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Il desiderio di ricevere il Gohonzon - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:32

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    Il desiderio di ricevere il Gohonzon

    Nell’affidare il Gohonzon ai praticanti, questo è il vero criterio di cui tener conto. I recenti cambiamenti nelle modalità di consegna sono l’argomento dell’intervista di questo numero

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    Nell’affidare il Gohonzon ai praticanti, questo è il vero criterio di cui tener conto. I recenti cambiamenti nelle modalità di consegna sono l’argomento dell’intervista di questo numero

    Redazione: Fino allo scorso anno i Gohonzon venivano consegnati tre volte l’anno. Dall’inizio del 2005, le date di consegna dei Gohonzon si sono fatto più ravvicinate. Ogni quanto tempo si prevede di consegnare i Gohonzon? E saranno consegnati, oltre che nei Centri culturali, anche nelle case private?

    Nakajima: La frequenza delle consegne dei Gohonzon dipende dalle esigenze. In passato li consegnavamo una volta l’anno. Quando il numero delle persone che desideravano riceverlo è aumentato e non è stato più possibile riunirle tutte in un’unica cerimonia annuale, siamo passati a due e poi tre volte l’anno. Se in un anno le persone fossero centomila, dovremmo prevedere un gran numero di cerimonie. Potremmo arrivare a consegnare i Gohonzon anche tutti i giorni, come in Giappone, se le condizioni lo richiedessero: chi desidera ricevere il Gohonzon non deve aspettare un anno o alcuni mesi solo perché non c’è in programma una cerimonia di consegna.
    Portare il Gohonzon a casa, invece, è una cosa che non faremo mai. La persona che desidera ricevere il Gohonzon deve compilare la richiesta, poi venire a riceverlo. La consegna dev’essere interpretata come un’offerta da parte della Soka Gakkai.
    In passato avevamo adottato un criterio: sei mesi di pratica senza il Gohonzon seguiti da tre mesi di corso per prepararsi a riceverlo. Ancora prima non c’era nessun criterio, il Gohonzon poteva essere consegnato subito, se ce n’era una scorta disponibile. Ogni periodo ha le sue caratteristiche e le sue tendenze. Per esempio, chi è nato nel dopoguerra ha vissuto in un certo tipo di società e ha affrontato un certo tipo di problemi che chi è giovane oggi non conosce: è naturale che la tendenza di un giovane che vive nella società odierna sia diversa rispetto a chi è cresciuto negli anni ’50, ’60 o ’70. C’è un motivo se si adottano criteri diversi in periodi diversi. Adottare un nuovo criterio non significa che quelli adottati in passato fossero sbagliati. Negli anni ’60 le persone che si avvicinavano a noi erano interessate al Giappone o alla filosofia buddista, ma volevano conoscere, non praticare. Il loro approccio era molto intellettuale. Questo è un preciso tipo di tendenza. Pur ricevendo il Gohonzon, non decidevano veramente di praticare. Allora decidemmo di non consegnare subito il Gohonzon, ma di aspettare che la persona facesse almeno tre mesi di esperienza con la pratica buddista. Il motivo era soltanto permettere alle persone di praticare bene. Questo periodo di prova è stato progressivamente aumentato fino a raggiungere un anno, poi lo abbiamo un po’ diminuito perché un anno ci sembrava francamente troppo. Parallelamente, anche la nostra associazione è passata attraverso fasi diverse: da un gruppo spontaneo si è trasformata in associazione culturale, poi ente morale e infine istituto religioso.
    C’è sempre una ragione per stabilire un criterio. Spesso, però, si tende a dimenticare la sua vera finalità e i motivi per cui è stato stabilito e questo prende il sopravvento. Allora si possono verificare casi limite come negare il Gohonzon a chi magari stava praticando da cinque mesi e ventinove giorni invece di sei mesi o a chi aveva saltato anche una sola delle riunioni previste come corso di preparazione. Il criterio perde lo scopo di valorizzare la pratica individuale e in qualche caso, non certo in tutti, può sembrare pensato per scoraggiare le persone a ricevere il Gohonzon.
    Il punto è che ci scordiamo il motivo originale: si dimentica il cuore e rimane la formalità. Così anche per i vari manuali che abbiamo preparato nel corso degli anni: per i responsabili, per i keibi o per le byakuren e i sokahan. Finché c’è il cuore, il manuale è validissimo, ma se si dimentica il cuore il manuale diventa una rovina. Se pretendiamo di dare un giudizio sulla fede di una persona in base al tempo di pratica o al numero di riunioni che ha frequentato, significa che stiamo rimpiazzando la fede con la formalità.

    Redazione: Per poter scegliere di ricevere il Gohonzon in modo consapevole, cosa è necessario conoscere del Buddismo?

    Nakajima: La sola cosa che conta veramente è l’intenzione, la decisione di praticare il Buddismo. Si può formare ascoltando le esperienze, osservando il cambiamento degli altri, avvertendo intorno a sé il calore umano degli altri membri, il suono del Daimoku… qualcosa, insomma, che porti una persona a desiderare di provarci, che la spinga a decidere. Quando decide, la decisione è sua: questa è già una condizione sufficiente. Certo, è importante approfondire il dialogo con questa persona: penso che sia un modo valido per aiutarla a chiarire con se stessa il motivo per cui desidera ricevere il Gohonzon. Ma quando ha deciso di cominciare, non possiamo rifiutarci di consegnarglielo. Nessuno può arrogarsi il diritto di stabilire se ha fatto o meno abbastanza esperienza o se la sua comprensione del Buddismo è sufficiente. A proposito della comprensione e della conoscenza, ribadisco quello che ho detto prima a proposito degli intellettuali che si avvicinavano a noi negli anni ’60: studiavano molto e conoscevano bene il Buddismo, ma non decidevano mai di praticare. Penso che il punto sia invece se la persona è decisa a praticare. Verso la metà degli anni ’70 arrivarono in Italia alcuni musicisti americani che facevano molto shakubuku: non spiegavano quasi niente della filosofia buddista, ma insegnavano a recitare Daimoku. Chi iniziava così sentiva qualcosa che faceva crescere in lui o in lei la voglia di continuare, sperimentava dei cambiamenti nella sua vita e poi decideva di approfondire anche la filosofia, ma la pratica rimaneva al primo posto.
    Non è neanche necessario che si renda conto fino in fondo di entrare a far parte di un grande movimento come la SGI e che provi orgoglio e gratitudine. Questo è un punto di vista valido per noi che siamo coscienti di aver conosciuto il Buddismo e di potere praticarlo correttamente grazie alla Soka Gakkai. Per chi comincia è sufficiente praticare, fare Gongyo, Daimoku, shakubuku. Certo, in questo modo c’è il rischio che ciascuno tenda a praticare secondo la sua tendenza, a fare quello che gli piace e non fare quello che non gli piace, se la sua tendenza è studiare molto studierà, altrimenti no. Non si può dire che questo percorso sia del tutto sbagliato, ma dal momento che siamo tutti diversi, abbiamo tendenze diverse e diversa comprensione, se manca il confronto con gli altri ci si convince automaticamente di stare praticando correttamente. Restando isolati, ciascuno tende a seguire il suo carattere e il suo modo di ragionare. È naturale che ciascuno si formi il suo punto di vista, secondo il suo cervello e la sua situazione, ma ciò significa capire il Buddismo solo in base al proprio karma, e questa non è la comprensione corretta dell’insegnamento buddista. Ciascuno capisce meglio una parte del Buddismo, o una parte della vita. Per essere sicuri di aver capito bene, di stare praticando correttamente, bisogna sempre mettersi a confronto con le altre persone. Lo scopo dell’organizzazione è sostenerci gli uni con gli altri andando avanti insieme. Se l’organizzazione fosse potere e gerarchia, chi desidererebbe unirsi a noi? Fra di noi non esiste qualcuno che abbia capito, siamo tutti praticanti, dobbiamo aiutarci e sostenerci gli uni con gli altri e approfondire insieme sempre di più. Chi pretende di aver capito e di insegnare diventa arrogante. Quello che possiamo fare è mettere a disposizione degli altri la nostra esperienza, se può essere loro utile, senza pretendere però che facciano come diciamo noi, perché la vita di ciascuno è diversa. Chi pretende di insegnare il Buddismo è totalmente arrogante e, con un tale atteggiamento, è già fuori dal cuore della pratica buddista: in un Gosho Nichiren Daishonin scrive: «Fra i miei discepoli, quelli che credono di conoscere bene la dottrina sono quelli che sbagliano» (L’insegnamento per l’Ultimo giorno della Legge, SND, 5, 217).

    Redazione: È corretto decidere di ricevere il Gohonzon per verificare la pratica buddista o dovrebbe essere ricevuto solo quando si è convinti?

    Nakajima: All’inizio nessuno è convinto, può essere anche solo curiosità. Può darsi che stia seriamente cercando qualcosa per la sua vita, o che abbia una grande sofferenza e che desideri cambiare la sua situazione: è possibile che, avendo trovato qualcosa, decida di provarci, come farebbe qualcuno che ha una malattia incurabile e sentisse dire che hanno appena scoperto una medicina per la sua malattia: naturalmente cercherebbe di provarla. Attualmente però non ci sono molte persone che affrontano con serietà il problema della vita. Si affrontano i problemi che si presentano via via, i soldi, la salute, ma il problema a cui pochi pensano è: «Cos’è la vita, come devo viverla?». La causa di questo sono le cinque impurità che caratterizzano l’epoca di Mappo. [Le cinque impurità o contaminazioni (giapponese gojoku) sono: 1) l’impurità dell’epoca, che comprende guerre o altri turbamenti dell’ambiente sociale e naturale; 2) l’impurità del desiderio, in altre parole la tendenza a essere dominati da emozioni quali avidità, collera, stupidità, arroganza e dubbio; 3) l’impurità degli esseri viventi, che si manifesta nel declino fisico e spirituale degli esseri umani; 4) l’impurità del pensiero costituita dalla prevalenza di valori e concezioni errate; 5) l’impurità della durata della vita, ovvero la contaminazione della vita stessa, che conduce a una vita breve e disordinata. Il secondo capitolo del Sutra del Loto (Espedienti), afferma che il Budda appare nel mondo contaminato dalle cinque impurità, n.d.r.]
    Venendo casualmente a conoscenza del Buddismo si può avere una buona o una cattiva impressione. Se alla prima riunione si trovano delle persone arroganti, per esempio, è difficile che si decida di ritornare. Se invece si trova un ambiente caldo e accogliente dove tutti sono uniti, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di completamente diverso da quello che abbiamo vissuto fino a quel momento e ci si chiederà perché. Comincia a nascere un interesse, si ritorna una seconda volta, si decide di provare. Ascoltare gli altri recitare Daimoku significa già cominciare ad accettare e a ricevere qualcosa. Ascoltare le cose che vengono dette alla riunione, fare qualche domanda, anche questo significa accettare e partecipare, poi viene voglia di tornare alla prossima riunione, di provare a praticare. Un giorno si sentirà il desiderio di ricevere il Gohonzon e si chiederà come fare. Se la domanda è spontanea, si può fare la richiesta e riceverlo. Che sia ancora curiosità o interesse, si tratta di una persona che ha espresso il desiderio di ricevere il Gohonzon. Incoraggiare le persone a chiedere il Gohonzon, invece, è una cosa che va valutata caso per caso. Per esempio, se una persona inizia a praticare e frequenta le riunioni per un anno le si può chiedere se non trova difficoltà a praticare a casa sua senza il Gohonzon. Il processo dev’essere naturale, ma ciascuno ha la sua tendenza e può darsi che qualcuno abbia bisogno di un incoraggiamento. Non bisogna forzare nessuno, ma a volte può essere sufficiente fargli sapere che se lo desidera lo può ricevere. Alla base, comunque, deve esserci sempre il nostro desiderio che le persone diventino felici. Diventare felici con il Gohonzon o senza non è la stessa cosa. Ci viene da chiederci se chi sta per ricevere il Gohonzon sia serio nella sua pratica oppure no, ma non è un problema che ci dovrebbe riguardare: la decisione è solo sua. Che abbia già avuto esperienza o che stia ancora provando, la decisione è sua.

    Redazione: Chi decide di ricevere il Gohonzon deve aver deciso di praticare per tutta la vita? Come possiamo fare in modo che le persone non lascino la pratica?

    Nakajima: Nel momento in cui una persona decide di praticare non è detto che stia pensando al domani. Quello che conta è che pratichi seriamente e con forza. La convinzione di non lasciare il Gohonzon viene praticando. Importante è la decisione che ha adesso, la convinzione di praticare tutta la vita nasce successivamente. Per evitare che le persone lascino il Gohonzon, per prima cosa dobbiamo usarlo bene noi stessi, migliorarci, fare la nostra rivoluzione umana. È importante come ci comportiamo di fronte ai membri e alla società. In un gruppo tutti sono un esempio di come praticare bene. Non basta spiegarlo a parole, bisogna dare un esempio con il proprio comportamento. Non si può incoraggiare nessuno a fare shakubuku se noi per primi non ci sforziamo di farlo. Se hai questa decisione e la metti in pratica, incoraggiare gli altri è una cosa naturale. Se non lo fai non sei in grado di incoraggiare nessuno. Chi si comporta male allontana le persone, a maggior ragione se ha una responsabilità elevata: per esempio se si arrabbia senza motivo, alza la voce o pretende di zittire gli altri.

    Redazione: Fino a ora, ricevere il Gohonzon era considerato un punto di partenza, come è naturale, ma anche un po’ un punto d’arrivo, il momento a partire dal quale una persona poteva continuare a praticare anche da sola contando sulla sua convinzione. Adesso che chi riceve il Gohonzon è molto piu’ giovane di pratica, cosa deve cambiare nel modo di seguire queste persone?

    Nakajima: Come ho già detto, dobbiamo avere un continuo scambio di esperienza e andare avanti insieme. Non esiste un momento in cui si può restare da soli, così come non c’è un punto di arrivo. In nessun momento possiamo permetterci di cedere all’arroganza, perché per aiutare le persone ci dobbiamo migliorare costantemente. Se una persona che mi ha fatto una domanda ieri mi ripropone oggi la stessa domanda, la mia risposta deve essere diversa perché io sono già cresciuto rispetto a ieri, ho letto una frase in più, ho fatto un’esperienza in più e la utilizzo per i membri. Quando c’è l’arroganza, invece, non c’è più miglioramento, si pensa di essere arrivati.

    Redazione: È sempre necessario effettuare una visita a casa per verificare l’idoneità del luogo e l’accettazione da parte della famiglia? Visto che sono i responsabili di gruppo a seguire da vicino i nuovi partecipanti, è consigliabile che siano loro a farlo?

    Nakajima: La visita a casa non è per controllare gli aspetti tecnici e formali: dove è posizionato il butsudan e così via. Serve per conoscere meglio la situazione della persona, il suo ambiente, la sua famiglia che magari non pratica e ha accettato di ricevere il Gohonzon in casa. Per poterla aiutare meglio. Per noi è una persona in più che realizza la sua felicità. Visitare la casa è un modo in più per capire come incoraggiarla meglio. Spesso è la persona stessa che lo chiede: questo manifesta l’intenzione di trattare bene il Gohonzon, di praticare bene. La visita a casa, inoltre, non è un dovere da svolgere in occasione della consegna del Gohonzon, è un aspetto normale di una relazione umana, un modo per approfondire un legame. Tutti devono fare attività con gli altri, quindi tutti dovrebbero fare le visite a casa, non soltanto gli alti responsabili. Ho letto di recente l’esperienza di un certo signor Masaki, responsabile dell’intera zona di Tokyo. Masaki ha chiesto al presidente Ikeda come svolgere al meglio la sua attività. Sensei ha risposto semplicemente che da giovane, quando aveva fatto un’attività come la sua, aveva creato un legame personale con i responsabili, uno per uno, visitando oltre tremila case. Allora Masaki ha cominciato a visitare i responsabili di settore e capitolo e ha notato che, in ogni riunione, la reazione dei responsabili era diversa a seconda che li avesse già incontrati oppure no. Il gruppo e il settore hanno il contatto più stretto con i membri, è lì che bisogna andare. La nostra attività non è solo invitare la gente alle riunioni, è anche e soprattutto andare noi da loro creando e approfondendo continuamente legami.

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