio habitat. Quindi, sdraiandomi lentamente sulla schiena, appena appoggiata la testa, una grossa zolla dura mi si pianta proprio in mezzo alle scapole, e non posso sfuggirle per quanto ci provi. Non si smuove. Decido che forse è giunto il momento di accettare che la mia porzione di spiaggia, per quanto conosciuta, non è poi così comoda, o comunque non posso sapere se, in un altro pezzetto di spiaggia, mi posso trovare più a mio agio.

    Diverse, ma unite

    Nel frattempo si affacciavano le prime riunioni di Divisione donne e giovani donne del mese di aprile, per prepararci alla grande festa dell’otto giugno nella quale celebreremo la giornata della fondazione dell’Ikeda Kayo-kai e della Divisione donne insieme. Le riunioni primaverili ci servono per prepararci, penso, per arrivare a giugno cariche di una solida unità. E per quanto nella mia mente rispetto a questo articolo ci fosse ancora il dubbio più totale, mescolato ormai all’idea di non essere assolutamente all’altezza di scriverlo, ho deciso di utilizzare quelle riunioni come strumento di approfondimento. Magari non avrei scritto “l’articolo” che volevo, ma nell’intimità della mia vita, in quel luogo che non si mostra mai a nessuno, sentivo che se l’avessi deciso con fermezza, la partecipazione alle preparazioni e alle riunioni del mio capitolo mi avrebbe portato a un grande scatto interiore. Mi domandavo come una donna di cinquanta o sessant’anni avrebbe potuto incoraggiare una giovane donna di neanche venti e se la ragazza, dal canto suo, non si sarebbe annoiata a sentire vicende così lontane dalla sua quotidianità. Ero immersa in un mare di dubbi. Solo un pensiero mi diede lo slancio necessario a proseguire: come avrei potuto incoraggiare le giovani donne del mio capitolo a partecipare a quelle riunioni e a offrire gioiosamente le loro esperienze se io per prima non sentivo il valore di quella attività insieme? Decisi che non mi sarei risparmiata e in quel mese non mancai a nessuna preparazione o riunione con i membri della Divisione donne, anche se non ne avevo sempre voglia, sia chiaro. Eccomi nella settimana delle attività dedicate alle Divisioni. Era già lì. Cosa? Una me nuova. Partecipando a quei meeting il desiderio di incoraggiare ogni singola donna e giovane donna come avrebbe voluto sensei si era ormai impadronito di me; mentre le altre parlavano, osservavo i volti delle partecipanti: così diversi per forma, luminosità, espressione, alcuni segnati dal tempo, altri appesantiti dalla giornata, magari dal pensiero di aver lasciato a casa un figlio, o un marito spazientito, altri ancora sereni e spensierati eppure con chissà quali difficoltà celate. Ma tutti erano là. Li osservavo e cercavo con tutta me stessa di fissarne l’immagine nel mio cuore, finché la lampadina si accese nel mio cervello. Sì, mi sentivo diversa da tutte in quella stanza e mi domandavo come mi avrebbe incoraggiato l’esperienza di una madre di famiglia che sento così lontana dalla mia condizione attuale, ma il punto era che eravamo insieme: avevo smesso di guardare a ciò che ci separava, ciò che ci rendeva diverse, non guardavo più né alla differenza “tra donna e donna” né alle “differenza dentro la donna stessa”.

    Conquistare insieme una gioia duratura

    Quella sporgenza dura piantata in mezzo alla schiena non mi può più toccare ora che mi sono alzata. Nel momento in cui decido di uscire dalla mia piccola zolla sicura la riconosco: si chiama arroganza. E ora che sono in piedi e cammino liberamente sulla spiaggia insieme alle altre sembra davvero piccola e non può più infastidirmi. Certo, sta lì a ricordarmi la sensazione di partenza, quell’incompletezza che percepivo nelle vite della grandi donne che ho studiato, ma ora l’ho afferrata: è l’assenza di gioia. Quelle donne erano arrivate a conclusioni eclatanti, utili e innovative, ma, a conti fatti, erano felici davvero? Non mi sembra. Subito mi sono accorta di quanto sono simile a loro. Ero felice di stare sulla mia piccola zolla? No, anche io pecco di arroganza, e per sentire quella completezza ho bisogno di circondarmi di persone diverse da me, donne e giovani donne di tutte le età, che affrontano lotte più o meno simili alle mie, ma che sono qui con me, anche loro piene di conflitti interiori con cui stanno lottando. Ho solo bisogno di sapere che lo stiamo facendo insieme, e ora sono grata a ogni singola donna nella stanza, a ogni compagno che l’ha sostenuta affinché partecipasse alla riunione, a ogni figlio o figlia che l’attende per cena un po’ più tardi del solito, a questo mio grande maestro che mi ha spinto a chiudermi in una stanza con queste donne per dare una sbirciata al futuro. E infine sono grata anche un po’ a me, che mi sono tuffata in questa avventura. A questo punto le parole di Daisaku Ikeda assumono tutto un altro colore e profondità. Vorrei citare quelle per me più significative: «Dovremmo forse accettare le dure prove che la vita ci para dinanzi come un ineluttabile destino? No. Il nostro obiettivo, come esseri umani, dovrebbe essere quello di trasformare il nostro destino, sradicare la miseria dalla nostra vita, fare la nostra rivoluzione umana e così poter godere di gioia duratura, di felicità e di tanta fortuna. Non è questo il motivo per cui avete volontariamente scelto di partecipare a questa lotta che, pur richiedendo un grande impegno, è fonte di un altrettanto grande entusiasmo? La nostra vita non si limita all’esistenza attuale, è eterna attraverso le tre esistenze di passato, presente e futuro. Fintanto che ci sfidiamo a forgiare in noi stessi una condizione di totale felicità e libertà, non c’è niente di cui avere paura, qualsiasi cosa accada e ovunque si possa essere» (Donne, forza della terra, pag. 5).

    Bibliografia

    Daisaku Ikeda, Donne forza della terra, esperia, 2013
    Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma, 1994, pagg 80-81
    Hélène Cixous, Il riso della medusa, Clueb Bologna, 1977, pagg. 221-22
    Giovanna Providenti, La porta è aperta – Vita di Goliarda Sapienza, Minerva edizioni, 2010, pag. 155
    Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, 2009

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