In armonia con il principio buddista di unicità di corpo e mente (shiki shin funi) anche la medicina prende sempre più coscienza di come tante malattie “apparentemente” fisiche abbiano radici psichiche e spirituali
La relazione tra corpo e mente è un principio che nel Buddismo è chiamato shiki shin funi. Shiki significa materia, fenomeni fisici del corpo umano compreso; shin è la mente e tutti i fenomeni spirituali: ragione, percezione, emozione e volontà; funi è un’abbreviazione di nini funi che letteralmente significa «due ma non due».
La medicina psicosomatica, che studia le ripercussioni dei fenomeni psichici sull’organismo, ha trovato la sua veste dottrinale solo nella prima metà del novecento. Con la sua affermazione cominciò a farsi strada l’idea che dietro ogni forma di patologia accanto a fattori fisici giocassero un ruolo importante fattori psicologici.
Il termine «malattie psicosomatiche» non si riferisce, come tanti pensano, a malattie immaginarie, ma a malattie che si manifestano come conseguenza di un disagio della personalità, di uno stress o di un’abitudine sbagliata ripetuta a lungo.
Esistono varie malattie di origine psicosomatica: in molti tipi di allergie, asma, ulcera gastrica, malattie della pelle, la componente psicologica gioca un ruolo fondamentale e spesso si è vista regredire una malattia della pelle con farmaci contro l’ansia o con la psicoterapia, l’ipnosi o semplicemente risolvendo un disagio di vita, mentre a volte con l’uso di pomate specifiche la malattia addirittura peggiora.
Nel processo della somatizzazione, o conversione somatica, un ricordo o un pensiero spiacevole viene allontanato dalla coscienza tramite il processo della rimozione. Ma l’energia legata a quel ricordo non sparisce. Tramite la compiacenza di un organo, quell’energia innerva una determinata zona del nostro corpo, producendo un sintomo fisico.
Freud si era accorto che con l’ipnosi era possibile far ricordare al paziente il trauma dimenticato, ma anche che il disagio permaneva: non essendo cresciuta la capacità della mente di contenerla, quell’energia tornava prima o poi a spostarsi in un altro sintomo, oppure in un disturbo psichico; senza una sufficiente elaborazione, l’angoscia tornava a essere «liberamente fluttuante».
Secondo questo approccio la malattia non è da considerarsi un nemico ma un messaggio: il corpo ci parla di un problema che spesso il malato rifiuta di vedere. Il contenuto inconscio che non può più essere represso e si manifesta nel corpo “palesa” ciò che vorremmo nascondere. In questo senso la malattia che si manifesta nel corpo ci può rendere veramente sinceri.
La malattia può essere affrontata in due modi: restando annichiliti da una diagnosi e considerandosi vittime impotenti, oppure comprendendo il suo invito a cambiare.
Lo stress – Quando nella vita quotidiana c’è una dissociazione tra ciò che vogliamo realmente e la realtà esterna, a livello fisico vengono liberati una maggiore quantità di ormoni che vanno a incrementare certe funzioni degli organi, sottoponendo a volte gli stessi a un lavoro superiore al normale. Un sistema immunitario indebolito dallo stress è una porta spalancata all’intrusione di virus e batteri.
Tre fattori caratterizzano uno stile di personalità resistente allo stress: dedizione, controllo e sfida.
Le persone coraggiose si dedicano a se stesse e alle attività quotidiane con partecipazione e interesse, credono di poter controllare attivamente gli eventi della vita quotidiana senza subirli e soprattutto guardano ai cambiamenti della vita come a un’eccitante sfida per un’ulteriore crescita invece che a una minaccia. La sfida è caratterizzata da un atteggiamento che accoglie il cambiamento senza fuggire, come una parte naturale della vita. Queste qualità vengono attivate dalla pratica e dall’attività buddista. Il Buddismo inoltre ci insegna a far emergere la condizione di Illuminazione dalla nostra vita presente e a ricercare il “raggiungimento della Buddità nella forma presente” (sokushin jobutsu).
Quanto è grande il nostro contenitore? – La vita ci presenta continuamente situazioni spiacevoli. Nichiren Daishonin scrive che «dopo tutto nessuno può evitare i problemi, neppure i santi o i saggi» (Felicità in questo mondo, SND 4, 157).
Dato che il contenitore capace di accogliere le sofferenze spesso è piccolo, abbiamo due alternative: allontanare quei pensieri, rimuoverli; oppure allargare il contenitore: dedicandoci agli altri, stando loro vicini, ascoltandoli quando soffrono e allenandoci ad ascoltare noi stessi, a prendere confidenza con quei pensieri che ci risultano spiacevoli e inquietanti.
Da un lato l’essere umano ha bisogno di sentire assicurate le proprie esigenze di stabilità psicologica, affettiva e di sicurezza materiale, mentre dall’altro non c’è nulla di garantito in assoluto. L’uomo desidererebbe poter controllare tutto ciò che lo riguarda: è quello che Freud chiamava “onnipotenza narcisistica”.
Non sopportiamo di avere certi pensieri nella nostra mente e questo porta alla somatizzazione. Per esempio non digeriamo il fatto di avere sentimenti di odio verso persone che dovrebbero esserci care. È normale odiare se stessi? È normale avere desideri che se messi in atto provocherebbero lo sfascio della propria famiglia? Anormale è non ammettere il conflitto! Anormale è pensare di poter eliminare completamente certi pensieri e certi desideri! Potremo un giorno eliminare dalla nostra vita questo conflitto? Saremo in grado di controllare in modo assolutamente perfetto noi stessi e il nostro ambiente? Secondo una certa psicanalisi questa pretesa è la radice delle illusioni dell’essere umano, la radice di ogni sua psicopatologia. L’essere umano non potrà mai azzerare questo conflitto, semplicemente perché l’essere umano è questo conflitto.
Nemmeno il Buddismo del Daishonin si propone come mezzo, tecnica o pratica per eliminare definitivamente ogni conflitto dalla vita dell’essere umano. Su questo punto il Daishonin prende le distanze dagli “insegnamenti provvisori” i quali promettono di eliminare radicalmente dall’esistenza quel conflitto che secondo Nichiren è invece costitutivo della vita stessa: «Il bene e il male sono inerenti alla vita sin dal tempo senza inizio. Secondo gli insegnamenti provvisori e le varie sette [che si basano su di essi], il bene e il male esistono solo fino allo stadio di togaku, per cui nello stadio di togaku o negli stadi inferiori, tutti hanno qualche colpa. Al contrario, secondo il principio di ichinen sanzen della setta Hokke il bene e il male sono presenti anche nello stadio di myogaku» (Curare la malattia, SND, 5, 78). L’oggetto di culto non è un essere perfetto al quale noi riusciremo un giorno ad assomigliare, ma è la nostra vita così com’è, nella forma presente.
Come allargare il contenitore – Visto che non è possibile allontanare definitivamente dal contenitore tutto ciò che non ci piace, non ci resta che allargarlo, ovvero aprire la nostra vita, in modo tale che sia in grado di contenere i pensieri spiacevoli, i desideri disdicevoli e gli accadimenti intollerabili. Come?
- Possiamo interrogarci, allenarci a guardare anche ciò che di noi stessi non ci piace e parlarne a un’altra persona allo scopo di prendere confidenza e familiarizzare con tali aspetti spiacevoli e inquietanti della nostra vita.
- Possiamo ascoltare gli altri e stare loro vicino quando soffrono, per acquistare più saggezza e allargare il nostro contenitore, in modo tale che quando torneremo, arricchiti di esperienza, a confrontarci con i nostri problemi personali, li vedremo ridimensionati.
- Possiamo recitare Daimoku, coltivando la determinazione di prenderci cura della vita così com’è, con tutti i suoi eterni conflitti e le sue inevitabili e meravigliose contraddizioni.
Non dobbiamo dimenticare che lo scopo principale della recitazione del Daimoku non è far sparire la sofferenza, ma aprire la propria vita e diventare più forti.
L’attività fisica – Anche la pratica di attività fisiche e degli sport favorisce un miglioramento dell’equilibrio psico-fisico. Uomini e donne di qualsiasi età possono migliorare la loro funzionalità cardiaca, respiratoria e muscolare con una regolare attività fisica. Parallelamente al miglioramento della forma fisica si delineano i benefici di ordine psicologico: un incremento della estroversione, della fiducia in se stessi e della consapevolezza di sé. È stato anche osservato un miglioramento della memoria negli individui anziani sottoposti ad attività fisica programmata.
Usiamo la mente creativa per la salute – Il pensiero può trasformare noi e il nostro ambiente. Se vogliamo fare di noi stessi persone serene ed equilibrate occorre avere ben chiara nella nostra mente l’immagine di come vogliamo diventare. La proiezione costante di tale immagine serve per migliorare noi stessi e il nostro modo di essere. Il sistema nervoso umano non può stabilire la differenza tra un’esperienza reale e un’esperienza immaginata intensamente e nei minimi particolari. È importante cancellare dal nostro vocabolario i termini negativi e cercare di cambiare il nostro atteggiamento mentale e il nostro comportamento da negativo a positivo.
Il Mahatma Gandhi disse: «Le persone diventano ciò che credono di essere». Daisaku Ikeda, presidente della SGI, parla dell’importanza del pensiero: «Con il potere del pensiero e con la forza della convinzione e determinazione possiamo indirizzare la realtà della nostra vita verso ciò in cui crediamo e realizzarla nel modo in cui la dipingiamo nella nostra mente. Se siamo fermamente convinti di poter fare una cosa, sicuramente la realizzeremo».
• • •
Il veleno è davvero una medicina
Quattro anni prima di ricevere il Gohonzon ero diventata epilettica. I miei attacchi erano così gravi che ogni volta dovevo essere ricoverata in ospedale e mi ci voleva una settimana per riprendermi. Una volta compreso che gli attacchi non sarebbero cessati, fui sottoposta a lunghi esami per scoprire quale fosse il miglior trattamento per il mio caso. Alla fine mi diedero delle medicine da assumere quotidianamente che mi stordivano, mi provocavano sonnolenza o mi facevano perdere la memoria. Decisi di non prenderle e iniziai a cercare delle terapie alternative. In quel periodo incontrai questa pratica.
Scoprii che recitando potevo prevedere quando mi stava per venire un attacco epilettico ma, sebbene fossi grata per questo, sentivo che non sarei stata davvero bene finché non avessi compreso la causa della malattia. Avvertivo infatti che c’era qualcosa di completamente sbagliato nella mia vita: per quanto cercassi disperatamente di essere buona o di fare “la cosa giusta”, finivo sempre per essere sconfitta. Lo capii ancora meglio quando imparai grazie alla filosofia buddista che la sofferenza umana è il risultato dei tre veleni di Avidità, Collera e Stupidità che sorgono dagli stati inferiori della vita. Alla fine della lezione in cui era stato spiegato questo punto, il relatore suggerì di recitare Daimoku per sfidare il particolare veleno che dominava la vita di ciascuno.
Tornata a casa, decisi di raccogliere questa sfida. Nel giro di pochi minuti mi ritrovai sconvolta dalla rabbia. Ne fui scioccata, giacché mi ero sempre considerata una persona ragionevole e controllata. Ero così inorridita dalla mia scoperta che avrei voluto nascondermi in un angolo buio. Mi sembrava di essere diventata trasparente e che ognuno potesse vedere quell’orribile collera che trasudava da dentro di me, o che potesse percepirla nella mia voce. Ini-zialmente recitai Daimoku perché scomparisse: non riuscivo a conviverci. Ma più recitavo, più diventavo rabbiosa; mi resi conto che la collera non sarebbe semplicemente evaporata. Il solo modo per farla scomparire era affrontarla di petto di fronte al Gohonzon, sperimentandola per quello che era e vincerla, anche se non sapevo come.
Continuando a recitare per questo problema, mi resi conto che tutta la mia sofferenza era una conseguenza della mia collera, perché collera non vuol dire semplicemente pestare i piedi e urlare, ma è anche il risentimento, gli atteggiamenti critici, il lesinare il proprio tempo e gli sforzi, come anche la mancanza di gratitudine, di rispetto e di sincerità. Riuscivo a vedere tutte queste cose nella mia vita: nella mia insoddisfazione, nei miei problemi al lavoro e nelle mie relazioni fallimentari.
Alla fine mi resi conto che proprio perché era talmente grande, avevo represso la collera profondamente dentro me: era troppo orribile da sopportare. La mia epilessia non era altro che una valvola di sfogo che si apriva quando il mio sistema non poteva tollerare un secondo di più la pressione di questa rabbia accumulatasi. In altre parole la mia malattia era solo un altro sintomo di una profondissima collera.
Decisi di risolvere il mio problema di lì a poche settimane, sfruttando un’importante attività della SGI inglese: sentivo che facendo il massimo per gli altri avrei potuto cambiare la collera che stava avvelenando la mia vita. Il Daimoku mi portò a un’altra importante rivelazione: arrivai a considerare positivamente la mia collera. La collera genera un’incredibile energia che può essere convogliata per creare vero valore. Poteva essere la mia arma più preziosa nella lotta per cambiare tutta la mia vita.
Più l’evento si avvicinava, più la collera peggiorava, anche se il giorno dell’evento fui talmente impegnata da non avere nemmeno un secondo per pensare a me stessa. Il lunedì seguente mi svegliai e sentii che nonostante tutti i miei sforzi nulla era cambiato. Di conseguenza, mia arrabbiai più che mai e recitai e recitai Daimoku per cambiare veramente la mia vita. Non ero mai stata così sincera.
Poi, quasi naturalmente, quel cambiamento avvenne; trovavo nuovi modi per risolvere i vecchi problemi al lavoro e per gestire i nuovi; iniziavo ad avere contatti più facili con le altre persone e, poiché la mia compassione cresceva, trovavo più facile dire agli altri che anche loro potevano diventare felici tramite la pratica di questo Buddismo. Non solo: mi riavvicinai alla mia famiglia. I medici ora mi considerano guarita dall’epilessia. Grazie a ciò sono riuscita a parlare del Buddismo a diversi medici, a contribuire a una migliore comprensione delle cause di questa malattia e a incoraggiare altri malati nella loro lotta.
L’energia che una volta appariva come collera si sta trasformando sempre di più in passione per realizzare la felicità, mia e degli altri. Quest’esperienza mi ha dato la convinzione che qualsiasi cosa accada posso vincere con il Gohonzon. Considero la mia collera una valida compagna sul sentiero verso un mondo pacifico e creativo basato su questo Buddismo e sono orgogliosa e grata di aver ricevuto questo dono prezioso e di essere in grado di apprezzarlo per quello che è.
Angela Boulder
da I dieci mondi (The Buddha in Daily Life), di Richard Causton (ed. Esperia, di prossima pubblicazione)
• • •
Il mio segreto? Amare la vita
Praticavo il Buddismo da circa sei anni e avevo avuto già parecchie esperienze e conferme dalla pratica quando ebbi due polmoniti nel giro di pochi mesi. La seconda volta non volevo nemmeno farmi visitare, pensando superficialmente che la tosse prima o poi sarebbe scomparsa da sola; ma il mio corresponsabile, che lavorava in pronto soccorso, mi portò quasi di peso in ospedale e appena in tempo!
Dopo le cure, nonostante fossi “clinicamente” guarita, i disturbi legati ai bronchi e ai polmoni non diminuivano: venne fuori che in seguito alla polmonite mi si era scatenata un’asma allergica. Tutte le mattine, tra le quattro e le sei, mi svegliavo con una crisi d’asma: dapprima tossivo, poi la cosa peggiorava al punto che dovevo correre in bagno a vomitare quel groppo che mi serrava la gola, sudando e contorcendomi. Spesso tutto ciò andava avanti anche più di un’ora e alle prime luci dell’alba me ne tornavo a letto stremata. Per fortuna svolgevo un’attività che mi consentiva di gestire gli orari in modo autonomo, altrimenti avrei perso anche il lavoro. Perché tutto questo durò, praticamente tutti i santi giorni, più di due anni.
Tutto il mio ritmo di vita era condizionato da queste difficoltà e io recitavo Daimoku per star bene, per poter dare il mio contributo in tutti gli ambiti in cui ero coinvolta e non lesinavo gli sforzi nell’attività (nel frattempo ero diventata responsabile giovani di capitolo). Facevo progressi nel lavoro e nell’attività buddista, ma non sembravano esserci miglioramenti nella mia condizione di salute. Cominciai a recitare per capire il perché non riuscissi a guarire del tutto, provocando tra l’altro gravi preoccupazioni ai miei genitori. Intrapresi un percorso di approfondimento personale, comprendendo che quello che mi «costringevo» a buttare fuori al mattino era ciò che non riuscivo a esprimere, a tirare fuori da me stessa; mi sforzai di diventare più coraggiosa, di osare dire tutto ciò che provavo e pensavo. E una mattina arrivò la risposta del Gohonzon, durante una delle crisi più faticose: una felicità assoluta nel mezzo di quella condizione miserevole, con quel corpo provato, piegato dagli spasmi. Sentii che era bello vivere anche se avessi dovuto continuare a farlo in quelle condizioni, anche se era così dannatamente, fisicamente faticoso. Capii che il mio nodo cruciale era proprio la mancanza di legame con la vita: avevo sempre avuto difficoltà a sentirne il valore. Dentro di me covava un’oscura sensazione di mancanza di senso dell’esistenza. La malattia era stata un dono del Gohonzon per farmi arrivare a una consapevolezza così importante. Non guarii “miracolosamente” dopo quella rivelazione, fu piuttosto un miglioramento graduale e impercettibile.
Sono passati dieci anni. Ogni tanto, in periodi in cui sono particolarmente stanca, mi capita di avere qualche piccola “crisi”, in realtà pallide reminiscenze di quel periodo. Li considero preziosi moniti per riportarmi a me stessa, alle cose che veramente contano nella vita: semplicemente vivere!
Monica Rossi