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Il destino di un cuore puro - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:14

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Il destino di un cuore puro

«Il suo sorriso era caldo e i suoi grandi occhi erano chiari e luminosi. Aveva un carisma sublime. Ero incantato dalle enormi possibilità che quel giovane incarnava», così Ikeda descrive il primo ministro indiano Rajiv Gandhi, e racconta come abbia saputo affrontare con determinazione la propria missione, «fino all’ultimo istante»

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«Il suo sorriso era caldo e i suoi grandi occhi erano chiari e luminosi. Aveva un carisma sublime. Ero incantato dalle enormi possibilità che quel giovane incarnava», così Ikeda descrive il primo ministro indiano Rajiv Gandhi, e racconta come abbia saputo affrontare con determinazione la propria missione, «fino all’ultimo istante»

Che cos’è il destino per l’uomo? Quale la sua missione nella vita?
La prima volta che incontrai il primo ministro indiano Rajiv Gandhi (1944-1991), avvertii dietro il suo portamento principesco la ferma determinazione di un uomo pronto a rischiare la vita per le proprie convinzioni. Inizialmente non aveva alcuna intenzione di entrare nel mondo della politica.
Suo nonno, Jawaharlal Nehru (1889-1964), fu il primo ministro dell’India indipendente e sua madre, Indira Gandhi (1917-1984), figlia di Nehru, fu il terzo primo ministro dell’India. Il destino dell’India, la più vasta democrazia del mondo, paese antico ma pur sempre nuovo, è stato per molti anni nelle mani di questa famiglia. Quando Indira aveva quattro o cinque anni, tutta la sua famiglia era impegnata attivamente nel movimento per l’indipendenza indiana, guidato dal Mahatma Gandhi (1869-1948).
La polizia visitava costantemente la loro casa. Il padre di Indira e suo nonno, e alla fine perfino sua madre, furono tutti arrestati. La bambina faceva un gioco davvero molto particolare con le sue bambole – i protagonisti del gioco erano un padre, una figlia e un poliziotto. Nel gioco il padre era a casa con la bambina che, al sopraggiungere improvviso di un poliziotto esclamava: «Papà è tempo per te di andare di nuovo in prigione. Forza preparati!». Il poliziotto conduceva il padre in prigione; la figlia lo andava a trovare. Dopo poco, egli veniva rilasciato e poteva tornare a casa. Purtroppo, anche nella realtà la figlia si ritrovò a gridare: «Papà il poliziotto è di nuovo qui!».
All’età di ventiquattro anni, sposata da appena sei mesi, anche Indira fu imprigionata. Ella trascorse undici mesi in una cella opprimente, fredda e buia, maltrattata dai suoi carcerieri. Le autorità adottavano allora un atteggiamento particolarmente severo verso le donne criminali, poiché temevano che il movimento di resistenza potesse guadagnare ampi consensi anche tra le donne.
Rajiv, figlio maggiore di Indira, nacque l’anno successivo al suo rilascio. Suo padre, Nehru, ancora in prigione, ne fu felicissimo. Fu lui a chiamare il ragazzo Rajiv che, nella lingua hindi, significa “loto”. Fedele a questo significato, Rajiv fu un ragazzo affettuoso, nobile e dal cuore puro.

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Il 29 gennaio 1948, Indira andò a trovare il Mahatma Gandhi, portando con sé Rajiv che all’epoca aveva poco più di tre anni. Gandhi, che indossava con disinvoltura un cappello di paglia bengalese, li salutò calorosamente. Egli era sempre di buonumore. Quando si accovacciò sul pavimento, il piccolo Rajiv iniziò a giocare con i piedi del Mahatma, mettendo dei fiori sui suoi alluci.
Il giorno successivo il Mahatma fu assassinato da un fanatico indù.
Gandhi aveva sempre insistito sul fatto che l’indipendenza e l’unità sarebbe stata impresa impossibile per l’India finché lo stato avesse interferito con la religione. Egli attribuiva proprio a questa interferenza il protrarsi dei violenti conflitti tra le differenti religioni. Accorato era il suo appello: «Siamo obiettivi e impegniamoci nel dialogo, e proteggiamo la democrazia in India». Le sue convinzioni suscitarono la collera di coloro che avevano una mentalità ristretta e inflessibile.
Più tardi Indira Gandhi scrisse: «Non pensavamo certo quel giorno che non avremmo mai più rivisto il suo sorriso, aperto e senza denti, e che non avremmo più sentito il calore della sua protezione». Nessuno di loro avrebbe potuto supporre che i tre Gandhi radunati là quel giorno, sarebbero stati accomunati da un medesimo destino: tutti e tre avrebbero incontrato una morte violenta per mano di assassini.

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Rajiv Gandhi crebbe e divenne un pilota della compagnia aerea Indian Airlines. Amava gli animali, gli uccelli e l’arte e, sia lui che quelli che gli gravitavano intorno, riconoscevano che non era affatto portato per una carriera politica. Nel 1968 sposò Sonia, una giovane italiana che, come lui, studiava alla Cambridge University.
Non fu certo facile per Sonia adattarsi alla sua nuova patria, una terra decisamente poco familiare per lei. Ella sembrava tuttavia destinata a condurre una vita pacifica e felice in India, come moglie di un pilota aeronautico. Tuttavia, nel 1980, il suo destino ebbe una improvvisa e inaspettata svolta. Il fratello più giovane di Rajiv, Sanjay, un rappresentante della Camera Bassa del parlamento indiano, restò ucciso in uno scontro aereo. La morte di Sanjay, che avrebbe dovuto essere il successore politico di sua madre, spinse Rajiv Gandhi a decidere di entrare in politica. Per la prima volta nel loro matrimonio, Sonia si oppose alla decisione del marito. Ella aveva visto, infatti, quello che sua suocera Indira Gandhi aveva dovuto sopportare, quotidianamente, come primo ministro.
L’India era una nazione di settecento milioni di abitanti, teatro di una lotta dura e sanguinosa per problemi di razza, religione e caste. Quando il paese contava solo metà dell’attuale popolazione, il primo ministro Nehru fu chiamato a rispondere alla questione: «Quanti problemi affliggono l’India?». La sua risposta fu la seguente: «L’India deve far fronte a trecentocinquanta milioni di problemi».
Per governare la tumultuosa terra indiana, Indira Gandhi dovette consacrare la sua intera vita a questo scopo e abbandonò ogni cosa per l’interesse della nazione. Sempre circondata da tradimenti, gelosie e loschi intrighi, una volta commentò: «In India la diffusione di voci false è quasi un’industria». Sonia Gandhi riteneva anche che la suocera fosse terribilmente incompresa. Indira Gandhi non fu mai un dittatore come i suoi oppositori politici la dipingevano. Fu una donna coraggiosa che visse per l’interesse della sua nazione e fu una persona estremamente gentile e premurosa.

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Il primo ministro Indira Gandhi fu assassinato dalla sua guardia del corpo di etnia sikh il 31 ottobre 1984.
Quando fu ritrovato il testamento con le sue ultime volontà, fu subito chiaro che Indira aveva previsto la possibilità di una morte imminente. Ella aveva scritto infatti: «Nessun odio è buio abbastanza da offuscare la vastità del mio amore per la mia gente e per il mio paese; nessuna forza è forte abbastanza da distogliermi dal proposito e dallo sforzo di far progredire questo paese». Una volta, quando le fu chiesto quale fosse la cosa più importante che suo padre Nehru le aveva trasmesso, Indira rispose di aver ereditato da lui il grande amore per il popolo indiano. Come espressione di quell’amore, ella disse: «Morirei, piuttosto che subire senza reagire».
Dopo la morte di sua madre, Rajiv Gandhi fu l’unico candidato in grado di rivestire il ruolo di primo ministro. Egli sapeva bene che assumersi tale responsabilità significava anche ereditare il rischio di essere assassinato, quello stesso rischio che aveva tolto la vita a sua madre. Rajiv Gandhi aveva allora quarant’anni. Quando decise di accettare il mandato che gli fu conferito in modo così tragico, egli prese la mano di sua moglie, Sonia, la strinse con forza e le disse di non avere scelta. Egli mise anche per iscritto il suo ultimo desiderio di restare per l’eternità accanto alla sua adorata moglie, indipendentemente da ciò che avrebbe potuto succedergli, chiedendo che le loro ceneri venissero gettate insieme nel fiume Gange.
Un uomo pronto a morire non ha paura di nulla. Il giovane primo ministro gettò il suo sguardo sul ventunesimo secolo e incalzò ottenendo un risultato dopo l’altro. Egli liberalizzò l’economia introducendo capitale straniero e tecnologie, portando in questo modo l’India a una considerevole crescita economica e avviò trattative di pace con la Cina e il Pakistan, paesi con i quali i rapporti erano da lungo tempo piuttosto tesi. Mentre Rajiv svolgeva la sua carica di primo ministro, Michail Gorbaciov divenne segretario generale dell’Unione Sovietica. L’esperimento di creare un nuovo secolo da una nuova generazione di leader iniziò a cambiare il mondo.

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L’anno successivo alla sua nomina, incontrai il primo ministro Gandhi per la prima volta a Tokyo, dopo il discorso da lui tenuto davanti alla Dieta nazionale del Giappone il 29 novembre 1985. Durante il suo intervento, egli lanciò un appello: «Liberiamoci della divisione mentale che impedisce una visione nobile della famiglia umana, unita insieme nella pace e nella prosperità. Il messaggio di compassione del Budda è la vera condizione della sopravvivenza umana nella nostra epoca». Gli dissi che, da buddista, non potevo che concordare con tale messaggio, peraltro proveniente proprio dall’India. Il primo ministro sottolineava sempre la sua convinzione che l’etica dell’India della nonviolenza e della tolleranza avrebbe giovato al mondo intero nella sua ricerca di pace e giustizia. Il suo sorriso era caldo e i suoi grandi occhi erano chiari e luminosi; il suo abbigliamento dignitoso e leggiadro.
Aveva un carisma sublime. Quando parlò delle alte speranze che nutriva nei giovani e della sua convinzione dell’importanza di valorizzare il ruolo delle donne nella società, vidi l’illuminazione del nuovo secolo a venire. Ero incantato dalle enormi possibilità che quel giovane incarnava e sapevo che sarebbe diventato un grande primo ministro, proprio come un alberello giovane e forte può diventare un albero vigoroso e maestoso.

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Nel maggio 1991 si verificò una tragedia che scioccò il mondo intero. Nel corso della sua campagna elettorale, una donna terrorista che si offrì come “bomba umana”, uccise Rajiv Gandhi. Nel condurre questa campagna, pur sapendo i rischi a cui andava incontro e a dispetto degli avvertimenti dei suoi assistenti, Rajiv aveva insistito per uscire tra la gente.
In tutta l’India il tempo si fermò. Le prospettive del nuovo secolo sembrarono sprofondare nuovamente. Le bandiere furono abbassate a mezz’asta in tutto il mondo; ovunque le persone compiansero la perdita di un grande uomo. B.N. Pandey, discepolo diretto del Mahatma Gandhi, esprimendo il suo dolore, dichiarò: «Le parole non riescono a trasmettere la mia afflizione per la tragedia dell’assassinio di Rajiv Gandhi che sacrificò la sua vita per compiere la missione e il compito che gli erano stati affidati. Il tributo migliore che possiamo offrire a Rajiv, è di promuovere un’armonia comune, sentimenti fraterni tra tutte le comunità e di salvaguardare l’unità e l’integrità del paese». Le parole del dottor Pandey, mio amico, esprimevano con esattezza il mio stato d’animo.

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L’anno successivo, nel febbraio 1992, visitai l’India e portai dei fiori al monumento funebre di Rajiv Gandhi. Mi recai anche a casa di Sonia Gandhi per farle visita. Erano passati nove mesi dalla morte del suo amato marito. Era praticamente impossibile che, in quel poco tempo, si fosse già ripresa dal dolore. Guardando i suoi occhi, volli confortarla e incoraggiarla. Le dissi: «Sebbene possano esserci piogge torrenziali e notti buie, se supera queste cose, l’aspetta un abbagliante mattino, colmo di felicità. Più profonda è la sua sofferenza, più radiosa e più luminosa sarà la felicità che la saluterà all’alba. La vita di coloro che hanno sopportato grandi tragedie splenderà con il massimo fulgore». E la esortai ancora dicendole: «La prego di trarre valore da questa tragedia. La prego di trasformare il suo destino in una grande missione. Sebbene possa essere difficile non voltarsi indietro a guardare il passato, la prego di continuare ad avanzare. Questo è l’insegnamento del Buddismo, che è nato nella grande terra dell’India». Provai gioia quando Sonia mi sorrise facendomi un cenno di assenso col capo. Lei e suo marito amavano molto la poesia Madre India, Terra del Leone che avevo composto per lui, e l’avevano letta anche ai loro amici.

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Ricordo l’ultimo discorso di Indira Gandhi prima della sua morte. Ella dichiarò: «Non mi importa di vivere o morire. Finché avrò fiato continuerò a essere utile. E quando morirò ogni goccia del mio sangue nutrirà e rafforzerà il mio paese libero e unito».
Rajiv Gandhi lottò con la stessa determinazione. Trascendendo vita e morte, egli diede se stesso con tutto il suo cuore al suo paese, fino all’ultimo istante. Solo noi possiamo determinare quale sarà il nostro destino e la nostra missione. Tuttavia, è molto importante stabilire a quale scopo dedichiamo la nostra vita. La forza o debolezza della nostra determinazione fanno la differenza, decretando la sconfitta di una vita alla mercé del destino o la vittoria di una vita nobile e splendente di successi.
In occasione della visita al monumento funebre di Rajiv Gandhi scrissi queste parole: «Talvolta le vite dei grandi leader sembrano tragiche, ma sono rappresentazioni grandiose che, in realtà, servono a risvegliare le persone». E quando mi soffermai a guardare il cielo di Nuova Delhi, ebbi la netta sensazione di vedere il sorriso caldo e accogliente di Rajiv Gandhi.

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