Tornai a casa con un sorriso e un’energia che non provavo più da qualche tempo. Iniziai a praticare cullato dagli incoraggiamenti dei membri del gruppo, che mi facevano spiccare il volo in mezzo ai miei guai insormontabili
Un pomeriggio di dieci anni fa segnò la mia esistenza, per sempre. Avevo chiesto a mio nonno cinquemila lire, ma dato che non aveva spiccioli attraversò la strada per andare a cambiare i soldi. Fu investito da una macchina e morì. Lo vidi in terra, mentre ancora stringeva forte la banconota in una mano. Ero molto legato a lui, era il mio punto di riferimento, avevamo un rapporto speciale in cui bastava uno sguardo per capirsi. Se n’era andata la persona che più amavo e per di più mi sentivo responsabile della sua morte.
Il mondo mi crollò addosso. Lasciai il calcio, la passione della mia vita. I miei genitori e le mie sorelle sprofondarono in una cupa sofferenza acuita dal fatto che ci sentivamo tutti sotto il controllo di mio padre. Non m’importava più di nulla, il senso di colpa mi sopraffaceva continuamente. La mia vita non aveva più alcun senso. Caddi in depressione sfiorando più volte l’anoressia, mi stavo facendo del male deliberatamente, volevo scontare la colpa della morte del mio amato nonno. Pensai anche di suicidarmi. Avevo lo sguardo perso nel vuoto e iniziarono le crudeli prese in giro degli amici. Provai a rialzarmi, riprendendo a studiare e a giocare a calcio. Riuscii a diplomarmi. Ma quando, subito dopo, mi accorsi che nessuna squadra di calcio era più disposta a ingaggiarmi, fu tremendo. Dentro di me rimaneva ancora una debole speranza che le cose potessero cambiare. In effetti venni contattato da un calciatore, Stefano. Ci incontrammo e provai una spontanea e irrazionale fiducia per lui. Mi parlò di Buddismo per la prima volta. Passai la stagione senza combinare niente di speciale in campo, mentre Stefano continuava a parlarmi di questa pratica buddista. Io non lo ascoltavo, con tutti i guai che avevo non potevo prestare attenzione a quelle sciocchezze.
Finché, dopo un anno, quando le cose peggiorarono ancora, decisi di seguirlo a una riunione buddista. Piansi durante tutto il tragitto. L’argomento era la felicità: la cosa che mi colpì di più era che vedevo nei loro occhi questa gioia di cui parlavano. Tornai a casa con un sorriso e un’energia che non provavo più da tempo. Iniziai a praticare cullato dagli incoraggiamenti dei membri del gruppo, che mi facevano spiccare il volo di volta in volta in mezzo ai miei guai insormontabili. Dopo tanto, sul campo di calcio tornai a essere un attaccante di successo: andammo in finale, avevo realizzato venti goal, superando il mio sogno di arrivare a quindici. Anche se i miei amici mi deridevano per la mia scelta di fede, questa volta non soffrivo più, era un segnale che stavo cambiando davvero dentro.
Nel frattempo io e mia madre provammo ad aprire un’attività per staccarci da quella di mio padre ed essere indipendenti, ma durò poco. Non mi arresi e recitai Daimoku per trovare un lavoro che mi permettesse di allenarmi a calcio in modo serio. Lo trovai e decisi di verificare ancora di più il potere di Nam-myoho-renge-kyo. I risultati concreti nella mia attività assicurativa furono sorprendenti e mi permisero di trasmettere la forza del Buddismo ai miei colleghi.
Aumentai anche la recitazione del Daimoku, volevo a ogni costo trovare una squadra d’eccellenza in cui giocare. Arrivò e, stavolta, a decidere ero stato io. Nel frattempo la ragazza con cui avevo una relazione iniziò a ostacolare la mia pratica buddista: ma io sentivo fortemente che non avrei mai smesso di praticare. Per vari motivi le nostre strade si stavano dividendo. Decisi di ricevere il Gohonzon e con me finalmente anche Stefano e Sofia, la mia prima shakubuku. Ora dovevo fare la cosa che mi rimaneva più difficile: parlare con la ragazza con la quale ero sentimentalmente impegnato. Adesso abbiamo un rapporto di amicizia, tra noi c’è una reciproca fiducia e ha deciso anche lei di praticare. Per di più con Sofia è nata una relazione piena di valore che viviamo tutt’ora con grande gioia. Nel frattempo, nella mia famiglia abbiamo fatto passi da gigante e, grazie alle sfide davanti al Gohonzon, le cose si stanno muovendo nella giusta direzione.
Ho accettato la responsabilità di gruppo: in fondo io mi ero sentito sempre un responsabile di kosen-rufu. La mia esistenza ha svoltato, sono io adesso a dirigerla verso la felicità, cercando di aiutare gli altri a fare lo stesso per costruire un mondo più giusto. Iniziare a praticare il Buddismo per me ha significato aprire le porte alla mia natura profonda e autentica. Adesso sono libero di crescere, per questo ogni giorno mi riprometto che non smetterò mai di praticare, qualunque cosa accada!