Per esempio il Sutra Vimalakirti afferma che quando si ricerca l’emancipazione del Budda nella mente degli esseri comuni si scopre che gli esseri comuni sono l’entità dell’Illuminazione e che le sofferenze di nascita e morte sono nirvana. Afferma inoltre che, se la mente degli esseri viventi è impura, anche la loro terra è impura, ma se la loro mente è pura, lo è anche la loro terra; non ci sono terre pure e terre impure di per sé: la differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente.
tratto da Buddismo e Società, n. 119, pag. 13
In questo brano…
Nichiren scrive questo Gosho nel 1255 inviandolo a Toki Jonin, diventato suo discepolo l’anno precedente. Nel 1253 Nichiren aveva proclamato per la prima volta Nam-myoho-renge-kyo, ritirandosi in seguito a Matsubagayatsu. Molti giovani si erano convertiti in quel periodo, tra i quali anche i fratelli Ikegami e Shijo Kingo. Possiamo quindi supporre che il ritiro di Matsubagayatsu fosse animato dallo spirito di ricerca di questi giovani e che lo shakubuku fosse molto forte.
In questa frase ritroviamo un concetto fondamentale della pratica di Nam-myoho-renge-kyo: qualunque trasformazione dell’ambiente intorno a noi è interrelata in modo inestricabile con la trasformazione del proprio cuore; nelle lezioni che Daisaku Ikeda ha tenuto di recente su questo Gosho (vedi BS, 119, 42) leggiamo: «La totalità del Buddismo esiste all’interno delle nostre vite e così anche la chiave per il conseguimento della Buddità […] risiede in un cambiamento del nostro cuore o mente».
Insieme a questo aspetto ce n’è un altro, forse meno immediatamente palese, cioè che la Buddità si manifesta nella vita delle persone comuni che recitano Nam-myoho-renge-kyo, senza bisogno di ascendere a condizioni trascendenti o di isolarsi in contesti particolari: «La condizione vitale di Budda […] si manifesta nella vita delle persone comuni afflitte dalle sofferenze di nascita e morte» (BS, 119, 43).
In conclusione, questo brano del Gosho spiega che non esiste alcuna differenza intrinseca tra un Budda e un comune mortale, nel senso che entrambi sono dotati della Buddità (e di tutti gli altri mondi); ciò che differenzia il Budda dal comune mortale è che il Budda ha compreso che è tale, mentre un comune mortale non ha compreso di avere la Buddità e perciò non può riuscire a crederci. Poiché siamo tutti comuni mortali fino a che non manifestiamo la Buddità, il punto cruciale per ciascuno di noi è come trasformare l’illusione (di non essere dei Budda) in Illuminazione (percezione di essere dei Budda). Ciò avviene grazie al potere del Daimoku, della preghiera che, farà “brillare come uno specchio lucidato” la nostra vita.
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La terra pura
di Ivana Lega
«Parto per il Brasile», mi disse Andrea con il suo splendido sorriso a fine novembre del 2004. Aveva appena affrontato la prova scritta per un concorso pubblico e senza aspettarne l’esito aveva deciso di partire per la “terra pura”, come la definiva lui.
Quando ho iniziato a praticare questo Buddismo, nel 1985, ero già separata da sei anni e Andrea aveva quindici anni. Il rapporto con il mio ex marito era buono, ma le madri che vivono sole con i propri figli devono spesso farsi carico di tutto, essere contemporaneamente madre e padre. Così io mi occupavo della sua crescita, dell’educazione e dello studio, mentre suo padre curava lo sport. Con risultati inversamente proporzionali all’impegno, perché Andrea riusciva brillantemente nell’attività sportiva mentre nello studio incontrava parecchie difficoltà.
Frequentava l’Istituto tecnico commerciale, perché l’avevo convinto che conseguire un diploma era importante e che, scegliendo quella scuola, avrei potuto aiutarlo a studiare. Il mio aiuto in quel periodo consisteva nella recitazione del Daimoku accompagnata da costanti lamenti e rimproveri: «Dai studia! Non studi mai! Se continui così sarai bocciato!» e frasi analoghe. Purtroppo le mie predizioni si avverarono e fu respinto davvero.
In quella circostanza decisi finalmente di cambiare atteggiamento. L’avrei lasciato libero di continuare o meno negli studi, ma soprattutto avrei rispettato la sua scelta, cercando di vedere le sue potenzialità, di credere in esse e di incoraggiarlo in ogni circostanza. Fu una grande esperienza. Andrea non solo si diplomò, ma decise di continuare gli studi. Senza frequentare l’università e impegnandosi anche in piccole attività lavorative e si laureò in giurisprudenza.
Iniziava ora l’avventura nel mondo del lavoro. Andrea coltivava sempre la sua grande passione sportiva: il kite surf. Amava stare in mare, all’aria aperta e aveva difficoltà a lavorare in un ambiente chiuso. Dopo varie esperienze di lavori precari e una relazione sentimentale conclusa, si convinse che la soluzione di tutti i suoi problemi era emigrare in una “terra pura”.
Stavo per affrontare la grande separazione di una madre dal proprio figlio. Dopo la morte dei miei genitori, avvenuta dieci anni prima, io e Andrea eravamo diventati più forti insieme. La nostra era una splendida convivenza fatta di collaborazione, rispetto, comprensione e sostegno. Non avrebbe risolto i suoi problemi cercando di emigrare, ma volevo rispettare la sua scelta.
Andrea partì. La casa era vuota e io per colmare quel vuoto e sfuggire alla sofferenza riempivo la mia giornata di lavoro e attività buddista. Dieci giorni dopo la sua partenza arrivò la comunicazione che fissava la data della prova orale. Andrea aveva superato la prova scritta per ottenere una posizione a mio parere molto importante dal punto di vista professionale. Ero felicissima: le mie preghiere avevano ottenuto risposta. Andrea sarebbe tornato, avrebbe sostenuto e superato la prova orale e ottenuto un buon lavoro a tempo indeterminato. Appena glielo comunicai mi rispose che non sarebbe tornato in Italia e che voleva vivere fino in fondo l’esperienza che aveva scelto.
Lasciai immediatamente il mondo di Estasi per piombare in uno stato di rabbiosa impotenza. Mi rivolsi subito al Gohonzon e recitai Daimoku con tutta me stessa per affrontare quel dolore. Recitavo e leggevo le parole di Ikeda sulla relazione fra madre e figlio: «”Tutti i miei onori appartengono a mia madre”: il Buddismo insegna che tutti gli sforzi diligenti da parte di una madre che sostiene la Legge mistica producono la fortuna, la virtù e gli onori del figlio. A maggiore ragione ciò si applica a voi dato che i vostri sforzi diligenti sono volti alla propagazione della Legge mistica. I benefici delle vostre azioni meritorie non mancheranno in alcun modo di estendersi ai vostri figli. […]. In una lettera scritta a una credente, Nichiren accenna alla forza del legame tra madre e figlio e considera un’unica cosa la fortuna e la virtù che essi condividono: “Il corpo di un figlio è nato dal corpo di sua madre, e le ossa della madre non sono differenti dalle ossa del figlio”. La grande fede di una madre porta alla felicità del figlio e alla pace della società. Vi prego di essere convinte di ciò» (Il Gosho e la vita quotidiana, D. Ikeda, Esperia, 75-76).
Al termine della lettura mi chiedevo: «Ma io sono davvero convinta di tutto questo?».
Dovevo trasformare la mia terra impura in una terra pura, cambiando il mio cuore e affrontando la situazione con coraggio. La soluzione al mio problema stava nel dedicarmi alla mia felicità e alla realizzazione della mia vita, senza pensare che sarei stata felice solo se mio figlio avesse realizzato il progetto di vita che avevo scelto per lui. Come scrive Natalia Ginzburg: «Una vocazione è l’unica vera salute e ricchezza dell’uomo. Quali possibilità abbiamo noi di svegliare e stimolare nei nostri figli la nascita e lo sviluppo d’una vocazione? […] Se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l’abbiamo tradita, se abbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, a servirla con passione, possiamo tenere lontano dal nostro cuore, nell’amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l’abbiamo o se l’abbiamo abbandonata o tradita, per cinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amor paterno, o per qualche piccola virtù che si è installata in noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago al tronco dell’albero, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che siano assolutamente senza scampo quali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita quanto a noi è mancato; finiamo col chiedere a loro tutto quanto può darci soltanto la nostra vocazione stessa: vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se si trattasse non di esseri umani, ma di opera dello spirito. Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l’abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dell’ombra e dello spazio che richiede il germoglio di una vocazione, il germoglio di un essere. Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di riuscire loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l’amore alla vita genera amore alla vita» (Le piccole virtù, Einaudi, 1962).
Dedicandomi alla mia missione, amando la mia vita e avendo cura della mia felicità sono riuscita a trasformare la sofferenza, a liberare Andrea da ogni pretesa. Così, dopo quattro mesi è tornato a casa con l’intenzione di trasferirsi in Brasile per sei mesi l’anno. Nel frattempo ha superato un altro concorso ed è in attesa di iniziare il lavoro, ma a Cervia (Italia), il paese dove ama vivere perché c’è il mare e dove ha incontrato una compagna meravigliosa.
E io sento di aver fatto un passo avanti nella mia rivoluzione umana.