Ce l’ho fatta grazie all’attività per gli altri, al Daimoku e alla decisione di regalare questa vittoria al mio maestro che mi incoraggia sempre a non arrendermi
Ho iniziato a praticare il Buddismo nel 1998 perché soffrivo molto a causa della relazione con mio padre, il quale un giorno mi mandò via di casa. Mi ospitò un’amica, verso cui ho un immenso debito di gratitudine, che mi parlò del Buddismo. Il primo beneficio che sperimentai col Daimoku fu la leggerezza interiore.
Iniziai subito a partecipare alle riunioni, a studiare e, dopo aver ricevuto il Gohonzon, a fare attività, anche nello staff byakuren. Mi allenavo a riportare nella vita quotidiana lo stesso rispetto per gli altri che imparavo nell’attività buddista. Grazie allo studio del Gosho e alle guide di sensei ho iniziato a lottare per trasformare l’oscurità nella mia vita. Così decisi di realizzare un vecchio sogno: iscrivermi alla facoltà di Psicologia. Superate mille paure intrapresi il mio percorso conseguendo la laurea triennale, e poi quella magistrale. Ho potuto farcela grazie all’attività per gli altri, al Daimoku e alla decisione di regalare questa vittoria al mio maestro, che mi incoraggia sempre a non arrendermi.
Per tutto il 2014 ho recitato due ore di Daimoku al giorno per la felicità degli altri. Quest’azione mi ha portata ad avere un stato vitale molto alto e un bellissimo rapporto con l’altra responsabile del gruppo. Sei persone hanno ricevuto il Gohonzon, di cui tre giovani donne a cui io stessa avevo parlato del Buddismo, e tante persone del gruppo hanno realizzato meravigliose esperienze personali.
Durante il corso dell’Abruzzo di quell’anno decisi di realizzare due grandi obiettivi: trasformare il karma familiare e riuscire a collaborare con la professoressa con cui stavo portando avanti il tirocinio post-lauream.
A gennaio del 2016, all’improvviso mia madre manifestò degli strani sintomi. Al pronto soccorso ci dissero che la situazione era grave: un’ischemia le aveva causato un ematoma nel cervello. Bisognava operarla d’urgenza ma a causa di un farmaco anticoagulante che assumeva, non si poteva intervenire subito.
All’alba del giorno successivo ci telefonarono per comunicarci che mia madre non si svegliava e che la sua vita era in pericolo. Ci precipitammo in ospedale, tremavo dalla paura ma sapevo che tanti compagni di fede stavano recitando Daimoku per lei. Tornata a casa, pregando davanti al Gohonzon, decisi che la vita di mia madre sarebbe stata protetta. Superò l’intervento e non ebbe nessun danno irreversibile, come invece temevano i medici, e oggi sta benissimo. Durante la sua degenza io e mio padre ci siamo trovati costretti a vivere insieme noi due soli: iniziammo a ricostruire il nostro rapporto, e forse per la prima volta un dialogo padre-figlia.
Rimaneva l’obiettivo di collaborare con la mia professoressa, ma più passava il tempo più sembrava impossibile. Iniziai a fare tanto shakubuku. Le mie colleghe vedendo il mio atteggiamento fermo e deciso nonostante le difficoltà, si incuriosirono della pratica buddista.
Il presidente Ikeda scrive: «Il Daishonin […] dimostra come pregare davanti al Gohonzon in un momento di sfida. Se osserviamo la nostra situazione solo con la ragione, non abbiamo nessuna opportunità di vincere. Ma il Daishonin ci dice che il Gohonzon ha un infinito potere. Ciò che conta è se ci crediamo o no. Se pensiamo che siamo i veri discepoli di Nichiren, noi per primi dobbiamo pregare per perseguire quel tipo di pratica coraggiosa che rende possibile l’impossibile» (RU, 10, 27).
Decisi di dimostrare la potenza della pratica con la mia prova concreta; di lì a poco proposero alla mia professoressa di partecipare a un progetto di ricerca europeo sull’omofobia e lo sport, cosa inspiegabile visto che lei si occupa di violenza e abusi sui minori. Le chiesi di collaborare, le parlai dei miei progetti sull’omosessualità e della mia stessa realtà omosessuale, e lei mi accolse nel progetto.
In quel periodo mio padre all’improvviso manifestò una modalità di comportamento a me ben nota e finimmo per discutere. L’indomani uscendo di casa sentii che dovevo aprirgli il mio cuore. Una frase del Gosho mi risuonava dentro: «Non dovresti sentire la minima paura nel cuore. Sebbene una persona possa aver professato la fede nel Sutra del Loto molte volte sin dal remoto passato, è la mancanza di coraggio che le impedisce di conseguire la Buddità» (RSND, 1, 568).
Così tornai sui miei passi, quei pochi metri furono la distanza più lunga di tutta la mia vita, sentii dentro di me la lotta tra oscurità e Buddità. Poi le parole mi uscirono dal cuore, dialogammo come non era mai accaduto e da quel momento ogni cosa è cambiata tra noi, da allora provo una libertà e una gioia senza limiti. Impegnata come ero a coltivare risentimento e disprezzo nei suoi confronti, fino all’età di quarantaquattro anni non mi ero accorta di avere accanto una persona meravigliosa. Ho iniziato a praticare il Buddismo proprio a causa di questa grande sofferenza, e oggi sono felice perché siamo diventati amici e tra noi ci sono rispetto e stima.
Ringrazio dal profondo del cuore ogni persona che mi è stata vicina e il mio maestro Daisaku Ikeda che crede in noi e vede i nostri sogni già realizzati. Rinnovo la mia determinazione di fare shakubuku continuando a sviluppare ogni giorno il cuore del Bodhisattva Mai Sprezzante.