Il Budda è ogni essere umano. Una rivelazione sensazionale e rivoluzionaria. Ma il problema di noi comuni mortali è quello di non credere, o di dimenticare spesso, questa verità
«I Budda stanno sopra i comodini» cantava qualche anno fa Franco Battiato. E a queste parole la nostra immaginazione correva a quelle statuine di giada o materiali affini che raffigurano ometti col pancione, divenuti ormai familiari anche agli occidentali per averne visto le immagini, in modo più o meno distratto, al cinema, in TV, o su qualche libro. In tempi più recenti, assetati di spiritulità e di esotismo, l’interesse del mondo occidentale per il Buddismo cresce e i riferimenti si espandono. C’è chi avrà letto il famoso Siddharta di Herman Hesse, che trae ispirazione da alcuni principi ed eventi della storia buddista, e chi invece avrà sentito parlare di qualche locale o di qualche raccolta di brani musicali che porta proprio il nome di “Buddha”,con la “h”, nella versione originale e più internazionale del termine.
Insomma, tutti, anche coloro che non praticano il Buddismo, hanno sentito parlare del Budda.
Ma chi è il Budda?
Lo stereotipo superficiale diffuso in Occidente porterebbe a vederlo come una divinità, grassa, calva e apparentemente bonaria, ma non per questo meno divinità. Insomma il corrispettivo orientale del più barbuto e severo dio occidentale, e di suo figlio, altrettanto dotato di capelli e barba ma con una maggiore propensione alla compassione.
Poi, alla prima riunione buddista ci viene spiegato che il Budda non è affatto un essere supremo e trascendente a cui dobbiamo la nostra venerazione. Tutt’altro, Budda vuole dire “saggio, illuminato” e quel saggio illuminato siamo noi, proprio noi. E ai nostri sguardi attoniti viene ribadito che la “Buddità”, cioè l’esser Budda, è la nostra natura più vera e profonda, anzi la natura più vera e profonda sotto le apparenze, di tutto ciò che esiste, di tutti i fenomeni dell’universo, e che è una “semplice” condizione vitale presente dentro in ognuno, al pari della sofferenza, della collera, dell’avidità, della tranquillità, della voglia di imparare, dell’altruismo e così via.
E questa condizione vitale, che si può risvegliare dentro di noi recitando Nam-myoho-renge-kyo da-vanti al Gohonzon, con la stessa naturalezza con cui l’arrivo di una contravvenzione da pagare ci risveglia tutti i sentimenti più sgradevoli e innominabili, è caratterizzata da: «un’estasi indescrivibile che sgorga liberamente e spontaneamente dalla più profonda essenza della vita. C’è gioia nel vivere, gioia sulla terra, gioia negli alberi e nei fiori, gioia nelle facce e nei movimenti della gente – tutto è gioioso. Ogni respiro, ogni cenno della mano, ogni passo esprimono gioia, gratitudine e amore per la vita. La nascita, la vecchiaia, la malattia e la morte non sono più sofferenze ma parte della gioia di vivere» (D. Ikeda, La vita mistero prezioso, Bompiani 1991, pag. 141).
Accanto a quest’immensa gioia di essere vivi e a questo profondo senso di unità e armonia con tutto ciò che esiste, si risveglia anche una profonda saggezza, in grado di farci discernere con chiarezza il senso della realtà, della nostra vita, e distinguere le azioni giuste da quelle sbagliate e via dicendo. E, come se non bastasse, da questo profondo senso di unità con il resto dell’universo, sgorga un’immensa compassione per ogni altra forma di vita, a cominciare dai nostri simili, e un immenso desiderio di vederli felici quanto noi.
Nel cuore del neofita praticante si scatena allora una ridda di domande che si accavallano: «Ma come? Allora cosa c’entra il Budda con la pancia? Ma io sono magro e poi non sono neanche saggio, figuriamoci la gioia di vivere, con tutti i problemi che ho… “mi girano” dalla mattina alla sera…»
Andiamo per ordine. L’idea che la Buddità fosse presente in ogni forma di vita fu spiegata per la prima volta dal Budda Shakyamuni – che per inciso non è più Budda degli altri, ma è la persona che storicamente ha fondato il Buddismo – nel Sutra del Loto, uno dei suoi ultimi insegnamenti. Per l’esattezza nella seconda parte di questo sutra, chiamata “Insegnamento essenziale” e, per essere ancora più precisi, nel sedicesimo capitolo Durata della vita del Tathagata. Non è certo un’idea facile da digerire: significa affermare che un criminale o un disgraziato che vive di espedienti a spese della comunità è altrettanto Budda di un uomo devoto dedito a meditare sul senso della vita e a fare del bene agli altri. Gli esseri umani, che si vedono imperfetti, tendono sempre a cercare la verità, a collocare la perfezione in qualcuno o qualcosa che stia fuori di loro, che li trascenda completamente. Ieri come oggi. Figuriamoci come questo concetto doveva “suonare” all’orecchio dei contemporanei di Shakyamuni che vivevano in una società come quella indiana, basata rigidamente sulla suddivisione in caste. E anche in seguito, quando il Buddismo si diffuse nel Sud-est asiatico per poi migrare in Cina e in Giappone, non germogliò certo in un terreno in cui la cultura dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani fosse una nozione ovvia e scontata. Così dopo la morte di Shakyamuni la sua idea che la Buddità fosse presente in ogni forma di vita andò gradualmente dimenticata. Dagli insegnamenti precedenti il Sutra del Loto, che Shakyamuni aveva inteso soltanto come “espedienti”, mezzi per preparare le persone alla rivelazione dell’intrinseca sacralità e infinita bellezza di ogni forma di vita, si vennero a generare una serie di scuole e scuoline dove, a beneficio di una casta sacerdotale intenzionata a mantenersi lavoro e posizione di privilegio, il Budda tornò a essere raffigurato con un’aura semi-divina. Se all’inizio era anche un uomo poi si era elevato a vette di saggezza così lontane dalla realtà umana da richiedere la presenza indispensabile di intermediari, i preti giustappunto, per poterne comprendere gli insegnamenti e ottenerne le grazie.
Fu Nichiren Daishonin a ribadire nuovamente il messaggio centrale del Sutra del Loto, per dirla con Daisaku Ikeda che «il Budda eterno corrisponde a tutti i comuni esseri viventi, così come sono. Non ci sono distinzioni o graduatorie fra le persone. siamo tutti uguali, siamo tutti ugualmente Budda. la sola differenza è che alcuni lo comprendono e altri no» (Saggezza, 3,175). E anche a fornire alle persone il mezzo, la pratica per rivelare concretamente la natura di Budda che esiste in noi.
E Nichiren ribadì anche un altro insegnamento di Shakyamuni, determinante per avere un’idea corretta sulla posizione e sul senso della Buddità nella nostra esistenza individuale: l’eternità della vita, nostra, degli altri, insomma della vita in genere. L’Illuminazione di Shakyamuni alla verità della vita non è un evento accaduto a un certo momento e assolutamente separato dalla realtà della sua vita quotidiana fino ad allora. Shakyamuni è sempre stato Budda, perché la Buddità è una proprietà intrinseca della vita, umana e non, non è un punto di arrivo, raggiungibile solo da pochi eletti e superdotati, dopo “infinite e dolorose austerità” (vedi SND, 4, 4).
Ma allora come si fa a manifestare pienamente la propria Buddità? Nichiren Daishonin, in Lettera a Gijo-bo spiega come ha fatto lui.
«Il Jigage del capitolo Juryo dice: “Con un’unica mente desiderano vedere il Budda e non risparmiano la propria vita”. Grazie a questa frase io, Nichiren, ho fatto apparire la Buddità nella mia vita» (SND,5,4). E nella nota relativa alla citazione del capitolo Juryo (Durata della vita del Tathagata) del Sutra del Loto, Amalia Miglionico precisava che «più liberamente si potrebbe tradurre: “Con l’unico ardente desiderio di vedere il Budda…”».
Dunque la prima chiave per rivelare la propria Buddità è di desiderarla ardentemente “con un’unica mente”, vale a dire cercarla senza concedere spazi al dubbio ogni qual volta si recita davanti al Gohonzon, che in realtà per quest’unico motivo è stato iscritto e non per risolvere i nostri problemi quotidiani. Credere con fiducia alle parole di Nichiren Daishonin quando dice che «se si vede la propria mente, si vede il Budda» (ibid.). Cos’è che spesso inconsciamente ci trattiene dal farlo, dal desiderare con tutto il cuore e la mente di attingere a questa fonte di energia e saggezza dentro di noi? Forse la paura di non trovarla, la paura di essere delusi, la stessa paura che a volte ci trattiene dal mettere tutti i nostri sogni davanti al Gohonzon, che ci fa dire di un obiettivo di vita: «No, questo è troppo, non ci riuscirò mai!» Oppure che ci fa pensare sotto sotto: «Ho stabilito di realizzare questo scopo ma in realtà non ci credo nemmeno io». Ma Nichiren Daishonin ci assicura con la sua stessa esperienza di vita che se la cercheremo con tutto il cuore, troveremo senza ombra di dubbio la Buddità, così come troviamo tutte le altre condizioni vitali.
Non si tratta di scavare come ossessi dentro di noi, mentre recitiamo Nam-myoho-renge-kyo, alla ricerca disperata della fiducia, della saggezza, del coraggio che in quel momento ci mancano e magari finire dopo qualche ora estenuati e chiedendoci: «Ma ci sarà davvero?». Come afferma Barbara Cahill nella sua spiegazione a Lettera a Gijo-bo: «Quando pensiamo al significato della Buddità, è utile non considerarla un nostro possesso, qualcosa che ci appartiene. Piuttosto possiamo cercare di vedere noi stessi come appartenenti alla Buddità e la nostra pratica come il mezzo per rivelare ciò che costantemente permea e ha sempre permeato la nostra vita. Non ci viene richiesto di scoprire qualcosa di meraviglioso di noi stessi ma di renderci conto di appartenere a qualcosa di meraviglioso, che è la Buddità. La Buddità non è rinchiusa a doppia mandata dentro di noi, ma è disponibile e gratuita; è illimitata comprensione e compassione, in ogni cellula, in ogni battito del cuore. Trovare la Buddità non è come scavare per tirare fuori qualcosa ma piuttosto assomiglia a una trasformazione della nostra consapevolezza» (UK-Express, aprile 2000, pag. 22).
Ed è “logico” che sia così. È proprio l’illusione innata di essere separati da tutto il resto che secondo il Buddismo sta alla radice di tutte le nostre sofferenze. A livello della coscienza più profonda della vita non esiste separazione fra noi e gli altri, fra noi e l’ambiente, non esiste la mia Buddità e la tua Buddità ma solo «un vasto organismo di compassione che è il Budda eterno» (Saggezza, 3, 175). E questo vasto organismo che è una sola cosa con la vita di ogni essere dei dieci mondi non è altro che l’universo. «L’intero universo è una grande entità vivente che compie atti di compassione dal passato senza inizio all’eterno futuro… La fede nella Legge mistica ci consente di fare ritorno a questa vita originale» (Ibidem).
Anche se spesso si parla di “ottenere la Buddità” o “raggiungere la Buddità” questa non è un punto di arrivo, «…ottenere la Buddità non è tanto raggiungere una meta o uno scopo, quanto rafforzare il mondo di Buddità nella nostra vita» (Saggezza, 2, 5).
Una questione di comportamento piuttosto che di status. Come scrive Nichiren Daishonin: «Il vero significato dell’apparizione del Budda Shakyamuni in questo mondo sta nel suo comportamento da essere umano» (I tre tipi di tesori, SND, 4, 179).
Siamo Budda quando agiamo con la stessa compassione del Budda verso i nostri simili e il nostro ambiente, quando percorriamo il suo stesso cammino.
«Il segreto per far emergere il mondo di Buddità nella nostra vita sta nel praticare con il coraggio di un leone per proteggere il Buddismo e i figli del Budda, affrontando senza esitare le persecuzioni. Non è possibile ottenere la Buddità se si è pigri o negligenti» (Saggezza, 3, 180).
E anche ne Il mondo del Gosho Ikeda sottolinea: «Il Daishonin spiega chiaramente che la strada per la Buddità si trova soltanto nello sforzo di diffondere l’insegnamento per condurre le persone alla felicità. Il Buddismo è pratica. Significa decidere personalmente e tenacemente di agire per realizzare kosen-rufu, indipendentemente dagli ostacoli che possono sorgere. La strada per la Buddità si imbocca soltanto compiendo sforzi incessanti basati sulla stessa determinazione del Budda» (Il Nuovo Rinascimento, n. 256, pag. 20).
È questo l’altro “segreto” di Nichiren per diventare Budda. Accanto a “desiderare ardentemente” occorre “non risparmiare la propria vita” e questo significa usarla, usare ogni nostra azione quotidiana per ribadire a noi stessi e agli altri che la vita umana è la cosa più importante, usare il nostro tempo per diffondere il più possibile questo prezioso insegnamento e insegnare a più persone possibili come verificarlo in pratica, non tirarci indietro quando si tratta di sostenere l’umanità e la giustizia di fronte all’arroganza di un potere che vede le persone come mezzi e non come fini. Insomma combattere come faceva Nichiren «contro la natura demoniaca intrinseca nella vita che causa le sofferenze delle persone» (Il Nuovo Rinascimento, n. 268, pag. 14).
«Nel Gosho La scelta del tempo – ci ricorda ancora Daisaku Ikeda – il Daishonin spiega chiaramente che la strada per la Buddità si trova soltanto nello sforzo di diffondere l’insegnamento per condurre le persone alla felicità: “Quando all’inizio, io, Nichiren, presi fede nel Sutra del Loto, ero come un’unica goccia d’acqua o un singolo granello di polvere in tutto il Giappone. Ma poi, quando due, tre, dieci e alla fine diecimila miliardi di persone reciteranno il Sutra del Loto e lo insegneranno agli altri, formeranno un monte Sumeru di meravigliosa Illuminazione, un grande oceano di nirvana! Non cercare nessun’altra via per ottenere la Buddità!”» (SND, 2, 98).