Ho cominciato a praticare il Buddismo nel 1972 a Chicago. Avevo sedici anni e immediatamente iniziai a partecipare alle attività della SGI-USA.
Nel 1976 mia madre ebbe un attacco di cuore e durante la convalescenza decise di ricevere il Gohonzon. Poco dopo tornai a vivere con lei. Era bellissimo praticare insieme; la nostra casa ospitava anche riunioni di discussione. Poiché mia madre soffriva di depressione e agorafobia, non poteva uscire di casa senza di me. Uno dei miei sogni era aiutarla a superare questi problemi.
Il 10 maggio 1984, tornando a casa, dopo essermi fermata brevemente a fare la spesa, vidi arrivare contemporaneamente a me una macchina della polizia seguita da un’ambulanza e poi da altre volanti. Non mi permisero di vedere mia madre. Mi dissero che si era sentito uno sparo e poi un vicino l’aveva vista uscire di casa e crollare a terra. Mentre mi accompagnavano all’ospedale, recitai Nam-myoho-renge-kyo con tutta la mia forza. Mia madre non sopravvisse. Ero distrutta. Mia madre, la mia migliore amica, era stata assassinata. Tutto quello che riuscivo a fare era recitare Daimoku e piangere. Sentivo di avere fallito. Non ero stata lì per proteggerla. Non ero riuscita ad aiutarla a superare la sua depressione.
L’assassino era a piede libero. Ero a casa da sola, distrutta dal cordoglio e terrorizzata, incapace di dormire. Il ladro aveva rubato un anello con un diamante di quattro carati di mia madre e mi passò per la mente che forse sarebbe tornato a cercare altri gioielli. Ero totalmente confusa. Parlai con un membro più anziano nella fede e mi consigliò di recitare per avere giustizia. Dieci giorni dopo l’assassino, un ragazzo di diciannove anni, si costituì. Partecipai a tutte le udienze, ogni mese per diciotto mesi. Recitai perché il giudice facesse la scelta giusta, anche se non mi era consentito di parlargli. Recitavo Daimoku e piangevo in continuazione.
Poi mi recai per la terza volta a un corso in Giappone con la SGI-USA e quella volta avrei danzato a un festival culturale. Provammo cinque giorni su sette, ogni settimana, prima della partenza e portavo alle prove anche mia nonna, cattolica osservante, che abitava con me. Poco dopo il ritorno dal Giappone, la nonna cominciò a praticare il Buddismo e decise di ricevere il Gohonzon. Fu allora che ricominciai a sorridere.
Il processo ebbe luogo nel novembre 1985. Io continuavo a recitare. Il sospetto fu ritenuto colpevole e condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà provvisoria.
Sette anni dopo la morte della mamma, nacque mio figlio Brandon Hauser. È il mio sogno che si è avverato. Assomiglia moltissimo a mia madre ed è un ragazzo meraviglioso anche se soffre di depressione bipolare. Sentii che mi veniva data una seconda occasione di cambiare questo aspetto della mia famiglia. Mio figlio partecipa alle attività dei ragazzi della SGI-USA e insieme siamo stati al convegno delle famiglie al Florida Nature and Culture Center della SGI.
In seguito alla scissione della Soka Gakkai dalla Nichiren Shoshu, iniziai a studiare il nucleo degli insegnamenti di Nichiren Daishonin per poter confutare chiunque li distorcesse. In altre parole si trattava di difendere la giustizia. So che quell’attività mi aiutò a trovare il coraggio per affrontare la sfida successiva: incontrare l’assassino di mia madre e vincere. Cominciai a pensare sempre di più a quell’uomo in prigione. Ero felice che non fosse stato condannato a morte e mi bastava che rimanesse rinchiuso per il resto dei suoi giorni. Ma poteva finire così? Non mi sembrava. Pensai quale differenza avrebbe potuto fare il Buddismo di Nichiren per quel carcerato, per tutti i carcerati, e decisi di andare a fargli visita.
Chiesi nuovamente consiglio nella fede. La persona con cui parlai mi raccontò di aver visitato in carcere una persona che diceva di voler praticare, ma che poi non lo aveva fatto. Mi disse che se andavo a visitare quell’uomo, avrei dovuto farlo per me, senza aspettarmi niente. Recitai Daimoku pensando che l’avrei fatto per il futuro di mio figlio. Volevo dare un esempio a Brandon, dimostrargli che qualsiasi situazione, per quanto brutta, può essere trasformata in una fonte di gioia. Volevo che capisse il potere del perdono.
Non avevo mai parlato con quell’uomo e non sapevo nemmeno se sapesse leggere. Comunque gli inviai del materiale introduttivo sul Buddismo, un libro The Buddha in Your Mirror (Il Budda nel tuo specchio) e alcuni brani da Conversazione fra un saggio e un uomo non illuminato di Nichiren Daishonin. Gli chiesi che compilasse una richiesta di visita per noi e così cominciò la lunga trafila per entrare in un carcere di massima sicurezza.
Finalmente ottenni il permesso per il 9 febbraio che, coincidenza, sarebbe stato il giorno del settantaseiesimo compleanno di mia madre.
Così l’8 febbraio, dopo aver recitato un sacco di Daimoku, mi misi in viaggio con un’amica: erano più di sei ore di macchina. Il giorno dopo, mentre mi recavo alla prigione dall’albergo ero agitata, ma mi venne in mente che a casa tutti i membri stavano recitando Daimoku per noi. Le guardie perquisirono a lungo la mia macchina e, dopo due ulteriori perquisizioni e quattro porte sbarrate dietro di noi, mi trovai finalmente faccia a faccia con l’assassino di mia madre. Gli chiesi se aveva ricevuto il materiale che gli avevo mandato e mi disse che lo aveva letto tutto. Il suo preferito era Conversazione fra un saggio e un uomo non illuminato.
«Hai provato a recitare Nam-myoho-renge-kyo?» gli chiesi. Lo aveva fatto. Gli dissi che lo perdonavo per aver ucciso mia madre ed egli mi chiese scusa con le lacrime agli occhi.
«Non viene mai niente di buono da cose simili – mi disse – è solo una perdita, per tutti». E aggiunse che avevo dimostrato una grande compassione ad averlo perdonato e che era stato molto preoccupato all’idea della nostra visita, perché pensava che lo avrei maledetto. Così aveva recitato Daimoku per mezz’ora. Questo timore era stato il motivo per cui all’inizio non trovava il coraggio di scrivere i nostri nomi sulla lista dei visitatori. Alla fine l’ufficio interno gli aveva chiesto di farlo, cosa assai strana visto che in tutti quegli anni non avevano mai interferito né lo avevano aiutato per quanto riguardava le visite.
Ci raccontò la sua vita e le circostanze che lo avevano condotto all’assassinio di mia madre. Ci fece molte domande sul Buddismo, persino sull’ora in cui doveva recitare al mattino e alla sera. Recitammo Nam-myoho-renge-kyo e facemmo Gongyo insieme prima della partenza. In macchina, mentre tornavamo a casa, sentii un senso di completa vittoria. Il fatto che l’assassino di mia madre avesse recitato Daimoku era più di un sollievo; era una vera gioia.
Sono rimasta in contatto con lui e sto continuando a recitare per la sua felicità. Dopo tutto il Buddismo è questo; fare la differenza nella vita di ogni singola persona, una dopo l’altra.
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