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Io sono perché noi siamo - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 16:29

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    Io sono perché noi siamo

    La visione buddista della vita come rete di relazioni ci aiuta a sviluppare le nostre capacità, a trovare il nostro posto nel mondo proprio per poter contribuire al benessere delle altre persone e dell’ambiente, per essere felici insieme agli altri

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    La visione buddista della vita come rete di relazioni ci aiuta a sviluppare le nostre capacità, a trovare il nostro posto nel mondo proprio per poter contribuire al benessere delle altre persone e dell’ambiente, per essere felici insieme agli altri

    Siamo abituati a pensare che la separazione fra noi e gli altri sia un fatto inconfutabile. Lo è innanzitutto per evidenti ragioni fisiche, ma poi anche perché siamo immersi in un sistema di pensiero che ha prodotto enunciati come “cogito ergo sum”, dove l’atto di pensare ci fornisce la prova della nostra esistenza, che si limita a noi stessi.
    Non è così in tutte le culture. Nell’Africa meridionale, ad esempio, è presente l’idea che ogni persona faccia parte di una comunità umana vista come un unico organismo vivente, che viene espressa con il termine ubuntu.
    Scrive Desmond Tutu nel suo Non c’è futuro senza perdono: «Ubuntu è molto difficile da rendere in lingua occidentale. È una parola che riguarda l’intima essenza dell’uomo. Quando vogliamo lodare grandemente qualcuno, diciamo: “Yu, u nobuntu – il tale ha ubuntu“. Ciò significa che la persona in questione è generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole; che condivide quello che ha. È come dire: “La mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”. Facciamo parte dello stesso fascio di vita. Noi diciamo: “Una persona è tale attraverso altre persone”. Non ci concepiamo nei termini “penso dunque sono”, bensì “io sono umano perché appartengo, partecipo, condivido”» (Feltrinelli, Milano, 2001, pag. 32).
    Nella definizione di ubuntu, ciò che ci rende umani è la relazione con gli altri, non le caratteristiche del pensiero o della coscienza individuali. È come dire “Io sono perché noi siamo” o anche “Io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti insieme”. Considerando la vita da questo punto di vista, ognuno di noi è parte di un tessuto di relazioni.
    Nel Buddismo la rete di relazioni che collega tutto ciò che esiste nel tempo e nello spazio è rappresentata, nel Sutra della Ghirlanda di fiori, con la rete di Indra.
    Indra, la divinità delle forze naturali che protegge e nutre la vita, comprese che ogni singolo granello di polvere conteneva l’intero universo. Così fece correre una rete senza inizio né fine in tutte le direzioni dell’universo, nello spazio e nel tempo. A ogni nodo della rete Indra appese un gioiello, che rappresenta un essere vivente. Ogni gioiello è diverso, ma ognuno riflette la luce emanata dagli altri. Nella rete di Indra tutti i gioielli brillano contemporaneamente riflettendo la luce degli altri ed emanando la propria speciale tonalità.
    La rete di Indra è un’immagine che ci permette di comprendere il principio buddista di engi, o dell’origine dipendente. Engi significa, in sintesi, che noi viviamo in una rete di vita dove tutto e tutti sono collegati da una serie di catene causali che si aprono e si espandono in ogni direzione. Nessuna forma di esistenza è possibile al di fuori della rete e tutto ciò che esiste è nella rete.
    Quindi, qualunque cosa si faccia, si dica o si pensi avrà un effetto nella rete, avrà una ricaduta su tutto ciò che è a noi collegato.
    La rete di Indra ci aiuta a comprendere che la realtà della vita è la connessione. In una società in cui sembra tramontato ogni progetto di interesse collettivo, ogni grande ideale, in cui ogni risorsa umana è concentrata sulle vicende individuali – l’amore, la bellezza, il denaro, il potere – è importante ricordare a se stessi che, in realtà, siamo tutti nella rete e che tutto ciò che esiste è una forma differente di una stessa vita comune.
    L’aspetto più interessante di tutta la vicenda è che possiamo sperimentare innumerevoli volte che la vita funziona davvero così. Quando siamo abbattuti dallo sconforto, completamente presi dalle nostre sofferenze, chiusi ermeticamente a ogni tentativo degli altri di starci vicino, basta fare l’azione più innaturale del momento, vale a dire aiutare qualcuno in difficoltà, per tornare ad affrontare i propri problemi con maggiore leggerezza e ottimismo, sperimentando un senso di benessere pieno. Nichiren lo ha detto con un esempio molto bello: «Se si accende un fuoco per gli altri, si illuminerà anche la propria strada» (RSND, 2, 996).
    È un’esperienza che contraddice la radicata convinzione che, per vivere bene, si debbano conservare per se stessi le proprie limitate risorse, riservando agli altri solo le eventuali eccedenze.
    Questa convinzione ci porta a impegnare molta energia per gestire la contabilità di ciò che facciamo per noi stessi e ciò che possiamo invece devolvere agli altri. In realtà, se consideriamo davvero la nostra vita in rete, tutto ciò non ha ragione di esistere, è solo l’ingombrante lascito di una visione del mondo che ci viene naturale, ma non rispecchia la realtà. In questo caso, come ha scritto Nichiren: «Queste persone che studiano il Buddismo vengono tacciate di essere non buddiste» (RSND, 1, 4).

    Un nuovo stile di vita

    Un’altra esperienza frequentissima che conferma il nostro legame con gli altri ci viene dalla recitazione del Daimoku. Più la nostra condizione vitale è bassa, più abbiamo fastidio delle altre persone. Recitando Daimoku, man mano che lo stato vitale si alza, le persone che ci stanno a cuore tornano a popolare il nostro orizzonte mentale e cominciamo a pensare a loro, a desiderare di incontrarle o di sentirle, a chiederci cosa possiamo fare per loro. Quando la nostra energia vitale aumenta, si espande naturalmente ad abbracciare la vita degli altri, senza confini e senza contabilità.
    Il Buddismo ci aiuta a comprendere come questo desiderio del bene altrui vada esteso, allenato, fino a includere tutto il genere umano. E non per una forma di solidarietà dell’intelligenza, ma proprio perché siamo tutti connessi in una rete di relazioni. Di conseguenza, sviluppare uno stile di vita in cui il desiderio di essere felici includa sempre gli altri è necessario non per essere virtuosi, ma per rimanere nella realtà. Come scrive Daisaku Ikeda: «Perciò il punto di partenza della visione del mondo buddista è l’insistenza di Shakyamuni sul fatto che la vera felicità – la gioia che sgorga dalla profondità della vita – può essere sperimentata solo quando resistiamo all’impulso di allontanarci dalla sofferenza degli altri e invece l’affrontiamo come se fosse la nostra» (BS, 103, 24).
    Per quanto mi riguarda il contributo più significativo per “resistere all’impulso di allontanarci dalla sofferenza degli altri” mi è venuto dalle attività per kosen-rufu. Nella Soka Gakkai sono stata educata a questa resistenza attraverso l’attività, che mi ha permesso di sviluppare una visione del mondo che sperimento ogni giorno come vera e come fonte di inesauribile valore nella società.
    Devo anche il mio mestiere alla visione del mondo come una rete di relazioni. A quarant’anni, con tre figlie e un lavoro a tempo indeterminato che non corrispondeva ad alcuno dei miei desideri, ho deciso che avrei fatto l’insegnante. Avevo pochissimo tempo per preparare il concorso ordinario, ma recitavo Daimoku con un pensiero chiaro in mente: «Non posso convincere una commissione che so tutto quello che è necessario sapere. Se quello è il mio posto nel mondo, se ciò che sono può creare valore nella società attraverso quel mestiere, supererò il concorso e poi studierò per migliorare sempre».
    Quello che mi sembrava fondamentale non era la preparazione tecnica, che avrei potuto poi costruire nel tempo, ma il pensiero che ognuno di noi, così come è, deve trovare il suo posto nella società, un mestiere in cui possa esprimere se stesso dando il massimo contributo agli altri in termini di creatività, competenze e passione. Trovare il mestiere che ci permette di esprimere al massimo il nostro potenziale significa contribuire al benessere delle altre persone e dell’ambiente. Paradossalmente, trovare lavoro, una delle pratiche più individualistiche della vita, è invece un’azione strettamente legata alla vita degli altri, al compito che intendiamo svolgere nei termini di restituzione all’ambiente delle nostre peculiarità.
    Inoltre, forse proprio perché sono un’insegnante, mi rendo conto che anche l’educazione dei nostri figli dovrebbe avere come sfondo la rete di relazioni in cui li immettiamo. Non nei termini di deprecazione del “brutto mondo” in cui li costringiamo a vivere, bensì pensando a loro come individui portatori di comportamenti responsabili e solidali. Questo “sfondo” ci aiuta a vivere il nostro ruolo educativo con una maggiore attenzione e cura.
    In generale, il principio dell’origine dipendente è una straordinaria risorsa per manifestare appieno le proprie capacità e i propri talenti, che brillano non quando sono vissuti come un patrimonio individuale da spendere in un percorso solitario, ma quando li percepiamo come una dotazione che va spesa a beneficio della comunità vivente.
    Anche aver cura di sé, della propria salute, che pare essere una pratica individuale per eccellenza, è in realtà un’attività strettamente connessa alla vita degli altri, non solo in termini di ricaduta sociale, ma in una dimensione più profonda. Noi abbiamo solitamente più cura degli oggetti che ci vengono prestati e che dobbiamo restituire in buono stato che delle cose che ci appartengono. Se pensassimo al corpo e alla salute in questi termini, non come qualcosa di nostro che possiamo trattare o maltrattare a nostro piacimento, ma come a una “torre preziosa” che ci è stata affidata e di cui avere cura per poter contribuire al benessere di tutti, forse riusciremmo a sviluppare un atteggiamento più responsabile nei confronti della nostra salute. Daisaku Ikeda ce lo ricorda continuamente: «La salute dei nostri amici è il primo dei miei pensieri. Il mio desiderio più vivo è che tutti sia­no sani e pieni di energia in modo da poter dare il loro contributo alla società. Prego sempre per la salute dei membri» (Il bene più prezioso. Il Buddismo e l’arte della medicina, esperia, 2014, pag. 19).

    Parte di un insieme

    Vivere nella rete significa anche imparare a circoscrivere il senso di solitudine che a volte si può sperimentare nella vita. Anche quando ci si sente separati dagli altri, soli, diversi, in disparte, è importante ricordare che si tratta di un’emozione e non della realtà, perché la vita, in quanto tale, è impossibile al di fuori della connessione.
    «La solitudine – scrive Ivan Cotroneo – indica quel caratteristico sentimento provato per tutta la loro interminabile esistenza dalle rette parallele, che corrono mortalmente annoiate verso l’infinito e scorgono con la coda dell’occhio le altre rette svolgersi ordinatamente al loro fianco senza avere mai il bene di incontrarle. Ne consegue che l’opposto della solitudine è sempre l’incontro, l’intreccio, l’incrocio» (Dizionario affettivo della lingua italiana, Roma, Fandango, 2008, pagg.181-82).
    Ovviamente nell’incontro e nell’intreccio c’è spesso attrito e conflitto, ma è necessario riconoscere che facciamo parte di un insieme in cui non c’è separazione fra noi e chi ci circonda, dunque possiamo essere felici solo insieme agli altri. In famiglia, ad esempio, sappiamo bene che l’infelicità di una sola persona crea disagio a tutti, quindi il desiderio di essere felici si espande naturalmente e comprende ogni membro della famiglia. Ci viene naturale anche includere i nostri amici nel nostro desiderio di felicità, che abbraccia istintivamente tutte le persone che amiamo.
    Il problema si pone con le persone che non abbiamo scelto, che non ci piacciono, che suscitano in noi dei sentimenti di avversione. Il Buddismo ci insegna a praticare il principio dell’inclusione partendo dalla trasformazione del nostro cuore, proprio perché pretendere che qualcuno a noi sgradito non appartenga alla rete è assurdo anche in termini logici.
    In conclusione, rafforzare la consapevolezza che facciamo tutti parte della rete ci aiuta a vivere meglio, a essere più felici. E, come ha scritto Tiziano Terzani, «tutti dobbiamo chiederci – e sempre – se quel che stiamo facendo migliora e arricchisce la nostra esistenza. O abbiamo tutti, per una qualche innaturale deformazione, perso l’istinto per quel che la vita dovrebbe essere, e cioè soprattutto un’occasione di felicità?» (Un indovino mi disse, RL libri, 1995, pag. 70).

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