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Imparare gli uni dagli altri - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:28

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Imparare gli uni dagli altri

Presentato nel 2008 presso l’Università La Sapienza di Roma dallo stesso Majid Tehranian, professore di comunicazione internazionale all’Università delle Hawaii e primo direttore del Toda Institute for Global and Policy Research, il libro è un lungo dialogo tra lui e Ikeda in merito alle rispettive tradizioni religiose. Un testo che apre la strada della conoscenza tra due grandi culture, illustrando peculiarità e punti di contatto in modo semplice e diretto, come solo chi desidera solcare un sentiero di pace può realizzare

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Presentato nel 2008 presso l’Università La Sapienza di Roma dallo stesso Majid Tehranian, professore di comunicazione internazionale all’Università delle Hawaii e primo direttore del Toda Institute for Global and Policy Research, il libro è un lungo dialogo tra lui e Ikeda in merito alle rispettive tradizioni religiose. Un testo che apre la strada della conoscenza tra due grandi culture, illustrando peculiarità e punti di contatto in modo semplice e diretto, come solo chi desidera solcare un sentiero di pace può realizzare

Majid Tehranian, Daisaku Ikeda, Civiltà globale – Un dialogo tra Islam e Buddismo

Nel luglio del 1992 durante il suo pellegrinaggio lungo l’antica Via della Seta, il dottor Majid Tehranian fece tappa a Tokyo dove ebbe occasione di incontrare Daisaku Ikeda. I due si confrontarono, fra le altre cose, sulla guerra, sulla difficoltà di realizzare la pace e sui contatti avvenuti nel corso della storia fra la civiltà islamica e quella buddista; decisero di continuare il dialogo nel tempo e di renderlo fruibile con questo libro.
Pur essendo molto diverse, le loro vite si sono intrecciate, nel corso degli anni, in una collaborazione proficua poiché entrambe mosse da un uguale desiderio di pace nel mondo, frutto di quella pace interiore che solo il singolo individuo può raggiungere. Questa comune aspirazione scaturisce dall’esperienza drammatica della guerra che ambedue hanno vissuto nel periodo della giovinezza, e che spinse Tehranian ad affermare di «essere diventato dolorosamente consapevole che la guerra trasforma gli uomini in belve».
Pur percorrendo strade diverse, tutti e due sono giunti alla medesima conclusione: il dialogo è lo strumento più efficace «per garantire la vita e la pace» nel mondo. La realtà sempre più globalizzata pone a stretto contatto nazioni, culture e civiltà differenti e, quindi, comunicare in modo costruttivo ed efficace è una necessità assoluta. L’alternativa è rappresentata dal dominio della violenza e dell’oppressione: «Senza il dialogo, saremo costretti a camminare nelle tenebre della nostra presunzione», constata Tehranian (pag. 14). «Il dialogo è la luce che rischiara la via», rilancia Ikeda. Il prototipo del colloquio tra civiltà è il rapporto interpersonale; con questo abbiamo l’opportunità di comprendere meglio amici e nemici «e di armonizzare i rispettivi interessi e sensibilità» (Tehranian, pag. 13). Il dialogo non è gratuito ma richiede impegno per superare la relazione “amico contro nemico”, «prendere in considerazione le convinzioni della controparte» ed «essere pronti a imparare da questa» (Ikeda, pag. 15).

Una storia fatta d’integrazione

Perché un dialogo sia proficuo occorre conoscersi bene, così Tehranian e Ikeda esplorano le rispettive tradizioni, islamica e buddista, con l’intento di eliminare i preconcetti e mettere in chiaro le caratteristiche di queste due civiltà. L’essenza della civiltà islamica che «risiede nella fede e nell’unità nella diversità» si concretizzò, durante il nostro Medioevo, in una civiltà scientificamente avanzata e culturalmente vitale, dove regnava la tolleranza e la varietà: «L’Islam arricchì se stesso e tutto il globo, non distruggendo le altre culture ma incorporandole» sottolinea Tehranian (pag. 33), ed ebbe il merito di conservare e sviluppare l’eredità della civiltà greco-romana. Il rispetto delle differenti culture e l’impegno a coesistere sfociò in una grande vitalità culturale e i numerosi contatti con il mondo islamico fecero conoscere a noi europei la scienza e la cultura di questa civiltà per dare vita, alcuni secoli dopo, al Rinascimento. La storia dimostra che le religioni e i movimenti laici «che mirano ad accogliere, piuttosto che a escludere» (Tehranian, pag. 51) rappresentano la speranza per il futuro, a maggior ragione in una epoca come la nostra, dominata da interessi individualistici, da sfiducia esistenziale, da un «nuovo tipo di potere politico» che «offre una certa gratificazione terrena e materiale, provocando però l’insensibilità verso chi soffre» (Ikeda, pag. 51).
Il riconoscimento delle diversità ha dunque un’origine antica: «L’auspicio del Sutra del Loto è che gli uomini, le razze e le nazioni riconoscano la rispettiva unicità e si sviluppino insieme in pace dando pieno spazio all’individualità» (Ikeda, pag. 52); a cui fa eco la conferma di Tehranian: «Anche il Mathnavi di Rumi è un tributo poetico alle differenze tra i credi religiosi e alla multietnicità» (pag. 52).
A un esame più attento l’Islam risulta una religione caratterizzata da una vasta diffusione geografica e quindi da seguaci con caratteristiche diverse; l’elemento unificante è rappresentato dai cinque precetti che tutti i praticanti seguono. Non è un caso quindi che durante l’impero abasside (750-1250 d.C.), una delle migliori espressioni dell’Islam, ci furono numerosi casi di coabitazioni pacifiche e costruttive tra fedi diverse: Cordoba, Sarajevo fra tutte, città che «sono ricche di saggezza umana, dalle quali dobbiamo trarre una lezione sul modo in cui differenti gruppi di persone possono vivere insieme» (Ikeda, pag. 70).
Come il Buddismo, anche l’Islam ha un risvolto sociale; entrambi si realizzano nella vita quotidiana e fanno del fattore umano il punto di partenza, il soggetto principale: con la fiaba di Attar, la conferenza degli uccelli, Tehranian ci insegna come sia possibile conciliare la fede religiosa con la società. Le conclusioni sono costruttive: «La modernità laica e la fede religiosa non si escludono a vicenda; al contrario, senza la seconda il futuro della prima è desolante» (Tehranian, pag. 74), e quindi va riguadagnato «un “senso di reverenza” nei confronti degli altri e dell’ignoto». Di qui emerge un chiaro comportamento da seguire: «Invece di essere sprezzanti e ostili nei confronti degli altri, dobbiamo guardarci attorno con un senso di meraviglia e di rispetto: allora diventeremo sensibili al “valore della vita”. Per mantenere questo atteggiamento sempre nuovo e vitale, è assolutamente necessaria la sensibilità all’eterno e al trascendente» (Ikeda, pag. 75).
Ma ai giorni nostri questo spirito religioso è in netto declino, e il dialogo a questo punto affronta tale pericolosa tendenza, a partire dall’analisi dei termini fondamentali. «Islam vuol dire piena compassione per l’essere in ogni sua forma. Significa pace attiva, a condizione che unisca l’amore e il coraggio», così spiega Tehranian. Da qui il confronto decolla con nuova energia per rivedere concetti, stabilire nessi, proporre idee e arrivare a soluzioni in grado di garantire un futuro luminoso per il singolo individuo e per la società.
La profondità e la ricchezza di questo scambio hanno origine sia dal secolare sviluppo delle due civiltà a confronto sia dalla conoscenza e dalle convinzione dei due interlocutori. Dietro ai ragionamenti, dietro alle parole che si scambiano, si intuisce la cultura e la chiarezza intellettuale dei due protagonisti, frutto di studi approfonditi ma anche di azioni concrete e di battaglie personali; emergono forti la convinzione nel dialogo come strumento di pace e la fede profonda e sincera nei rispettivi credo religiosi; fiorisce la riscoperta dello spirito religioso come componente positiva e creativa dell’essere umano e della società, in questo modo la speranza e il coraggio si fanno strada.

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Sfogliando il libro

Majid Tehranian (1937-2012), musulmano sufi di origine iraniana, ha studiato negli Stati Uniti, in particolare all’Università di Harvard, dove si è attivamente impegnato per la democratizzazione del suo Paese natale. Successivamente è diventato esperto in relazioni internazionali con particolare attenzione alla comunicazione, alla pace, allo sviluppo e alla democrazia. Durante il periodo di Harvard ha coltivato anche gli studi religiosi poiché «l’apertura del cuore e della mente prodotta dalla fede sono della massima importanza per svolgere una mediazione tra civiltà». Nel 1996 è diventato primo direttore del Toda Institute for Global Peace and Policy Research, fondato da Daisaku Ikeda.
Il 23 dicembre 2012 Tehranian, sulle ali della tradizione poetica sufi, ha raggiunto il suo ferdos, termine di origine persiana che indica il paradiso islamico.

Pagg. 54-58

Tehranian: Secondo l’Islam, l’ebraica, la cristiana e la musulmana sono «religioni abramiche», perché la loro fede monoteistica risale allo stesso fondatore.
Tutte e tre proclamano la fede nello stesso Dio. La Torah, il libro della Legge mosaica, è il messaggio inviato da Dio all’umanità tramite Mosè [in arabo, Musa], mentre il Nuovo Testamento cristiano, il libro dei Vangeli, è la parola di Dio pronunciata per mezzo di Gesù [in arabo, Issa]. Anche il Libro dei Salmi fu un dono divino, ricevuto attraverso Davide. […] Il Corano, tramite Maometto, continua la rivelazione di Dio ai molti profeti da lui inviati per guidare l’umanità, da Adamo a Maometto. Nell’Islam gli ebrei e i cristiani sono chiamati «popolo del Libro» [Ahl-al-kitab].

Ikeda: Maometto criticò l’Ebraismo e il Cristianesimo non perché adorassero un falso Dio, ma perché la loro fede si era affievolita.

Tehranian: Proprio così. Le scritture ebraiche e cristiane sono essenzialmente come il Corano, perciò i seguaci delle due fedi saranno salvi in Paradiso, purché credano in Dio e nel giudizio universale. Tuttavia, secondo alcune opinioni islamiche la loro interpretazione delle scritture è sbagliata e arbitraria; Dio rivelò allora il Corano per rettificare quelle convinzioni errate.

Ikeda: In questo senso, la nascita dell’Islam non fu tanto l’avvento di una nuova religione, quanto piuttosto una specie di riforma, che esortava il «popolo del Libro» a «tornare alla religione abramica» e a rivalutare la sua fede in Dio. Fu una Riforma del VII secolo, antesignana di quella di Martin Lutero.

Tehranian: Capisco che cosa intende. Il profeta ­Maometto criticò così il Cristianesimo del proprio tempo: «Hanno scelto i loro dottori e i loro monaci, come hanno scelto il Masih, il figlio di Maryam, come Signori all’infuori del Dio, mentr’era stato loro comandato di adorare soltanto l’unico Iddio» (9, 31).

Ikeda: Nella sua Storia della filosofia islamica, Henry Corbin (1903-78) spiega che nell’Islam non esiste un solo ecclesiastico il cui compito sia fare da intermediario alla Grazia, nessun Papa, nessuna autorità pontificia, nemmeno un Concilio che prenda decisioni in materia di dottrina.
Vorrei una conferma su questo punto.

Tehranian: È proprio così: nella religione musulmana non esistono gerarchie. Non abbiamo un tempio principale, né una cattedrale, né qualcosa di simile al Concilio della Chiesa cattolica, che si pronunci su questioni inerenti alle posizioni teoriche ufficiali.

[…]

Ikeda: Perseguendo soltanto la fede (la sola fides), Maometto cercò un’unione diretta con Dio, senza la mediazione della Chiesa, e un ritorno alla Bibbia. In questo senso ho parlato della nascita dell’Islam come di una Riforma del VII secolo.

Tehranian: Sono d’accordo con lei: l’Islam riaffermò la parità dei credenti al cospetto di Dio.

Ikeda: «Tornate alle origini!». Finché terremo a mente l’appello del Profeta non cadremo mai nella trappola del fanatismo.
Gesù, Maometto e Shakyamuni perseguivano la libertà dell’uomo. Recarono luce agli afflitti e aiutarono i sofferenti; Nichiren fece altrettanto. Se torneremo al punto di partenza umanitario dei grandi fondatori, riusciremo a superare le lotte e i contrasti.
Anche la Soka Gakkai nacque lanciando l’appello: «Tornate al tempo di Daishonin!» Ma i sacerdoti, che temevano per il loro prestigio e la loro autorità, fecero tutto il possibile per ostacolare il cammino del movimento. Josei Toda era solito ripetere: «Tutti i problemi sarebbero risolti, se soltanto i fondatori delle religioni e delle scuole filosofiche mondiali si riunissero a parlare».

Tehranian: Spesso il fanatismo sorge quando la fiducia degli individui nella religione è scossa, a causa di una modernizzazione rapida o di altri fenomeni analoghi. Hafez, poeta persiano del quattordicesimo secolo, lo ha spiegato: «La causa della guerra delle settantadue nazioni: incapaci di vedere la verità, scelsero la via delle illusioni».

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Un musulmano alla guida dell’Istituto SGI per la pace

Daisaku Ikeda fonda nel 1996, in memoria di Josei Toda, il Toda Institute for Global Peace and Policy Research. L’Istituto nasce allo scopo di promuovere la ricerca per lo sviluppo di una politica internazionale rivolta alla pace, mettendo al suo centro il ruolo del dialogo nella trasformazione e prevenzione dei conflitti.
Il disarmo nucleare, lo sviluppo delle politiche delle Nazioni Unite e di un’etica ambientale sono i principali temi che l’Istituto affronta.
Gli esiti delle ricerche vengono divulgati attraverso conferenze internazionali (due all’anno) e periodiche pubblicazioni. Il suo motto “Dialogue of Civilizations for Global Citizenship” (Un dialogo tra le civiltà per una cittadinanza globale) riassume il fulcro di ogni sua iniziativa, creando uno spazio in cui studiosi e figure internazionali coinvolte nei processi di costruzione di pace si possono incontrare fuori dal contesto di uno specifico paese o cultura.
Majid Tehranian, iraniano, musulmano sufi, ha incarnato perfettamente lo spirito del Toda Institute che ha diretto dalla fondazione fino al 2008, anno in cui gli è succeduto Oliver Urbain (v. NR, 528, 20). David Chappel, nella premessa di Civilà globale, scrive: «L’iniziativa di metterlo a capo del Toda Institute dimostra con chiarezza la convinzione di Ikeda che ciò che unisce i buddisti e i musulmani è molto più forte di ciò che li divide e che gli uomini di buona volontà devono lavorare insieme arricchendosi con la rispettiva diversità senza averne timore, se si vuole costruire un futuro di pace».

(www.toda.org)

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