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La difficoltà di essere discepoli - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:27

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    La difficoltà di essere discepoli

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    La via di maestro e discepolo è uno dei temi centrali delle riflessioni e delle discussioni che attraversano la nostra comunità in questo periodo, e certamente uno degli aspetti della “pratica” che va curato, corretto, approfondito. Per questo vorrei condividere alcuni pensieri che non intendono offendere nessuno, ma vogliono essere solo un contributo a cui, spero, se ne aggiungano altri in risposta.
    La scelta di essere discepoli di Daisaku Ikeda è una responsabilità individuale che non può basarsi solo sulla conoscenza e l’approfondimento intellettuale, ma per potersi radicare nel comportamento e nella pratica non basta gridare semplicemente «io ho un maestro»: è necessario provare a comprendere ciò che il maestro sta insegnando, liberandosi da pregiudizi, slogan e tabù.
    La realtà che viviamo oggi è caratterizzata dal conflitto che si manifesta sia nella società e nella politica a livello internazionale e nazionale che all’interno della nostra comunità buddista, e che richiede una trasformazione delle modalità con cui viviamo la responsabilità e ci relazioniamo tra noi.
    Imparare a trasformare i conflitti, a partire da quelli che più ci riguardano, sembra essere adesso un passaggio obbligato per costruire quella pace profonda che è il nostro obiettivo. Per ottenerla, il mezzo fondamentale che Ikeda ci indica è il dialogo, cioè la sostituzione delle armi con le parole, dell’odio e del rancore con la fiducia e la compassione. Nei suoi appelli al dialogo dopo l’11 settembre Ikeda parlava di «coraggio di ascoltare ciò che non vogliamo sentire». Il suo esempio è chiaro, e la sua fiducia nelle potenzialità umane risalta non tanto nei dialoghi con i “buoni” del mondo, quanto nei suoi incontri con dittatori quali Noriega, Castro e Ceausescu e “professionisti” della politica quali Kissinger e Gorbaciov. Perché noi, che ci definiamo discepoli di Ikeda, non riusciamo a utilizzare il dialogo come strumento e atteggiamento per risolvere le nostre controversie interne, insignificanti se paragonate ai conflitti che affliggono il mondo? Perché interpretiamo così spesso i dubbi e le domande come se fossero aggressioni, le risposte e le scelte come se fossero prevaricazioni?
    A volte ho l’impressione che siamo prigionieri di una interpretazione ideologica e fondamentalista, secondo cui il dialogo nel “mondo della fede” equivale a un “compromesso con il male”. Eppure Nichiren ha ricercato il dialogo con le autorità per oltre vent’anni prima di ritirarsi a Minobu, e Toda e Ikeda, prima che la Soka Gakkai venisse scomunicata, hanno dialogato per oltre quarant’anni con i vertici della Nichiren Shoshu. La nostra crisi interna è forse così grave da far si che il dialogo sia accantonato dopo poche settimane di tentativi? Forse pensiamo che il veleno sia entrato così profondamente nel cuore dei nostri compagni di fede da esigere la quarantena al posto del contatto?
    Io non credo. Sono convinto che essere discepoli del presidente Ikeda consista per noi nel vincere le nostre difficoltà attraverso quel dialogo che lui indica come unica via per la soluzione dei conflitti del mondo. Un dialogo basato su una forte preghiera, in cui “allenarsi” senza scoraggiarsi al primo fallimento, partendo da sé stessi ed espandendolo ovunque. Perché è ora di rafforzare la convinzione che niente è impossibile, che kosen-rufu è possibile.

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