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La fine del tunnel - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:29

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La fine del tunnel

Martina Mormorunni, Prato

«Dopo aver pianto tutte le mie lacrime non potevo che prendere coscienza dell’evidenza dei fatti e decisi che dovevo trasformare l’impossibile in possibile. Non sapevo come ma, sostenendomi con il Daimoku, avevo deciso che lui doveva vivere»

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«Dopo aver pianto tutte le mie lacrime non potevo che prendere coscienza dell’evidenza dei fatti e decisi che dovevo trasformare l’impossibile in possibile. Non sapevo come ma, sostenendomi con il Daimoku, avevo deciso che lui doveva vivere»

Ho incontrato il Buddismo due anni fa, in un momento in cui la mia vita sembrava apparentemente tranquilla e felice: un ottimo impiego, un secondo lavoro come istruttrice di fitness, che è la mia grande passione, un buon rapporto con la mia famiglia e l’uomo della mia vita accanto. Ho iniziato per curiosità, affascinata dai suoni del Daimoku e del Gongyo e anche vedendo un carissimo amico praticante affrontare un periodo molto difficile, in seguito alla perdita del padre, con una grande serenità interiore a me totalmente sconosciuta.
Fu così che all’inizio del 2001 partecipai alla mia prima riunione. Ripensandoci adesso la mia vita era perfetta solo in apparenza e gli eventi accaduti qualche mese dopo mi fecero capire che l’incontro con il Buddismo in quel preciso momento della mia vita non era stato casuale e aveva avuto un’importanza determinante. Ma allora ne ero completamente ignara.
Una sera come tutte le altre Paolo, il mio compagno, ebbe un malessere al quale non fu data grande importanza. Passò come era venuto e pensammo che fosse dovuto allo stress accumulato nei mesi precedenti per i problemi di lavoro dovuti alle incomprensioni con il suo socio, sfociate poi nel rilevamento da parte sua di tutta l’attività. Solo qualche mese più tardi, quando il malessere si ripresentò in forma più acuta e prolungata, decise di sottoporsi a una serie di esami finchè, in un centro specializzato a Milano, gli fu diagnosticata una malattia dal nome piuttosto inquietante: vascopatia celebrale. È una malattia della famiglia del morbo di Alzheimer, poco conosciuta e per la quale a oggi non esiste una cura ben specifica se non quella in sperimentazione. Secondo il parere dei medici gli rimanevano due o tre anni di vita, giusto il tempo necessario al cervello per deteriorarsi. Il decorso della malattia si manifesta con crisi sempre più lunghe in cui il soggetto colpito subisce perdite della memoria con conseguente distruzione dei ricordi, difficoltà nell’ordinare i pensieri, nel parlare, nei movimenti e nella deambulazione, fino alla demenza e infine alla morte.
Ero agli inizi della pratica, riuscivo a malapena a fare Gongyo e ancora non avevo compreso profondamente il potenziale infinito del Daimoku. Figuriamoci se capivo quando mi dicevano che avrei dato una grande prova concreta! L’unica cosa concreta per me in quel momento era la sofferenza e la paura di perdere la persona che amavo con tutta me stessa.
Dopo aver pianto tutte le mie lacrime non potevo che prendere coscienza dell’evidenza dei fatti e decisi che dovevo trasformare l’impossibile in possibile. Non sapevo come ma, sostenendomi con il Daimoku, avevo deciso che lui doveva vivere a dispetto di quel terribile male. Questa era la mia missione: vincere la sua malattia e vincere sulla mia vita, trasformare il veleno in medicina come si legge nel Gosho: «Lo Yuga ron del bodhisattva Maitreya e il Dai ron del bodhisattva Nagarjuna affermano che, se la malattia di una persona è causata dal karma immutabile, la medicina si trasforma in veleno, ma che il Sutra del Loto trasforma il veleno in medicina» (Il generale Tigre di Pietra, SND, 4, 182).
Con grande sforzo mi feci una ragione dell’oggettività della situazione e, di fronte ai medici che alzavano le spalle e scuotevano la testa, decisi di approfondire il più possibile la mia conoscenza del Buddismo iniziando a leggere il più possibile il Gosho, i libri e i discorsi del presidente Ikeda e cercando di praticare nel modo più corretto possibile. Partecipavo alle riunioni di studio, frequentavo le case di persone che possedevano già il Gohonzon, mi sforzavo di imparare a fare Gongyo e di recitare Daimoku in ogni momento libero della mia giornata. Fra gli scritti di Nichiren Daishonin ce n’era uno che mi incoraggiava particolarmente perché trattava proprio dell’atteggiamento necessario a vincere su una malattia apparentemente senza speranza: Risposta a Kyo’o. In particolare rileggevo sempre le frasi: «Raccogli tutta la tua fede e prega questo Gohonzon. Allora, che cosa non può essere realizzato? Credi nel Sutra del Loto quando dice: “Questo sutra esaudisce i desideri. È l’acqua fresca e limpida del laghetto che placa la sete”» e «Ma tutto dipende dalla tua fede. Una spada sarà inutile nelle mani di un codardo. La potente spada del Sutra del Loto deve essere brandita da un coraggioso nella fede» (SND, 4, 150).
Un grande beneficio di quel periodo fu che Paolo, al Centro culturale di Milano, conobbe il professore americano che lo ha seguito fino a oggi prendendosi a cuore il suo caso e che da un anno a questa parte si è addirittura trasferito a Firenze. Non potevamo sperare in niente di più. La mia pratica migliorava giorno dopo giorno, sentivo che il Gohonzon doveva entrare nella mia vita e decisi quindi di prepararmi al meglio per riceverlo. Nonostante la malattia peggiorasse e lui avesse crisi molto forti e continue, io mi sentivo ben decisa a realizzare fino in fondo agli obiettivi che mi ero posta. Recitavo con molta forza, talvolta era la forza della disperazione, per avere il coraggio di lottare contro la paura e la debolezza, per non farmi prendere dal dubbio e dallo sconforto.
Più di una volta ho avvertito un senso di impotenza ma facevo di tutto per contrastarlo, nonostante la malattia peggiorasse ogni giorno in maniera proporzionale al mio Daimoku e agli sforzi nell’attività. Cercavo di incoraggiare Paolo a non mollare perché comunque ero convinta che la fine del tunnel era vicina. In Risposta a Kyo’o si legge che Nam-myoho-renge-kyo è come il ruggito del leone e io dovevo essere quel leone. Purtroppo, nonostante ogni mio sforzo, la malattia avanzava implacabilmente e i viaggi a Milano erano diventati una routine con la quale convivere. A ogni viaggio rideterminavo con più forza che le sue condizioni migliorassero ma apparentemente senza molto successo. Verso l’estate peggiorò ulteriormente, sembrava che non ci fosse molto da sperare se non aspettare che la vascopatia finisse il suo cammino devastante ma io non ci credevo e, nonostante la sofferenza mia e di Paolo che nel frattempo era dimagrito circa quindici chili, sapevo che la risposta alla mia preghiera era vicina. Dovevo mettere a tacere quella vocina che mi diceva che non ce l’avrei mai fatta.
Mentre stavamo pensando di partire per gli Stati Uniti per il famoso farmaco in sperimentazione di cui si parlava da tempo, il professore avvertì Paolo che le medicine stavano arrivando in Italia attraverso il suo assistente. Quale gioia più grande? Non avevo dubbi che sarebbero state la sua salvezza; nonostante le basse probabilità di riuscita (30%), io sentivo che ci sarebbe stata la svolta. E così è stato, non solo le crisi piano piano sono diminuite ma sono scomparse del tutto. La malattia non è regredita, è proprio sparita. Questo è stato il grande beneficio visibile ma i benefici invisibili sono stati di gran lunga superiori: ho vinto sulla paura e su tanti attaccamenti e debolezze.
Ringrazio questa malattia perché ho avuto l’opportunità di aprire la mia vita, di guardarmi dentro fino in fondo, di cambiare quello che non andava – anche se il cammino è ancora lungo – di conoscere la pratica e soprattutto di poter parlare di Buddismo alle persone che vivono intorno a me. A dicembre del 2001 ho finalmente ricevuto il Gohonzon ed è stato uno dei momenti più belli della mia vita e, sempre in quel periodo, mi sono assunta la responsabilità di un gruppo. Occuparmi in prima persona della felicità delle persone del gruppo mi ha dato un ulteriore slancio per sostenere Paolo nel periodo della cura, durato circa un anno, e soprattutto mi ha permesso di approfondire il mio rapporto con la fede.
Un altro sogno che ho realizzato è quello di fare attività al Centro culturale italiano di Firenze e, nel gennaio del 2002, sono entrata a far parte dello staff Corallo. Sono veramente felice di questa grande opportunità perché mi permette di conoscere tante persone che hanno il mio stesso scopo, quello di trasmettere agli altri il cuore di sensei. L’attività nello staff Corallo è stata un grande sostegno; mi ha permesso di sviluppare uno stato vitale così alto e così vibrante di energia che non potevo non trasmettere a Paolo la speranza e la sicurezza che presto avrebbe smesso di prendere tutte quelle medicine e avrebbe ripreso a vivere come una persona normale.
Oggi Paolo non prende più farmaci, lo scorso novembre le ultime analisi hanno dato risultati ottimi e il professore ha detto che non lo vuole vedere mai più!
Ringrazio tutte le persone che mi hanno sostenuto in questo lungo cammino – doloroso ma costruttivo – a cominciare da Christian [nella foto] che mi ha fatto conoscere il Buddismo. Ho iniziato la mia rivoluzione umana, ci saranno ancora tante battaglie ma non ho paura; dopo questa grande prova concreta, so che con il Gohonzon al centro della mia vita non potrò che vincere.

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