Ho vissuto anni orribili e questo mi faceva soffrire, ma, al di là di ciò che provavo, lo sforzarmi per la felicità degli altri è stato ancora una volta il motore trainante
Ho cinquantacinque anni e pratico il Buddismo dal 1987.
La mia gioventù, segnata da un amore devastante e dal mio carattere chiuso e pessimista, non è stata facile. In due anni persi i nonni e poco dopo i miei genitori e, come se non bastasse, ero un tossicodipendente. Con le mie ultime forze entrai in comunità terapeutica nell’82, ne uscii due anni dopo, non più dipendente e con un lavoro, ma con i problemi di fondo ancora irrisolti, tanto che ricominciai con l’uso di stupefacenti e di alcool. In un momento di estrema solitudine, dopo tanti anni rividi Ornella, una mia amica, che mi parlò del Buddismo e mi fece ascoltare la recitazione di Gongyo e Daimoku, ma finì lì.
Pochi giorni dopo andai al cimitero dove sono sepolti i miei genitori: ogni volta ne uscivo devastato dai sensi di colpa e dai rimpianti, ma in quell’occasione, spontaneamente, recitai Daimoku per pochi minuti. Sentii una grande serenità e la consapevolezza che stavo facendo qualcosa di positivo per me e provai anche un’immensa gratitudine per i miei. Uscii piangendo di gioia invece che di dolore e così decisi di cominciare a praticare con regolarità.
La vita prese un altro corso: mi fidanzai con Ornella e chiusi definitivamente con le dipendenze perché le sentivo in contrasto con l’insegnamento buddista. I catalizzatori del mio cambiamento furono due: la responsabilità di gruppo, grazie alla quale dovevo “per forza” diventare una persona solare, coraggiosa e fiduciosa e un corso al Centro culturale europeo di Trets nel 1988. Recitando Daimoku, sentii per la prima volta che tutto era Nam-myoho-renge-kyo e che io ero un tutt’uno con il Gohonzon, come è scritto nel Gosho La torre preziosa: «Abutsu-bo è la torre preziosa stessa e la torre preziosa è Abustu-bo stesso» (RSND, 1, 264). Al ritorno io e Ornella decidemmo di sposarci.
Con tanto Daimoku alla base della mia vita, da cupo e pessimista divenni allegro e ottimista, il lavoro andava bene e di pari passo anche l’attività del capitolo, che si arricchiva costantemente di nuovi membri.
Mia moglie, nel ’92, al ritorno da un corso in Giappone, mi parlò del suo desiderio di adottare un bambino, dato che noi non riuscivamo ad averne. Divenni di tutti i colori, ero terrorizzato solo all’idea! Questo fece scaturire i miei conflitti interiori e i timori verso i bambini. Fino a quel momento ero convinto di mettere loro paura mentre, al contrario, ero io ad averne.
Recitai molto Daimoku perché sentivo che se avessi affrontato le mie paure sarei diventato come una calamita in grado di attirare i bambini e non di respingerli. Dissi di sì a mia moglie e iniziammo subito le pratiche per l’adozione, ma per mesi non ricevemmo nessuna notizia.
Questa stasi si rivelò fondamentale per toccare con mano il mio cambiamento. Durante le vacanze estive mi trovai circondato da bambini che, per fare il bagno, aspettavano solo il mio arrivo: stavo cominciando a cambiare.
Ne ebbi la conferma in Giappone durante il corso SGI del ’93. Alla fine della riunione di scambio tutti i bambini volevano fare le foto con me o salirmi in braccio e con loro potevo parlare solo il linguaggio del cuore.
Intanto la pratica per l’adozione prese il volo e in un mese ottenemmo l’idoneità. Volevamo adottare una neonata italiana, possibilmente entro giugno ’94 in occasione della visita di sensei e il Festival europeo dei giovani per la pace nel mondo a Milano.
Così cominciai la sfida contro il pessimismo e il dubbio. Facevamo tantissima attività con lo scopo che tutti i membri del nostro capitolo potessero partecipare a questi eventi. Mi ripetevo le parole di sensei ascoltate durante il corso in Giappone: «Guardate la vita con fiducia e ottimismo basandovi sul Gohonzon, la negatività distrugge i benefici» oppure: «Fare la gioia degli altri è come costruire la propria gioia. La cura per gli altri è diventata la mia fortuna».
Poi la ferma decisione di mia moglie mi contagiò e non nutrii più dubbi. Eravamo felici, non sentivamo lo scorrere inesorabile del tempo e il “silenzio” del tribunale.
Due giorni prima del festival fummo chiamati dal tribunale e, tra gli altri casi, ci parlarono anche di una bambina neonata italiana. Tornammo a casa e iniziammo a recitare Daimoku per questa piccolina e per la sua mamma che non aveva potuto tenerla, desiderando la sua felicità e che, indipendentemente da noi, fosse adottata il prima possibile.
Intanto io e Ornella insieme a tutti i membri del capitolo riuscimmo ad andare al festival e fummo invitati anche al garden party di Roma. Un regalo enorme! Eravamo molto uniti e felici, qualunque cosa fosse accaduta.
Il giorno dopo fummo convocati dal tribunale e ci parlarono solo di quella bambina. Chiesi al giudice il nome della piccola e quando rispose: «Federica» io e mia moglie ci commovemmo: era lo stesso nome che volevamo dare a una figlia biologica se l’avessimo avuta. Ventiquattro ore dopo eravamo i suoi genitori. Ora ha diciassette anni, è sana e bella.
Dopo qualche anno sono iniziati tempi difficili: problemi economici, di lavoro, conflitti familiari legati all’adolescenza di mia figlia, problemi seri di salute e anche nell’attività sentivo una grande pesantezza e non provavo più gioia a partecipare. Nel capitolo iniziammo ad avere grosse difficoltà di relazioni e di fiducia reciproca. Mi sentivo inadeguato e incapace di incoraggiare i membri; il desiderio di mollare tutto era forte, mi limitavo a dire ciò che pensavo senza andare fino in fondo come se non avessi più voglia di combattere.
Ma ho sempre mantenuto al centro della mia vita il Gohonzon, e non mi sono mai allontanato dalla SGI. Lo scopo prioritario per me era riuscire a recitare Daimoku tutti i giorni, consapevole che tutto parte da lì e da quanto ci impegniamo per gli altri. È stata una dura lotta contro la mia oscurità fondamentale e la paura di non farcela. Ho vissuto anni orribili e questo mi faceva soffrire, ma, al di là di ciò che provavo, lo sforzarmi per la felicità degli altri è stato ancora una volta il motore trainante.
Sono ripartito dalle basi rinnovando la mia promessa di mantenere il grande voto di realizzare kosen-rufu, volendo ricambiare il debito di gratitudine verso il presidente Ikeda per le sue parole ascoltate in Giappone, per i suoi costanti incoraggiamenti e la fiducia che ripone in tutti i membri.
Ora l’atmosfera nel capitolo sta cambiando. Alle riunioni c’è gioia, stiamo riscoprendo il valore dell’unità che ha portato anche una crescita nella consegna dei Gohonzon, grazie a tutte le persone e in particolare ai meravigliosi giovani così preziosi per lo sviluppo di kosen-rufu.
Contemporaneamente ho deciso di attaccare la malattia che mi ha accompagnato per tre anni: una epatite C provocata da un ceppo virale molto raro e aggressivo che mi aveva danneggiato pesantemente il fegato e con una previsione di guarigione limitata al trenta per cento dei casi. Ho iniziato una terapia della durata di un anno che comporta effetti collaterali importanti. Nel mio Daimoku, nelle parole del Gosho e negli incoraggiamenti che leggevo non c’era spazio per il minimo dubbio: sarei rientrato in questo trenta per cento. Da poco ho fatto gli ultimi esami e sono perfetti, senza aver avuto un solo effetto collaterale e senza perdere un giorno di lavoro. Nel Gosho I tre tipi di tesori è scritto: «Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore» (RSND, 1, 755) e il mio scopo è mantenere sempre lo stesso cuore del maestro. La mia maggior conquista non è solo aver sconfitto la mia tendenza all’autodistruzione, ma è l’uso che ho fatto e sto facendo della mia vita: dedicarla agli altri attraverso il Buddismo. Oggi i miei genitori ne sarebbero veramente orgogliosi.