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La città fantasma - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 08:08

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La città fantasma

La parabola della città fantasma che compare nel settimo capitolo del Sutra del Loto narra di un lungo viaggio di una moltitudine di persone per raggiungere la terra dei tesori. La città dove si ristorano è in realtà un espediente per poter raggiungere la meta

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La parabola della città fantasma che compare nel settimo capitolo del Sutra del Loto narra di un lungo viaggio di una moltitudine di persone per raggiungere la terra dei tesori. La città dove si ristorano è in realtà un espediente per poter raggiungere la meta

La carovana di persone narrata in questa parabola (vedi SDL, 151), a un certo punto del viaggio, scoraggiata dalle difficoltà, vorrebbe rinunciare e tornare indietro. Il capo carovana allora, pensando che abbandonando il viaggio nessuno avrebbe potuto accedere ai molti tesori che lo attendeva, e che ogni sforzo fatto fino a quel momento sarebbe risultato vano, decide di usare i suoi poteri mistici per creare dal nulla una grande città dove i viandanti possano ristorarsi in pace e tranquillità. I viaggiatori, così, entrano contenti nella città, dove riposano e recuperano le forze. Dopo un sufficiente periodo di tempo il capo carovana fa sparire la città, rivelando a tutti che essa era solo un’illusione creata da lui, e li invita a proseguire il viaggio verso la destinazione finale, la terra dei tesori. Con questo racconto il Budda Shakyamuni intende far capire che fino a quel momento egli aveva utilizzato degli espedienti (la città, che si rivelerà solo in seguito essere fantasma) per consentire ai discepoli di raggiungere il livello di Illuminazione parziale, ma che essi in realtà dovevano aspirare all’unico mezzo (ovvero, alla terra dei tesori) che consente a tutte le persone di ottenere la vera Illuminazione del Budda.
Sulla base di questa lettura, la parabola può essere intesa anche come incoraggiamento generale a maturare l’atteggiamento di “andare fino in fondo”: da un lato quindi, perseverare sempre fino a che non abbiamo realizzato ciò che ci siamo posti, dall’altro, non smettere mai di approfondire la propria consapevolezza e di migliorare il proprio atteggiamento.

Città fantasma e terra dei tesori, mezzo e fine?

Nichiren Daishonin tuttavia offre un’ulteriore interpretazione della parabola, secondo la quale in realtà non esiste differenza fra la città fantasma e la terra dei tesori. Egli scrive che benché la città fantasma corrisponda ai nove mondi e la terra dei tesori allo stato di Buddità, in realtà tutti i dieci mondi sono città fantasma, e ognuno di essi è la terra dei tesori. Premetto che i “dieci mondi” rappresentano l’arco delle possibili condizioni vitali che ciascun essere umano sperimenta in ogni istante di vita (Inferno, Avidità, Animalità, Collera, Umanità, Cielo o Estasi, Apprendimento o Studio, Illuminazione parziale, Bodhisattva e Buddità) e che quando si parla di nove mondi si intendono i dieci mondi meno quello di Buddità, ovvero i mondi da Inferno a Bodhisattva. Per il principio del mutuo possesso sappiamo che ogni mondo contiene in sé tutti i dieci mondi. È proprio quest’ultimo principio a ispirare la visione profonda fornita dal Daishonin di questa parabola, e che mira a far comprendere che qualunque condizione vitale si stia vivendo è possibile illuminarla istantaneamente con la luce della Buddità insita nella vita di ogni persona. «Quando pensiamo alla “città fantasma” e “alla terra dei tesori” come a due entità separate – spiega Katsuji Saito – la prima come “espediente” e la seconda come “verità”, una ci sembra il mezzo e l’altra il fine. Saremmo quindi tentati di usare il mezzo per raggiungere il fine. In realtà essi sono la stessa cosa, il mezzo include il fine» (D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, esperia, vol. 2, pag. 39).

Differenze solo in apparenza

La Buddità è un fine ma è allo stesso tempo un mezzo. Quando pratichiamo con sincera dedizione impegnandoci nella diffusione del Buddismo stiamo compiendo una rivoluzione che ci porterà col tempo a rendere sempre più stabile nella nostra vita la condizione di Buddità: in questo senso la Buddità è un fine, uno scopo, che potremmo definire eterno poiché continua ininterrottamente nel tempo. Ma è anche vero che possiamo utilizzare la Buddità per agire armoniosamente nell’ambiente creando e rafforzando legami umani al fine di migliorare la società nel suo complesso, anzi a dire il vero, avendo avuto la fortuna di incontrare il Buddismo del Daishonin, siamo in un certo senso “chiamati” a svolgere una funzione fondamentale per ricondurre l’essere umano lungo il corretto sentiero dell’armonia con la Legge di Nam-myoho-renge-kyo: in questo senso la Buddità è un mezzo, e ogni nostra azione è già l’azione di un Budda. Questa prospettiva rivela anche una concezione più viva di kosen-rufu, che da semplice idea astratta di un futuro mondo di pace diviene l’immagine di un fiume maestoso che noi stessi in ogni momento contribuiamo a far scorrere.
«La città fantasma – si legge negli Insegnamenti orali – dista dalla terra dei tesori cinquecento yojana. Questa distanza rappresenta le illusioni del pensiero e del desiderio, le illusioni, numerose come granelli di sabbia e di polvere, che impediscono la pratica buddista, l’oscurità e l’ignoranza. Capire che questi cinquecento yojana di illusioni e desideri in realtà sono i cinque caratteri della Legge mistica, significa comprendere che la città fantasma equivale alla terra dei tesori. Nell’affermare che la città fantasma equivale alla terra del tesoro, il termine “equivale” indica Nam-myoho-renge-kyo». C’è una distanza che separa la terra dei tesori dalla città fantasma, come c’è una differenza fra il mondo di Inferno e il mondo di Buddità, e non ci aiuta semplicemente sapere che due realtà distanti, od opposte, sono o possono essere la stessa cosa. In che modo allora annullare questa differenza e quella distanza?

Tu chiamale se vuoi, illusioni

Le illusioni, ovvero modi distorti di percepire e valutare la realtà, i desideri e la sofferenza nascono tutti dall’oscurità, o ignoranza fondamentale, (che porta a ignorare che ogni persona racchiude il potere infinito della Buddità), e sono funzioni negative in quanto tendono a impedire il miglioramento personale basato sulla pratica buddista. Quando ci lasciamo ostacolare da tali funzioni in sostanza non facciamo che ignorare – anche se sappiamo razionalmente che esiste – la nostra Buddità, così può sembrare addirittura impossibile uscire dalla nostra città fantasma di sofferenze e difficoltà.
Decidere, invece, di recitare costantemente Daimoku e di condurre una pratica corretta con lo stesso spirito del Budda originale è la chiave per poter vivere ogni istante nella città fantasma come fosse la terra dei tesori. Nell’atto della preghiera facciamo in realtà due cose in una: a) decidiamo di realizzare i nostri desideri; b) facciamo emergere la felicità dentro di noi. Dopotutto, se non avessimo obiettivi difficilmente saremmo stimolati a recitare Daimoku, e d’altra parte se non fossimo sostenuti da uno stato vitale forte e gioioso non riusciremmo a perseguirli. Anche la nostra attività per kosen-rufu è sostenuta dalla pratica personale, così come quest’ultima è a sua volta rafforzata dall’attività che svolgiamo insieme ai compagni di fede. In definitiva le nostre preghiere e le nostre azioni, concentrate sia sul presente che sul futuro, si rafforzano reciprocamente in un movimento circolare virtuoso capace di generare la felicità autentica, quella che possiamo riscoprire in ogni momento anche, e soprattutto, quando viviamo difficoltà o sofferenze.

Il nuovo comincia adesso

«Molte persone maturano e migliorano – afferma Ikeda – quando ricercano con costanza di raggiungere qualsiasi forma di felicità relativa come la ricchezza, lo status sociale, la salute e il successo. Attraverso una forte fede, anche noi che sosteniamo il Buddismo, che ci mette nella condizione di realizzare tutti i desideri, possiamo concretizzare i nostri obiettivi, dando così prova del potere della fede. Tuttavia, la vera felicità, la felicità indistruttibile, non si identifica con la felicità relativa, ma con quella assoluta» (NR, 473, 10). Mirare a raggiungere sempre nuove mete fa parte della natura umana e ci offre la possibilità di aumentare le nostre capacità personali. Il Buddismo ci insegna a farlo valorizzando al massimo l’attimo presente, nella consapevolezza che la condizione vitale vissuta istante dopo istante determina nel tempo la qualità complessiva del nostro percorso in questo mondo. Se è vero, come scrive il Daishonin nello scritto Sulle preghiere (RSND, 1, 298), che “la preghiera del seguace del Sutra del Loto otterrà una risposta con la stessa certezza con cui l’ombra segue il corpo”, non perdiamoci allora nel seguire le risposte (l’ombra) e concentriamoci invece nel fare tutto quanto serve a costruire uno spirito combattivo e libero (il corpo). La felicità assoluta non è mai subordinata alla realizzazione di qualcosa, non è un risultato ma un continuo divenire. Se ci impegneremo a ricercare proprio questa felicità potremo realizzare qualunque cosa, divenendo soprattutto persone capaci di realizzare qualunque cosa. E accadrà che tutte le nostre città fantasma di cui prima eravamo prigionieri si trasformeranno in tappe entusiasmanti di un meraviglioso viaggio, ai nostri occhi identiche alla terra dei tesori.

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