«Mi stava sempre addosso, non mi lasciava mai. E per paradosso era così entrata in me che, quando non la sentivo presente, avevo come un vuoto, una mancanza, e la cercavo io, come un bisogno della mente»
La indicherò con le sole iniziali, per discrezione; si chiamava M.P. L’ ho incontrata tre anni fa. D’improvviso, mentre stavo faticosamente cercando di ricostruire la mia vita da solo, è arrivata, decisa, risoluta, imponendo la sua presenza, e per me è cambiato tutto.
Ci siamo conosciuti in un ambulatorio medico dell’ospedale, dove mi trovavo per una visita. Eravamo lì soli, nel silenzio di un pomeriggio nuvoloso, nell’ospedale deserto. Lei s’è presentata, con semplicità e intensità, e ha cominciato a parlare di sè: chi era, cosa faceva, il suo carattere, le sue caratteristiche, insomma le cose che si dicono in queste occasioni. Ma me le diceva in modo strano, come se riguardassero più me che lei.
E intanto il medico che ci aveva presentato, amico suo, confermava. Impossibile ignorarla; anche perché Lei non nascondeva il suo interesse per me; si faceva capire subito, senza sfacciataggine, senza aggressività, ma con una pacatezza, con un’ ineluttabilità, che mi inquietava. E io stavo ad ascoltarla silenzioso, quasi attonito.
Mi resi conto che dava per scontata l’inevitabilità del nostro incontro. Perciò pretendeva un’attenzione totale da me, e riusciva a ottenerla, esercitando su di me un fascino strano, disarmante, che mi ipnotizzava e mi avvolgeva in un’atmosfera, calda, umida, spossante, che mi toglieva le forze. Non osavo fermarla, non riuscivo a impedire quell’irruzione improvvisa nella mia vita che cresceva, cresceva, pervadendo tutto.
Bella non era, ma io da tempo non cercavo più la bellezza, la passione, la sensualità, e men che meno l’avventura: dopo infinite storie cercavo un legame vero, un coinvolgimento reciproco, un attaccamento quotidiano, tranquillità, sicurezza, confronto e scambio mentale.
Questa cosa della mente le piaceva, la esaltava, la faceva sentire forte. «Quello che mi piace di un uomo è il suo cervello» diceva, e aggiungeva sorridendo spavalda «quello cerco di conquistare, così la nostra relazione non finirà mai».
Finì che ce ne andammo via insieme dall’ospedale, e da allora stiamo insieme. Anzi, è lei che si è messa con me, con tenacia, metodo, e applicazione invincibili; è evidente che io sono il suo punto di arrivo, la sua realizzazione.
Invece per me i primi tempi sono stati problematici: abituato da anni a essere libero e solo, dovevo ora subire di colpo un’altra presenza. E che presenza!
Mi stava sempre addosso, non mi lasciava mai. E per paradosso era così entrata in me che, quando non la sentivo presente, avevo come un vuoto, una mancanza, e la cercavo io, come un bisogno della mente. Subito Lei, orgogliosa e fiera, si “rivelava” e mi “occupava” tutto. E io raggiungevo una strana rassegnata pace.
Insomma mi resi conto che mi era entrata nel sangue.
Subivo il suo fascino, e stavo ad ascoltarla, mentre, suadente e ambigua, mi diceva «Sei bello, bravo, intelligente; è per colpa degli altri che ti è andata male nella vita; vedrai, io e te faremo cose bellissime, staremo sempre insieme, non ti lascerò mai, perché, diceva misteriosa, sei tu che mi hai cercato, sei tu con la tua vita che mi hai scelto, e io sono solo venuta».
Non c’è che dire, sapeva come prendermi, lusingava il mio amor proprio, confermava la mia comoda versione della situazione in cui mi trovavo dopo aver ancora una volta azzerato, dopo anni di fatica, la mia vita in un mare di drammi, violenze, infelicità, perdendo tutto ciò che avevo costruito. Anzi con lei ne uscivo sempre pulito, innocente, vittima e ciò ci spingeva a chiuderci, a stare in casa, a non frequentare più parenti e amici. Lei ne era contentissima.
Ecco, questo era un altro aspetto che mi preoccupava perché finiva per aumentare il nostro isolamento. All’inizio io avevo parlato senza problemi agli amici e ai parenti del nostro legame; non ci vedevo nulla di male. Poi lei m’aveva convinto che non andava bene, m’aveva fatto notare che quelli che sapevano ci spiavano di continuo, cercando le tracce, i segni del nostro rapporto. Mi diceva che io ero generoso e aperto ma la gente era cattiva, spettegolava, ci vedeva male, ci derideva e alcuni addirittura disapprovavano il nostro legame e tramavano per farlo finire.
Una di queste persone era secondo lei una mia vecchia amica che qualche mese prima, vedendo che non stavo bene e volendo aiutarmi mi aveva parlato di Buddismo, insegnandomi un mantra e una pratica buddista che mi avevano molto colpito e che avevo iniziato a seguire. Lei ostacolava fortemente questa mia pratica e sosteneva che era inutile e perfino dannosa, perché mi avrebbe inutilmente illuso; ma io riuscivo a praticare ugualmente perché sentivo di star meglio, mi sentivo un’energia nuova e mi identificavo là dove si parlava di determinazione, di coraggio, di possibilità di prendere in mano la propria vita, di lotta per cambiare il proprio destino: trovavo un riferimento preciso alla mia situazione.
In questi casi la sua irritazione arrivava al colmo; non mi ascoltava nemmeno quando le dicevo che se fossi migliorato, se avessi capito di più della mia vita, sarebbe stato meglio per tutti e due: non mi ascoltava, s’immusoniva e cominciava a farmi i dispetti.
Non sopportava che io scrivessi: faceva di tutto per non farmi scrivere, mi urtava il braccio d’improvviso, me lo scuoteva, mi prendeva la mano e la stritolava con quella sua forza erculea, e la mano tremava terrorizzata per ore. Poi magari si scusava, incolpava la sua gelosia, diceva che quando scrivevo tutto concentrato, come quando praticavo il Buddismo, mi dimenticavo di lei, che si sentiva esclusa e messa da parte. Quando mi lamentavo di questo suo atteggiamento, facendole notare che mi faceva soffrire, non rispondeva, diventava sfuggente, elusiva.
Allo stesso modo si comportava in altre azioni quotidiane: mi faceva perdere l’equilibrio quando infilavo i calzoni, non mi lasciava allacciare i bottoni, mi faceva cadere la minestra dal cucchiaio mentre la portavo alla bocca, mi urtava d’improvviso il braccio mentre tagliavo la carne a tavola. Io mi irritavo moltissimo, ma non sapevo bene cosa fare: a volte fingevo di niente e continuavo quello che stavo facendo con fatica e disagio, a volte piantavo lì incazzato, o urlavo addirittura. Lei in queste situazioni era tremenda: mi lasciava stare in quell’attimo, senza offendersi, quieta, poi si riavvicinava e mi avvolgeva con quelle sue braccia forti, che sembravano però a me grandi ali di pipistrello. E ricominciava.
Intanto la vita per me migliorava: sentivo che stavo uscendo dal periodo più buio e mi sentivo protetto rispetto alle mie negatività da questa pratica, e cominciavo ad avere voglia di uscire, di vedere gente, di scambiare esperienze, ma la sua presenza e il suo atteggiamento mi rendevano ancora incerto, insicuro, l’ombra dell’uomo che ero.
Decisi allora di parlarle: serenamente, da persone mature, con tranquillità, le avrei fatto capire l’ inutilità di continuare una storia che creava solo tensione e infelicità, appellandomi al buon senso e alla ragionevolezza.
Non ci riuscii e finì male. Ne uscì una lite terribile, uno scontro lungo, spossante, che durò giorni e notti, durante il quale lei non si spostò di un millimetro dalle sue posizioni, accusandomi anzi di nutrire verso di lei sentimenti ostili. E intanto, indispettita e infuriata, s’era scatenata a provocarmi problemi: il risultato fu che stetti male come non ero mai stato, fisicamente e moralmente.
Mi resi conto di non avere la forza e l’energia di scacciarla. Non solo: dovetti ammettere, al termine di questo tentativo un po’ infantile, figlio dell’esasperazione di chi deve subire una presenza divenuta insopportabile, che in certi aspetti colpiva nel segno e che in effetti questo mio apparentemente ragionevole atteggiamento, nascondeva un rancore, un odio addirittura, maturato negli ultimi tempi, di fronte al senso di impotenza con cui subivo la sua presenza, e di fronte alla sua tranquilla imperturbabile capacità di esserci, sempre, e di occupare il mio spazio vitale.
Inoltre capii, in quei momenti convulsi e violenti, quando la sofferenza scava e diventa consapevolezza, che le sue affermazioni ripetute e urlate sul fatto che ero io che l’avevo cercata, che era nel mio destino incontrare lei, che eravamo legati dal passato all’eternità, mi avevano colpito più di quanto ammettessi; sentivo che c’era un fondo di verità in tutto questo, e che comunque dovevo approfondire la natura della mia vita.
Mi feci aiutare dal Buddismo, praticando con ostinazione e fiducia per un lungo periodo di tempo, segnato dall’incomunicabilità e dal silenzio tra me e lei, ognuno perso nei propri pensieri.
Lentamente prendevo coscienza dell’importanza della mia vita, tutta intera, del suo valore così com’era, della necessità di riconoscerla frutto della mia storia e della mia mente, prodotto delle mie emozioni. Una grande consapevolezza mi invadeva; nemmeno i dispetti e le cattiverie di M.P., che continuavano sia pur in tono minore, mi disturbavano più di tanto, e nella mia nuova grande serenità, arrivavo quasi a capirla.
E un giorno mi trovai d’improvviso, senza rendermene quasi conto, a parlarle di me, della mia vita, della mia lotta e delle mie difficoltà; le spiegai il mio desiderio, il mio diritto di essere felice, finalmente felice.
Le feci chiaramente capire che niente mi avrebbe fermato in questa mia ricerca, in questo mio sforzo: ero determinato a essere felice, portandomi dietro tutto me stesso, quindi anche lei, se lo voleva, alla precisa condizione che non avrebbe dovuto ostacolare la mia ricerca.
Capivo che lei era ormai parte di me, accettavo questo legame, ma non avevo nessuna intenzione di farmi condizionare, di limitare le mie possibilità di crescita, di deviare dal sentiero che volevo percorrere.
Le proposi così di restare con me, camminando al mio fianco per stimolarmi, per aiutarmi con la sua presenza a sentire che cosa grande era la vita, che meritava di essere vissuta pienamente, in sofferenza e gioia, in malattia e salute, in solitudine e in amore.
Mi conosceva, e per la prima volta sentì la mia forza e la mia determinazione.
Non era una questione di cervello, ma di cuore e di vita, terreni sui quali lei perdeva d’importanza, dove si sentiva a disagio.
Quindi accettò silenziosamente, placata, senza naturalmente rinunciare al suo comportamento, che era il suo modo di esistere, la sua natura, la sua ragion d’essere, ma non più la mia.
Da allora “viaggiamo” insieme, io e M.P., la Malattia di Parkinson, e la direzione la indico io, tenendola sempre al mio fianco con compassione, ma educandola fermamente a rispettare la mia vita, a non cercare di condizionarla e dominarla, a lasciarmi libero di scegliere la direzione del mio cuore.