Per questo il commentario della scuola T’ien-t’ai afferma: “Se non si percepisce la natura della propria vita, non si possono sradicare le proprie gravi colpe”. Questo implica che, finché non si percepisce la natura dalla propria vita, la pratica sarà un’infinita e dolorosa austerità.
tratto dalla Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, pag. 4
L’arte di essere me stessa
Posso dire che la pratica buddista mi ha salvato la vita per ben tre volte: la prima quando, nel 1983 a diciannove anni, ho iniziato a praticare e, nel giro di tre mesi, ho smesso spontaneamente di fare uso di sostanze stupefacenti. La seconda nel 1996 quando, all’età di trentadue, grazie a tanto Daimoku, sono guarita, in soli quattro mesi di chemioterapia, da un tumore al sistema linfatico. La terza nel 2007 quando, in seguito a una serie di eventi molto stressanti, sia positivi che negativi, entrai in una crisi di ansia tale per cui non riuscivo più a stare da sola, a recitare Daimoku,non riuscendo neppure a mangiare perché mi sentivo soffocare dal cibo. Per tre mesi abitai a casa di mia madre, facevo Gongyo o qualche Daimoku al giorno e arrivai a perdere otto chili.
Tutte le persone intorno a me, familiari, medici, compagni di fede, mi dicevano che dovevo smettere di essere così rigida con me stessa, che dovevo rispettarmi e volermi bene. Ne sono uscita ripetendomi ogni giorno che sono un Budda, e pregando solo per lodare e ringraziare la mia vita. Decisi che non avrei più preteso da me stessa di essere sempre buona, brava e bella, e che avrei smesso di cercare sempre di adeguarmi a come pensavo che gli altri volessero che io fossi.
Come scopo per il corso estivo del 2007 decisi che avrei vinto la mia paura di amare, che avrei smesso di proteggermi dietro un mio pensiero: «Se non amo, non soffro».
Nel frattempo stavo coltivando, con la preghiera e con le azioni, il mio grande sogno di lavorare in biblioteca. Vincendo sulla paura del giudizio e sul mio non sentirmi mai all’altezza, riuscii a laurearmi con ottimi voti dopo venti anni di agonia e fughe, dando in un anno sette esami e la tesi.
Il giorno prima della partenza per il corso, conobbi un uomo. Nel giro di un mese, avevo accanto non solo un compagno da amare, ma anche i suoi figli. Avevo vinto la paura di lasciarmi andare all’amore. Dopo quattro mesi mi disse che non se la sentiva più e, in un colpo solo, persi tutto. Lottavo per tornare insieme a lui, ma nel frattempo sentivo che, proprio grazie a quel dolore, stavo vincendo sulla mia paura più grande, quella che non mi aveva mai permesso di amare, cioè la paura dell’abbandono. Ora potevo amare davvero perché stavo sperimentando che la separazione da una persona amata era sì un grande dolore, ma potevo affrontarlo e superarlo recitando Daimoku.
A marzo 2008 presi una grande decisione: «Io non mendicherò più né un posto di lavoro, né l’amore di un uomo. Io sarò voluta dal direttore della biblioteca in persona e sarò voluta da un uomo che mi dia, senza se e senza ma, tutto ciò di cui ho bisogno da un rapporto». Ero pronta a volare in alto. A fine maggio mi chiamarono per un’assunzione immediata e a tempo indeterminato come bibliotecaria, su esplicita richiesta del direttore. A quarantaquattro anni, ho realizzato questo sogno.
Nel frattempo continuavo ad avere a che fare con uomini in fuga. Mi dissi che, se ero attratta da situazioni così, forse, io per prima dovevo smettere di aver voglia di fuggire. Avevo vinto la paura di amare, ma non ancora quella dell’impegno serio. A fine settembre mi telefonò una vecchia conoscenza in piena crisi matrimoniale. Piuttosto che cedere al mio istinto salvifico, gli parlai della pratica e lui cominciò subito a recitare Daimoku con forza per salvare il suo matrimonio. Ammirando la sua lotta, capii che ero cambiata: non ero più attratta da uomini in fuga, ma da uomini che lottano per rimanere dove sono. A fine anno si sono separati di comune accordo, consapevoli che il loro matrimonio era finito da tempo. A febbraio lui ha ricevuto il Gohonzon, alla cerimonia era presente anche la ex moglie coi bambini. Un mese prima, Fabio mi aveva chiesto di diventare la sua nuova compagna per la vita e, da aprile, conviviamo. Per la prima volta, a quarantacinque anni, sono allo stesso tempo moglie, amante, amica e mi sembra tutto così naturale.
Nel Gosho è scritto: «Per questo il commentario della scuola T’ien-t’ai afferma: “Se non si percepisce la natura della propria vita, non si possono sradicare le proprie gravi colpe”. Questo implica che, finché non si percepisce la natura dalla propria vita, la pratica sarà un’infinita e dolorosa austerità» (RSND, 1, 5). Ho capito che, invece di girare intorno al problema, è meglio guardarlo in faccia e chiamarlo col suo nome, perché in noi c’è tutto il coraggio, la forza e la saggezza per superare ogni nostro limite.
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In questo brano…
Nel 1255 il Daishonin indirizza questo scritto a Toki Jonin, dopo aver proclamato Nam-myoho-renge-kyo il 28 aprile 1253. Toki Jonin era un samurai convertitosi nel 1254 che aveva ricevuto diversi scritti, fra i quali Lettera da Sado e il trattato L’oggetto di culto per l’osservazione della mente. Questo Gosho è uno degli scritti più incoraggianti e importanti del Daishonin. Mentre in molti altri scritti confutava le dottrine di altre scuole per spiegare i motivi della superiorità del Sutra del Loto, qui si concentra sui princìpi fondamentali del Buddismo. Uno dei punti principali del Gosho può essere individuato nell’indicazione di ricercare dentro di sé – e mai all’esterno – le cause di ogni sofferenza e di ogni gioia: «Devi cogliere la mistica verità che è inerente…», un concetto che viene esemplificato dal noto esempio dell’uomo povero che, pur contando i soldi del suo vicino, non diventerà più ricco di un solo centesimo. Un altro concetto portante è costituito dall’apprezzamento dello spirito dell’offerta, per quanto essa possa sembrare semplice: «Sia che tu invochi il nome del Budda, che reciti il sutra o semplicemente offra fiori e incenso, tutte le tue azioni virtuose metteranno nella tua vita buone radici e benefici». Nella parte conclusiva Nichiren spiega, in modo semplice e poetico, il significato di Nam-myoho-renge-kyo, permettendo a Toki Jonin, e a noi tutti oggi, di comprendere come esso sia non soltanto il titolo del Sutra del Loto, ma anche la chiave per aprire la via diretta verso l’Illuminazione in questa vita, costituita da una profonda e semplicissima affermazione: «Mantieni la tua fede e consegui la Buddità in questa esistenza».