Eternità, felicità, vero io e purezza: attributi che possono sembrare distanti dalla vita quotidiana. In realtà le quattro virtù aprono un ulteriore punto di vista sulla realtà e sulla nostra interiorità
Non amo particolarmente i princìpi che già dal nome richiamano termini di perfezione come “virtù”. In realtà ho scoperto, studiando meglio questo principio, che anche senza esserne particolarmente consapevole ogni volta che ho pronunciato un solo Daimoku di fatto ho accresciuto le mie quattro virtù.
Incontriamo questo principio quando ad esempio Nichiren parla del motivo per cui è nato il Buddismo, cioè trasformare le quattro sofferenze fondamentali di nascita, invecchiamento, malattia e morte. In Parole e frasi si legge: «Le parole “ognuno dei quattro lati emanava una fragranza” significano che il vento della via rappresentata dalle quattro nobili verità diffonde la fragranza delle quattro virtù o paramita, vale a dire la felicità, il vero io, la purezza e l’eternità. La Raccolta degli insegnamenti orali dice: Le parole “quattro lati” indicano la nascita, la vecchiaia, la malattia e la morte. Noi usiamo gli aspetti di nascita, vecchiaia, malattia e morte per adornare la torre che è il nostro corpo. E quando, mentre siamo in questi quattro stati di nascita, vecchiaia, malattia e morte, recitiamo Nam-myoho-renge-kyo, facciamo sì che essi diffondano la fragranza delle quattro virtù. Nam rappresenta la paramita della felicità, myoho la paramita del vero io, renge la paramita della purezza e kyo la paramita dell’eternità» (BS, 114, 45).
Potremmo definire le quattro virtù come gli elementi che nutrono la nostra fragranza interna e che caratterizzano le nostre qualità di Budda (vedi a pagina 12). Il Buddismo spiega che tutte le cose sono in costante trasformazione e che la vita di ogni essere vivente si snoda secondo la legge dell’impermanenza: questa è la vera realtà. Un concetto non semplice da accettare dal momento che culturalmente siamo stati educati e abituati a considerarla come la fine di un ciclo.
Eternità o impermanenza?
In giapponese le quattro virtù sono: Jorakugajo. Il primo ideogramma jo indica l’eternità, che altro non è se non l’esatto contraltare dell’impermanenza. Si arriva così alla questione essenziale: il rapporto con la morte, con l’idea cioè che tutto abbia una fine. Di fronte alla morte viviamo uno scombussolamento profondo che scuote le fondamenta e va a toccare il nucleo più delicato per la stragrande maggioranza delle persone. Anche i legami familiari, le amicizie e gli amori più inossidabili devono necessariamente farsi da parte, niente possono di fronte a quell’appuntamento a cui ci si presenta da soli. La visione buddista tuttavia ci viene in aiuto facendoci conoscere un altro punto di vista, l’eternità della vita, che ci permette di considerare l’incontro con la morte sotto un’altra luce. Il vero problema da smantellare è staccarsi dall’idea che dopo la fine di qualcosa – e la morte fisica di una persona, se vogliamo, ne è l’esempio più estremo – «Tutto il resto è silenzio» come dice Amleto nell’omonima tragedia shakespeariana (atto V, scena II). È questa di fondo la vera e profonda illusione da illuminare tutte le volte che ci troviamo di fronte alla fine di un lavoro, di un’amicizia, di un amore, ma quasi per assurdo anche alla separazione da un abito che abbiamo portato per una vita e che ormai è talmente consunto e sbiadito da non poterne più. Nichiren scrive: «Affrettatevi a cambiare i princìpi su cui si basa il vostro cuore e ad abbracciare l’unico vero veicolo, la sola buona dottrina [del Sutra del Loto]» (Adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese, RSND, 1, 26) per essere in grado di vedere le cose da una prospettiva differente. Praticando il Buddismo siamo naturalmente spinti a metterci in discussione, a cambiare punto di vista su tanti aspetti: se lo facciamo diventiamo più liberi e felici perché permettiamo alla nostra vita di evolversi e di ossigenarsi con aria nuova. Questo è l’obiettivo della rivoluzione umana: non solo quello di renderci appagati ma anche di contribuire al cambiamento dei valori correnti della società affinché tutti ne possano beneficiare.
Con una delle sue battute più famose Woody Allen diceva: «Non ho paura di morire. Semplicemente non voglio esserci quando accadrà». «La morte è momentanea, ma la vita è eterna» (BS, 137, 22), afferma invece Josei Toda. È altamente salutare immettersi sul binario di Toda perché è il processo stesso che allontana la paura della morte. E tanto più riusciamo a entrare nell’orbita dell’eternità della vita tanto più saremo capaci di vivere pienamente.
Felicità relativa e assoluta
Il secondo ideogramma, raku, significa felicità, definita nel Buddismo di Nichiren Daishonin come relativa o assoluta. Quella relativa è basata sui desideri, come per esempio avere un buon lavoro, vivere in una bella casa, avere una famiglia felice, godere di buona salute ecc. Tutti questi desideri rappresentano la felicità relativa, che è poi il motore della vita, il motivo per cui ci si alza la mattina, lo stimolo che ci spinge a praticare e a fare attività e che dà un senso alla nostra vita. D’altra parte pensare di costruire una felicità duratura basandosi su queste realtà è un’illusione, perché tutto è soggetto al cambiamento, incluse le nostre realizzazioni più grandi, quelle per le quali abbiamo lottato duramente. Il Buddismo insegna che esiste anche un altro tipo di felicità, la felicità assoluta o Buddità, una condizione vitale che ci permette di godere della vita in qualunque circostanza, di gioire solo per il fatto di essere vivi, anche se in quel momento si sta affrontando una situazione logorante. Non a caso Nichiren scrive: «Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore» (I tre tipi di tesori, RSND, 1, 755). Tornando quindi all’assunto, secondo il quale tutto è soggetto a una condizione di impermanenza, questa virtù si sviluppa proprio grazie al ciclo continuo di cambiamenti che a volte accartocciano e a volte arricchiscono la nostra vita e a tutte le lotte che intraprendiamo per liberarci ed emanciparci dalle illusioni e sofferenze. Questo sforzo costante proteso alla realizzazione della felicità relativa ci porta, giorno dopo giorno, a conseguire uno stato di felicità sempre più radicato, che diventa gradualmente il nostro baricentro e il terreno su cui ci si muove nella vita di tutti i giorni.
Il vero io
Il terzo ideogramma ga vuol dire vero io. È indubbio che la nostra felicità è in gran parte determinata dalla stabilità del nostro vero io. Questa condizione indica lo stato di assoluta libertà di cui un individuo può godere quando rivela il sé universale e si manifesta quando riesce a sviluppare una condizione vitale libera, indipendentemente dalle circostanze in cui si può trovare. Scrive Daisaku Ikeda in proposito: «Può sembrare che la parola “io” sia usata con una connotazione negativa, collegata a un comportamento egoista o calcolatore, ma questo uso è giustificato solo in riferimento a quello che il Buddismo chiama “piccolo io”. […] Esiste anche un “grande io”, il vero io che giace dormiente nella profondità della vita. L’intera filosofia buddista è incentrata sull’idea di liberarsi dalla prigione del piccolo io per rivelare il vero io che si estende all’infinito. Il concetto della nona coscienza è stato sviluppato proprio a questo fine» (I misteri di nascita e morte, esperia, pag. 178). Entriamo più nel dettaglio. Sia a cinque che a ottant’anni, sotto certi aspetti, siamo sempre la stessa persona. Le nostre cellule non saranno per lo più le stesse e magari la nostra personalità sarà completamente diversa, ma nella profondità della nostra vita esiste un continuum: è l’essenza della nostra individualità, sempre in costante evoluzione.
La purezza
Si arriva infine al quarto ideogramma, jo (scritto in modo diverso dal primo jo) che significa purezza. Il cuore del Budda è puro perché è libero, è puro perché ha sconfitto l’illusione o oscurità fondamentale, è puro perché non resta relegato nel proprio piccolo io ma si dedica naturalmente alla felicità del genere umano. E non smettere mai di impegnarsi nelle attività per gli altri è centrale: l’egoismo e i limiti individuali sono sempre pronti a prevalere e portarci a porre altre cause di sofferenza.
Con un’espressione poetica Nichiren scrive: «Il riflesso della luna non dimora nell’acqua torbida e sui rami di un albero morto non ci sono uccelli. Il Budda non abiterà nel cuore di una donna senza cuore. Ma una donna che abbraccia il Sutra del Loto è come acqua pura nella quale dimorerà la luna del Budda Shakyamuni» (Il Budda dimora in un cuore puro, RSND, 2, 832). Man mano che si sviluppa la purezza del cuore è come se si vivesse in compagnia di un radar incorporato che fa percepire con sempre maggiore immediatezza la vera realtà delle situazioni in cui incappiamo così come la natura delle persone che incontriamo.
Non è semplice arrivare in fondo a un principio così vasto e articolato.
Sto pensando al film L’attimo fuggente, a cui hanno sicuramente pensato in molti la scorsa estate. In una delle scene più suggestive, il professor Keating (Robin Williams) salendo sulla cattedra suggerisce ai suoi studenti di guardare le cose da angolazioni diverse. «È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva» afferma. Le quattro virtù in realtà contengono un potenziale di approfondimento e comprensione immenso e possono fornire davvero gli strumenti per fare un passo avanti decisivo nella propria rivoluzione umana.
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