Niente regole o ricette buone per tutti, si tratta “solo” di imparare ad ascoltare e condividere il malessere dell’altro
«Adesso vado, muovo la mia gamba destra, la metto per terra, poi sposto la sinistra e mi tiro su a sedere sul divano. Bisogna che mi tiri un po’ su per riuscire ad arrivare allo sportello del butsudan, girare la chiave e aprire anche l’altro sportello. Poi posso sedermi di nuovo sul divano perché il Gohonzon è qui davanti, e iniziare a recitare un po’ di Daimoku. Mi facesse bene, riuscisse ad aiutarmi un po’. No, non ci riesco… Eppure dovrei fare non più di dieci movimenti. No, lo sforzo di mettere giù una gamba dopo l’altra è troppo grande per me in questo momento. Non ci riuscirò mai». Questo è uno dei tanti modi in cui si manifesta lo stato di depressione, ognuno un po’ diverso dall’altro, ma con un unico denominatore comune: la fatica di vivere, il non senso che ha la vita per chi si trova in questo stato. Uno stato che può colpire chiunque, dovunque. È una malattia come le altre e può insorgere in qualsiasi momento senza alcuna causa “apparente”. Come il tumore o l’artrite. Ed è una malattia che si può manifestare sia in chi pratica il Buddismo di Nichiren, sia in chi non lo pratica.
Questo articolo non ha la pretesa di essere esaustivo, ma ha un obiettivo molto più elementare e concreto: parlarne.
Quando si è depressi davvero?
Cominciamo dalla definizione della parola depressione: si tratta di «un’alterazione del tono dell’umore verso forme di tristezza profonda con riduzione dell’autostima e bisogno di autopunizione. Quando l’intensità della depressione supera certi limiti o si presenta in circostanze che non la giustificano diventa di competenza psichiatrica, dove si distingue una depressione endogena che, come vuole l’aggettivo, nasce “dal di dentro” senza rinviare a cause esterne, e una depressione reattiva che è patologica solo quando la reazione ad avvenimenti luttuosi o tristi appare eccessiva. Lo squilibrio depressivo assume forme psichiatriche con particolari caratteristiche: a) disturbi somatici e neurovegetativi (insonnia, inappetenza, diminuzione dell’interesse sessuale); b) disturbi dell’affettività con sentimenti improntati a una tristezza profonda, monotona e cupa che resiste alle sollecitazioni esteriori; c) abulia nel comportamento e inibizione del pensiero che sorge lento e monotono con perdita di iniziativa e progettualità; d) tendenza al suicidio e desiderio di morte accompagnano costantemente la vita del depresso che, fra tutte le forme di sofferenza psichiatrica, è senz’altro la più esposta al desiderio di morire» (U. Garimberti, Dizionario di psicologia, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2006, pagg. 563-571).
«La depressione è poi suddivisa in vari gradi. Nella depressione lieve c’è un abbassamento dell’umore e un sentimento diffuso di pessimismo relativo alla propria progettualità, ma non così intenso da coinvolgere tutta la personalità. […] La depressione grave è invece una vera e propria malattia. […] Chi è in questo stato può trascurare di nutrirsi fino al punto di morire di fame o essere così inattivo da non riuscire a provvedere ai bisogni più elementari. […] C’è poi la depressione “bipolare” caratterizzata dall’esaltazione. Il soggetto può apparire lieto, parla molto in fretta, aumenta la sua attività motoria e passa da un’occupazione a un’altra in modo frenetico. Questa euforia può facilmente mutarsi in ira e rabbia quando chi ne soffre si rende conto che l’ambiente non risponde al suo entusiasmo» (Il male che oscura la voglia di vivere, NR, 292, 16).
Come reagire?
Considerato quanto scritto fin qui, dire a chi pratica il Buddismo di Nichiren e si sente depresso “recita che ti passa” risulta alquanto riduttivo. Purtroppo è una frase che chi è depresso si sente rivolgere spesso. Questo non per cattiveria ma per ignoranza, perché non si conosce bene questa malattia e se ne ha un’idea distorta.
Katsuji Saito, responsabile del Dipartimento di studio della Soka Gakkai Internazionale, ha sottolineato quanto sia importante un atteggiamento saggio e mai superficiale nei confronti di chi manifesta la depressione: «Non temere, né sottovalutare la malattia» e ancora «l’importanza di condividere la propria esperienza con altri membri», sono solo alcune delle sue preziose indicazioni. Così come preziose sono quelle emerse dalle conferenze sulla salute tenute dallo staff Sanità. Una sintesi di tali incontri è contenuta nell’articolo già citato e pubblicato su questo giornale il primo novembre 2003. Tra l’altro vi si legge: «La depressione è determinata da una causa karmica profonda. Per cambiarla ci vuole tempo. L’importante è non forzare mai le persone affette da depressione a pregare o a fare attività: si devono sentire libere di scegliere».
Per chi ha problemi di salute mentale può risultare spesso un grande sforzo anche il semplice atto di recitare Daimoku, ma l’importante è non perdere di vista la consapevolezza dello stato di Buddità presente in ognuno di noi e tenere a mente che l’impermanenza caratterizza ogni fenomeno, anche la malattia. Solo la nona coscienza, rimane intoccabile e immutabile.
Gli amici membri non possono certo sostituirsi agli specialisti ma i luoghi d’incontro e le discussioni sono strumenti potenti che permettono la vicinanza tra le persone e lo scambio sincero delle proprie debolezze, paure, problemi del momento. Alcuni studi condotti da psicoterapeuti, buddisti e non, hanno dimostrato quanto l’uso della parola e il dialogo possano favorire sensazioni di benessere e di fiducia anche in coloro che soffrono di forme serie di depressione.
Citiamo lo studio condotto dal dottor Gordon Parker, esperto internazionale di depressione e disordini dell’umore, tratto da un’intervista rilasciata a SGI Quarterly nel numero di ottobre 2007: «Abbiamo raccolto le testimonianze di più di seicento persone su come sono uscite dalla depressione e che cosa le ha aiutate. La cosa che le persone trovano più di sollievo è una persona gentile e premurosa che dica “ti passerà”. […] Non ti dirò “tirati su e datti una mossa” – questo tipo di commenti mostra che non c’è comprensione per la sofferenza. Dirò “passerà e io sarò con te, non ti sentire sotto pressione”. Alla fine ciò che conta è l’empatia e la compassione, sapere quando supportare e come farlo. E qualche volta può voler dire sedersi accanto alla persona e dire “dimmi come posso aiutarti”. Il messaggio deve essere di supporto a livello verbale. Ma a livello di meta-comunicazione il messaggio è: “sono con te”».
Kathleen H. Dockett, docente di psicologia sociale alla Columbia University e autrice di numerosi testi su psicologia e Buddismo, sottolinea quanto la pratica buddista possa contenere forti elementi antidepressivi. Il che non vuol dire, ovviamente, che si possa essere certi del fatto che praticando il Buddismo non si cadrà mai in questa spirale. E non vuol dire neanche che se accade non ci si debba curare come qualsiasi altra persona. Non è una garanzia, ma, come spiega la Dockett, praticare il Buddismo aiuta. Eccome. «Credere nel mio potenziale innato di crescita, credere che tutte le cause fondamentali e le soluzioni delle sfide della vita derivano da me, assumere la responsabilità della mia vita e il controllo del mio destino – queste sono le antitesi allo scoraggiamento e all’impotenza. Sono la realizzazione e la manifestazione di questi particolari insegnamenti a metterci in grado di superare o prevenire la depressione». La studiosa elenca inoltre tre effetti antidepressivi della pratica buddista: «1) studiando gli insegnamenti buddisti, cambiamo il nostro modo di pensare e le false convinzioni sulla vera natura della nostra esistenza; 2) praticando il Buddismo, possiamo incanalare la nostra forza vitale interiore per sconfiggere la malattia e 3) partecipando all’ambiente ricco di calore umano della SGI, accumuliamo saggezza nell’usare le risorse per lottare nel nostro ambiente e vincere la depressione» (Il “sistema” antidepressivo, NR, 372, 24).
Certo, non esiste una ricetta valida per tutti i casi, ma il Buddismo ci insegna a esercitare qualità importanti come la capacità di ascolto, la compassione, il dialogo, l’empatia. Qualità che agiscono a livello interiore e che dunque possono suscitare emozioni e reazioni vigorose e positive. C’è bisogno di tempo, di pazienza e di cura. E, come afferma Saito, «di non temere la malattia».
ha collaborato Antonella Sinopoli
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Il mondo ha bisogno di parole d’amore
L’essenza dell’uomo: dialoghi fra Ikeda, Simard e Bourgeault
Il ventunesimo sarà il secolo della vita, in cui scienza e spiritualità si armonizzeranno per generare una civiltà equilibrata. È questo l’augurio che Daisaku Ikeda fa dalle pagine del volume L’essenza dell’uomo (Sperling & Kupfer Editori, 2004), scritto a sei mani insieme a due professori canadesi: René Simard medico e scienziato e rettore dell’Università di Montreal dal 1993 al 1998, e Guy Bourgeault, specialista di bioetica e di teologia e docente di etica nello stesso ateneo.
Con quest’ultimo Daisaku Ikeda affronta anche l’argomento della malattia mentale, sostenendo che «per quanto le malattie mentali serie non siano in crescita, sempre più persone sono incapaci di adattarsi alla vita sociale, professionale e famigliare». «La nostra società – sostiene Bourgeault – non facilita l’integrazione di chi ha quel genere di problemi. Oggi, per essere adeguati (cioè per lavorare e prendere parte alla vita sociale) occorre padroneggiare concetti astratti e codici complessi. Anche individui dotati di eccezionali qualità e dei più svariati talenti possono essere emarginati». Ikeda sostiene che un sano sviluppo sociale ci impone di accettare e di avvantaggiarci di tutti i tipi di doti, capacità e peculiarità umane. Le persone che non riescono ad adattarsi alla società magari sono ricche di talento, ma il talento per l’amore, la tristezza, il riso e la simpatia hanno poco valore in questa società pragmatica e altamente competitiva, sostiene il professor Bourgeault.
I rapporti umani, afferma il presidente della SGI, sono fondamentali per chi soffre di depressione. Ci sono «quattro modi di alimentare la capacità di fare del bene, di sfuggire il male e seguire la Via di mezzo. Il primo è fare elemosine, tanto materiali quanto spirituali, capaci di alleviare le angosce di chi ci circonda e di infondere coraggio. Il secondo sono le parole d’amore o gli atteggiamenti affettuosi, pieni di sollecitudine. Il terzo è fare del bene con una buona condotta nei pensieri, nelle parole e nelle azioni, che significa mettersi nei panni altrui. Il quarto è identificarsi col prossimo, renderlo partecipe e lavorare con lui». Chi è affetto da disturbi psichici ha quindi soprattutto bisogno della vicinanza di persone che gli vogliono bene e che grazie a “parole d’amore” riescono ad aiutarlo e a farlo sentire meno solo.
(e.d.c.p.)