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Ho preso il Gohonzon - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:32

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    Ho preso il Gohonzon

    Agorà, la piazza. Il luogo in cui – nell’antica Grecia – i cittadini della “polis” si ritrovavano per discutere argomenti di interesse comune. Contributi, testimonianze, domande dei lettori nuovi e di quelli che si sanno rinnovare

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    Agorà, la piazza. Il luogo in cui – nell’antica Grecia – i cittadini della “polis” si ritrovavano per discutere argomenti di interesse comune. Contributi, testimonianze, domande dei lettori nuovi e di quelli che si sanno rinnovare

    Non avrei mai creduto di provare timore, agitazione, indecisione, emozione, nell’ordine, prima di accogliere dentro casa un pezzo di carta scritto in giapponese. E tutto è cominciato parlando di pinguini…
    Nell’ottobre del 2000, mentre si chiudevano dieci anni faticosi e dolorosi, che hanno tracciato un solco tra un prima spensierato e un dopo che non potrà mai più esserlo, al telefono con un’amica constatavo con piacere che quasi su ogni cosa eravamo all’unisono.
    Niente accade per caso e a un certo punto mi chiede come rintracciare Marina Abramovic, un’artista che sento spesso poiché Charta, la casa editrice dove lavoro, pubblica la sua opera. Quella notte l’aveva sognata mentre insegnava ai pinguini!
    «Pinguini?! sono gli animali che mi inteneriscono di più, sono degli scherzi di natura: non hanno né zampe per correre né ali per volare».
    Mi invita l’indomani a un incontro con amici a casa sua, si riuniscono ogni quindici giorni per parlare, sono buddisti.
    Nata e cresciuta in maniera laica, da sempre attratta dalla cultura orientale e dal Buddismo e sentendomi parte della natura esattamente come un albero, un animale, il cielo e l’acqua, ho sempre avuto esigenza di spiritualità. Ci vado, volentieri.
    Entro, c’è penombra e alcune persone inginocchiate cantilenano qualcosa di incomprensibile davanti a una teca, c’è una candela accesa e profumo d’incenso. Nel suono armonico di quel che poi saprò essere Daimoku e Gongyo mi sono ritrovata come a casa.
    Ho cominciato a praticare, irregolarmente, faticando a leggere il sutra e ho sentito poi a poco a poco la lettura fluire come un fiume.
    E la mia vita è cambiata. Da quando recito il mio stato vitale è cresciuto, sono ogni giorno più cosciente, di tutto quello che mi circonda, più lucida. E lentamente la pratica è diventata regolare, poi un’abitudine e infine un piacere irrinunciabile.
    È un privilegio aver incontrato questa pratica, si sente crescere la consapevolezza, lo sguardo si fa più acuto e la percezione del mondo fuori da sé diventa nitida, lucente e tagliente come il sole.
    Si diventa capaci di scegliere le parole da seminare nel cuore delle persone, per aiutarle a capire che è possibile essere felici.
    Ho messo ordine nella mia vita, ho imparato a non lasciarmi portare dalla corrente ma a remare, a credere in me fino a rompere le scatole al prossimo se convinta di aver realizzato una cosa di valore.
    Non era mai successo: fino a oggi, anzi a ieri, metà timida metà presuntuosa, mi limitavo a dolermi o stizzirmi perché “gli altri” non capivano quel che facevo o quanto valevo.
    Credere in me stessa tanto da farmi sentire, non tacere ma parlare, cercando di convincere trovando le parole giuste invece che alzando un sopracciglio, è stata per me una rivoluzione. Più di una volta sono riuscita a dire qualche parola davanti a più di tre persone: per una che fin dai tempi della scuola non ha mai proferito verbo se cinque facce in silenzio la guardavano, è una vittoria ciclopica.
    Ho scoperto la forza di desiderare la felicità per chi mi è caro anche se non è quel che desidero io.
    Non è stato facile, ho dovuto trovare dentro di me la capacità di recitare affinchè mio padre, che si era dichiarato stufo di vivere e rivendicava il suo diritto a morire, fosse felice. Non che stesse bene. Superare il confine tra egoismo e amore è stato difficilissimo, ho provato un dolore infinito, come se mi si staccasse qualcosa dentro. Ma l’ho fatto, con paura, convinta che se era davvero quel che lui desiderava, undici anni dopo la morte insopportabile di mia madre, avrebbe avuto tutto il diritto di andarsene da questo pianeta del quale non gli piace quasi più niente.
    Di recente papà mi ha detto che non è più così convinto di voler morire, vuol vedere come va a finire questa povera Italia che gli procura furore e curiosità.
    Intanto la pratica procedeva liscia, fino a farmi sentire quasi in colpa per non aver incontrato difficoltà. Mi è venuto tutto naturale e non mi sembrava giusto.
    Il tempo passava e un giorno un’altra persona alla quale tengo molto, alla fine di un Gongyo lento, mi dice «ma a questo punto sarebbe ora di prendere il Gohonzon». Interdetta mi sento dire «credo di si, ci stavo pensando».
    Non era vero, mi piaceva recitare davanti ai Gohonzon degli altri, sentivo che era diverso ma di prenderne uno tutto mio non mi aveva neanche sfiorato l’anticamera del cervello. Mi abbraccia felice e penso «e adesso come faccio a deluderla???». Ma la decisione era presa, dentro.
    Fino a qualche giorno prima della cerimonia, tutto è filato tranquillo, mi sentivo normale come avessi a che fare con una tenue novità e non con la decisione più importante della mia vita. Poi la fibrillazione, il patema: hai preso il butsudan? hai già il mobiletto? tra qualche giorno veniamo con due responsabili a vedere la tua casa, è la prassi.
    Si insinua un timore e trovo una ragione che mi sembra perfetta per tentare di rimandare l’arrivo di questo strano consorte: «magari lo prendo a settembre, adesso parto per le vacanze, rimane subito da solo, non mi sembra una bella cosa». «Ma no, ma no, pensa invece che torni a casa e lo trovi che ti aspetta» rispondono. Mi arrendo.
    Ho preso il butsudan, un tavolino, un comodino e c’è ancora posto: la scatola da scarpe dove abito ha generato autonomamente lo spazio perfetto, si è dilatata come un utero accogliente!
    Tutto liscio fino a qualche giorno prima della cerimonia, anche se da una settimana recitavo svogliatamente e una sera ho anche dimenticato di farlo, rialzandomi dal letto e buttando là sansho come per dovere contrattuale.
    Due giorni prima tutto va storto, a casa, in ufficio, capitano anche piccoli incidenti domestici che mai nella vita.
    Poi tre segnali importanti: nello stesso giorno si rompe il mio primo swatch, un orologio indistruttibile che mi ha seguito in tutti i traslochi e tutti i viaggi, macchio indelebilmente un piccolo asciugamano, ricordo di un periodo felice; infine mi cade, sbriciolandosi, un bicchierino di vetro vecchissimo al quale ero affezionata. Inquieta comincio a capire che devo tagliare col passato. Incarto i vetri nell’asciugamanino, ci metto sopra lo swatch e butto tutto senza ripensamenti. Poi il panico «che sto facendo? Cosa spero di ottenere? CHI MI METTO A CASA???» ma non posso più tirarmi indietro.
    Arriva il giorno. Ho scelto come vestirmi per la cerimonia neanche andassi a sposarmi. In una Milano torrida, nel sottotetto che sembra un forno a legna acceso, l’ultima notte da sola il mio sonno è stato intermittente e, precedendo di molto la sveglia, alle 6 avevo gli occhi spalancati come una civetta. Colazione leggera, doccia fresca, Gongyo davanti al butsudan, vuoto per l’ultima volta.
    Il kurta-pyjama chiaro di cotone, tessuto secondo i precetti di Gandhi, è spiegazzato, non posso presentarmi così. Lo stiro e rifaccio la doccia. Giro a vuoto facendo decine di fesserie inutili e sconnesse, in preda a un’agitazione che non ricordo di aver mai provato per nessun appuntamento d’amore. Mi trucco pochissimo, mi pettino dieci volte, decido di indossare alcuni protettori: una collana di mamma, un anello di papà, gli orecchini regalo del mio ex quasi marito e i sandali indiani avuti in regalo dal mio compagno; di colpo metto a fuoco che, incostante come sono fin dalla nascita, per la prima volta non mi sono posta la domanda abituale di noi bilance ! «e se poi non mi piace?». Sorrido dentro.
    Esco di casa in bicicletta. Al Centro c’è già tanta gente, mi registro con un anticipo che mi fa tenerezza, cerco senza successo qualcuno che conosco, poi mi vado a sedere al mio posto, il numero 25.
    Con i numeri ho un rapporto magico, oggi è il 13 luglio, compleanno di una delle mie più care e importanti amiche e il numero del mio posto, letto al contrario, è il mio anno di nascita. Potevo non prendere il Gohonzon oggi?
    La cerimonia scivola via e mi ritrovo fuori col mio scatolino tra le mani che non vedo l’ora di mettere a dimora, come un albero. Il mio albero.
    A casa, con chi mi ha fatto shakubuku, raggiante ed emozionata per il suo primo “nipote”, e altri amici che mi hanno sostenuto, apriamo e lo collochiamo e… devo guidare io ed è la prima volta. Sbaglio un sacco di cose, mi aiutano, mi correggono e alla fine mi applaudono. Sono completamente madida e ufficialmente felice.
    Ho scritto questo in vacanza, dove recito spesso con gli occhi chiusi davanti a un muro bianco guardando il Gohonzon dentro di me, sapendo che mi aspetta a casa: è un pensiero che mi rasserena. Abbiamo cominciato un bel cammino, insieme.
    Silvia Palombi

     

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