«Il potere della pratica buddista si manifestò con una grande energia che sembrava controllare pienamente il timore, pur latente, di poter morire o anche solo fallire nell’attività lavorativa appena iniziata»
Sono italiano e in Italia ho iniziato a praticare il Buddismo, nel 1979, ma vivo in Brasile da quasi due anni, facendo attività buddista a Fortaleza, dove sono vice responsabile di un nuovo capitolo, pur abitando nella cittadina litoranea di Paracuru, dove, al momento, sono l’unico praticante.
Non sono stati motivi gravi o urgenti a determinare il mio trasferimento nel Nuovo mondo; la mia vita in Italia non era stata sempre facile ma sostanzialmente ero contento del mio lavoro di gallerista a Milano che mi portava a circondarmi di opere d’arte provenienti da ogni parte del mondo. Certo l’imminente crisi globale già da tempo si rifletteva nel mercato dell’arte ma l’apprezzamento generale per le iniziative della nostra galleria riusciva a offuscare le “fatiche” finanziarie.
E, ancor prima del lavoro, c’era l’amore per la mia famiglia, per gli amici, per l’organizzazione buddista, che animava i pensieri e le azioni quotidiane, dando un senso alla mia vita. E, non ultimo, c’era l’attaccamento a una terra meravigliosa come l’Italia.
Il desiderio di emigrare in Brasile aveva radici “storiche”: sia i nonni che i miei genitori avevano vissuto in Brasile e sin da bambino in casa si masticava portoghese anche se nessuno di loro si era mai trasferito definitivamente.
Sentivo un legame inesplicabile con quella terra e sognavo di passare la seconda parte della mia vita coltivando piante in terra brasiliana.
Durante un viaggio nella parte nord-est del Brasile, nel 1992, avevo conosciuto mia moglie Adriana. Yara, la nostra primogenita era nata in Brasile e da allora impiegavo parte dei risparmi comprando terra, per preparare il grande salto. La nostalgia di mia moglie per il suo paese, tipica di ogni brasiliano, aveva sicuramente accellerato il processo, rendendolo irreversibile.
Quando però si avvicinò la data fatidica del trasferimento accadde l’imprevedibile: un’improvvisa malattia di mia moglie, violenta e senza apparente soluzione immediata, esplose letteralmente nella nostra vita, quando già avevamo in tasca i biglietti d’aereo.
Tutte le energie destinate ai preparativi, alla riorganizzazione della nostra vita, di quella dei figli di due e quattro anni, di mia madre non più giovanissima, (scuola, lavoro, pratica buddista, casa, auto, assicurazione sulla salute, insomma tutto moltiplicato per cinque) venivano interamente assorbite dal nuovo dramma.
Sapevo che l’unico mezzo per affrontare questo sforzo risiedeva nella pratica buddista, nel mio ventennale allenamento che in quell’ora cruciale mi permetteva di mantenere la calma pur nell’angoscia sotterranea e la determinazione quando tutto sembrava improvvisamente crollare.
La preoccupazione rendeva difficile anche concentrarmi sulle ultime occasioni di lavoro, vitali per finanziare il dispendioso invio del contenuto di due appartamenti via nave e per iniziare una nuova attività professionale che ancora non mi era ben chiara.
La mia condizione vitale oscillava tra decisione e incertezza, tranquillità e ansia e il Daimoku e lo studio del Buddismo erano l’unica possiblità per non perdere la rotta. Non c’era tempo per piangere nè per cambiare idea, e, a parte i compagni di fede e pochi altri, ero completamente solo alla guida di un destino quantomeno incerto.
La malattia di Adriana doveva essere annientata, il lavoro doveva essere scelto presto e bene, pensando non solo al successo economico ma anche e soprattutto alla qualità di vita – se si cambia tutto, bisogna cambiare in meglio – e l’esistenza dei componenti della mia famiglia doveva rientrare più precisamente possibile in nuovi binari.
Il quadro non solo non migliorava ma sembrava preludere alla rinuncia del sogno: dopo anni di insistenze mia moglie non voleva più rientrare in Brasile, i miei risparmi subirono un’enorme perdita dopo l’11 settembre, i figli manifestavano insicurezza se non paura, e – potrebbe anche far sorridere – il mio cane, destinato a emigrare con noi, sembrava riflettere il tumulto di casa, con crisi epilettiche quasi quotidiane.
Quando, a pochi giorni dalla partenza, il tempo sembrava immobile e lo spazio svuotato – letteralmente, in quanto le cose di casa erano già imbarcate in un grosso container ho esperimentato la frase «più scura è la notte più vicina è l’alba». La sofferenza si fece improvvisamente da parte lasciando il posto a una forza e a una gioia mai provate prima. Ricordo di aver chiesto a mia madre all’aereoporto: «Cosa facciamo oggi, emigriamo?».
Sentivo non solo di poter guidare gli eventi, ma di poterli cavalcare a grande velocità e il primo beneficio evidente era la mancanza assoluta di timore e di rimpianti.
Dopo pochi giorni dall’arrivo in Brasile contattai la Soka Gakkai brasiliana, sapendo che quella era la mia prima casa, e iniziai a fare attività con i meravigliosi membri di Fortaleza, diventando presto responsabile di un settore. Le mie forze si moltiplicavano ogni giorno, la salute di mia moglie si era ristabilita quasi immediatamente e un’enorme gioia di vivere rinasceva in tutta la famiglia. I bambini avevano certo vissuto con fatica la malattia della madre e il cambiamento, ma il caloroso benvenuto della parte brasiliana della famiglia, dei membri, degli amici di mia moglie, del mare, del sole, sembravano cancellare il passato.
Dopo aver analizzato le necessità del locale mercato dei fiori cominciai a coltivarne uno molto richiesto, perché era difficile da produrre all’equatore. Tutti erano scettici: come poteva una persona senza alcuna esperienza di floricultura o agricoltura avere successo dove professionisti locali avevano fallito? Per di più ero uno straniero, un gringo, appena sbarcato in una parte del paese dove tutto sembrava complicato e burocratico, dalla puntualità nelle consegne di certi materiali, a volte introvabili, all’installazione di energia, dall’apertura di una società, alla ricerca di collaboratori validi.
A soli sedici mesi dall’arrivo i miei fiori erano considerati i migliori nel loro genere a livello nazionale e la mia produzione viene sempre interamente venduta. La grande passione che ho sempre nutrito per la botanica sta dando frutti che vanno al di là delle mie aspettative. Non passa giorno che non pianti decine o centinaia di piante di tutti i tipi, nell’assoluto rispetto dell’ambiente, peraltro meraviglioso.
Ma, come il Buddismo insegna, grandi risultati portano nuove grandi prove. Nell’agosto del 2002, feci un normale controllo medico e risultò un grosso nodulo polmonare, che aveva caratteristiche insieme benigne e maligne. La morte di mio padre per cancro ai polmoni e una lunga carriera di fumatore non lasciavano spazio ad alternative e venni sottoposto immediatamente a un intervento chirurgico. È intuibile il mio stato d’animo prima, durante e dopo l’intervento, con un’interminabile attesa di più di un mese, per sapere di che male si trattasse.
Ma ancora, il potere della pratica buddista si manifestò con una grande energia che sembrava controllare pienamente il timore, pur latente, di poter morire o anche solo fallire nell’attività lavorativa appena iniziata, che poteva collassare da un giorno all’altro.
Allora ho avuto un’ennesima conferma della grandezza della Soka Gakkai: i membri brasiliani appena conosciuti mi furono vicini come fratelli e sorelle, i “vecchi” compagni di fede dall’Italia scrivevano, telefonavano e soprattutto recitavano Daimoku. Intanto prendevo coraggio approfondendo lo studio; nelle notti insonni leggevo e rileggevo il Gosho, specialmente la frase di Risposta a Kyo’o «Quale malattia può quindi essere un’ostacolo?», e le guide del presidente Ikeda.
Sentivo di aver vinto ancora una volta e volevo che ciò emergesse chiaramente già lì in ospedale; volevo vincere per dimostrare a tutti il coraggio di un buddista e la forza del suo mezzo.
La biopsia diede infine esito negativo, non era cancro ma tubercolosi, per di più in forma passiva, vale a dire che il mio organismo aveva incapsulato l’agente patogeno, rendendolo nodulare e inoffensivo. Conoscete qualcun’altro che abbia gioito nel sapere di avere la tubercolosi?
L’esperienza della malattia – tutti lo sanno ma occorre passarci per comprenderlo – mi ha fatto riflettere profondamente sui valori primari. Meditare sull’importanza di ogni giorno che passa, del tempo dedicato agli altri o di quello passato in famiglia senza pensare al lavoro o ai fastidi. E anche sull’importanza delle piccole cose, come i profumi dimenticati, riconquistati per aver smesso di fumare.
Sento di non aver più tempo per indulgere nei vecchi errori, sono grato di essere vivo, di poter fare ciò che amo e di stare con chi amo. Ho ancora una vita davanti per svolgere il mio insostituibile compito.
Non voglio scordare mai il debito di gratitudine nei confronti del mio maestro e dei compagni di fede della Soka Gakkai. Colgo questa opportunità per salutare di cuore tutte le amiche e gli amici italiani.
Un abbraccio immenso.