Quando si parla della vita e di valori umani, le parole possono attraversare intere epoche senza essere scalfite. E così che pagine scritte in tempi lontani sono ancora attuali e fonte di riflessioni ed emozioni
Ci sono libri che possono curare la nostra anima; libri che possono essere lo specchio della nostra vita interiore e, in tal modo, far emergere da dentro di noi delle emozioni vissute in passato. Ci sono libri, come i classici, che accompagnano il lettore nel tempo, attraverso le stagioni dell’esperienza umana, sia nelle scalate sia nelle discese. La lettura comunica alla gioventù un particolare sapore, e questo si approfondisce con il passare degli anni; apprezziamo molti dettagli e significati in più, come se i libri crescessero assieme a noi. I classici sono proprio quei libri che si possono rileggere in qualsiasi epoca perché contengono un messaggio sempre attuale, diretto al cuore degli esseri umani. Lo stesso Josei Toda organizzava spesso degli incontri con i giovani in cui si affrontava, tra l’altro, lo studio dei classici.
Qualche tempo addietro, stavo attraversando un periodo di forte depressione. Si dice che l’angoscia, in realtà, nasconda una parte più profonda che grida: «Voglio assolutamente vivere!». Ma a volte la senti salire, fatichi ad asciugare le lacrime, e più il tempo passa, più i fantasmi del passato sembrano portarti via quello che di positivo sei riuscito a costruire nel presente. Trascorrevano così le mie giornate, lente e inesorabili; giorno dopo giorno cresceva in me il desiderio di uscire fuori da quella prigione ma quelle sbarre, ogni volta, sembravano come stringersi. Era forse questa la sensazione di chi sta perdendo contatto con il mondo? Oppure ero io che avevo creato quella prigione, e ora che ne vedevo le sbarre, cercavo di aprirmi un varco per uscirne fuori? Accadeva spesso, nel buio di quella cella, di vedere dei raggi solari filtrare da una finestra, per illuminare il mio passato; recitavo Nam-myoho-renge-kyo e scoprii che quell’angoscia poteva essere trasformata in un maggiore spirito di ricerca, leggendo i classici della letteratura. Non avevo idea, fino a quel momento, quale fosse veramente il significato di un classico, ma leggendo alcune opere animato più che mai dal desiderio di conoscere me stesso e il mondo circostante, capii che queste opere racchiudono proprio quello spirito di riportarti alle radici dell’essere umano. Sentivo che le parole dei grandi scrittori potevano toccare con tenerezza le corde del mio animo e accudire meglio il mio cuore.
Seneca fu proprio uno di quei primi autori ai quali mi accostai, e fu per me fonte d’ispirazione. Le sue risposte alle paure e alle ricerche dell’essere umano, le sue lettere inviate all’amico Lucilio che trovai raccolte nell’opera L’arte del vivere mi portarono a chiedermi se non le avesse indirizzate proprio a me: «Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell’oggi», «vedere tutte le cose nella loro semplice realtà, senza esteriori deformazioni: ti renderai conto che in ogni avvenimento non c’è niente che debba far paura se non la stessa paura», «l’uomo in ogni momento sia uguale e coerente a se stesso» e ancora «vivere significa essere di giovamento agli altri traendo profitto da se stessi». Erano luce per i miei pensieri. Avevo come la sensazione che la sua fosse una voce che percorrendo duemila anni di storia giungeva fino a me e con semplici parole mi invitasse a indagare il male e il bene del vivere umano. Allo stesso tempo, leggevo molti articoli del mio maestro e mi rendevo conto come la lettura dei classici mi aiutasse a radicare ancor di più gli insegnamenti buddisti.
Molti di noi si saranno chiesti cosa significhi vivere. Per Seneca come per il Buddismo, vivere è un’arte, un’arte universale che appartiene a ognuno di noi: si tratta di avere la responsabilità di prendere in mano la propria vita, e fare lo sforzo continuo di compiere la propria rivoluzione umana, perché «il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi. Anche se attraversi il vasto oceano; anche se, come dice il nostro Virgilio, “ti lasci dietro terre e città”, dovunque andrai ti seguiranno i tuoi vizi». Ammiravo la saggezza di Seneca per aver saputo penetrare l’oscurità e le debolezze dell’animo umano.
C’è una frase del Gosho che ho inciso profondamente nella mia vita e ricordo sempre ogni giorno: «Non c’è vera felicità per gli esseri umani al di fuori del recitare Nam-myoho-renge-kyo» (RSND, 1, 607). Ma che cosa è la vera gioia? Seneca ci lascia questa sua ultima riflessione: «Credimi, la vera gioia è austera. Pensi, forse, che qualcuno possa, con volto gioviale e – come dicono codesti sdolcinati – spensierato, disprezzare la morte, aprire la porta alla povertà, tenere a freno le passioni, esercitarsi a sopportare il dolore? Chi medita su queste cose, sente nell’intimo una gioia grande, anche se poco appariscente. Vorrei che anche tu possedessi questa gioia: essa non ti verrà mai meno, una volta che ne avrai trovato la sorgente. I metalli di scarso valore si trovano a fior di terra; quelli preziosi si nascondono nel sottosuolo, ma daranno una soddisfazione più piena alla tenacia di chi riesce a estrarli» (Lettere a Lucilio).