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Ho messo al tappeto i miei limiti - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:30

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Ho messo al tappeto i miei limiti

Fabio Andreoli fa parte della sezione judo del centro sportivo dei carabinieri. Il suo lavoro, che consiste nell’allenarsi e prendere parte a gare nazionali e internazionali, gli ha insegnato che il vero nemico da battere è dentro di noi

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Fabio Andreoli fa parte della sezione judo del centro sportivo dei carabinieri. Il suo lavoro, che consiste nell’allenarsi e prendere parte a gare nazionali e internazionali, gli ha insegnato che il vero nemico da battere è dentro di noi

Da quando il judo è diventato la tua professione?

Pratico il judo da quando avevo cinque anni. A un certo punto mi sono trovato a un bivio: decidere di farlo “bene”, e far sì che diventasse il lavoro della mia vita, o mollare. Dato che in Italia l’unico modo per praticare questa attività come lavoro è svolgerlo all’interno di un centro militare, ho scelto la sezione dei carabinieri. Sono stato molto fortunato perché quando ho vinto i campionati italiani sono stati loro a cercarmi per chiedermi di entrare nella squadra.
Quando, grazie a mia madre, ho iniziato a praticare stavo però per smettere di fare judo… In seguito partecipando alle prime riunioni fui incoraggiato da un mio responsabile: mi disse che con lo sport si può creare veramente tanto valore e che il presidente Ikeda ci esorta a conseguire una vita realizzata, a dare spazio alla propria passione, e a diventare dei vincitori nel proprio ambito lavorativo. Grazie al Daimoku sono riuscito a percepire profondamente che la mia vita e kosen-rufu sono la stessa cosa, e di conseguenza ho capito quanto è importante prendermi cura di ogni suo aspetto, soprattutto del mio lavoro, anche se lì per lì non riuscivo a comprendere come avrei potuto incoraggiare gli altri attraverso il judo.

Poi cosa è successo?

Ho cominciato a sperimentare, grazie al Daimoku, all’attività per gli altri, cui cominciavo a dedicarmi, e allo studio del Buddismo che, quando vado a combattere, lo scoglio più grande da superare è credere che posso farcela. Il primo avversario che devo battere è me stesso. Sia quando sulla carta mi danno come il più forte, sia quando mi batto con avversari oggettivamente più facili, la differenza è ciò che credo nel mio cuore, la lotta che avviene dentro di me. In un ambito come quello sportivo, in cui le capacità personali “oggettive” sembrano essere fondamentali, la cura che metto nella mia fede, così come l’atteggiamento con cui mi alleno, hanno un ruolo primario. La frase «l’essenza della strategia e l’arte della spada derivano dalla Legge mistica» (RSND, 1, 889) per me è stata un faro: con la fede mi armonizzo e ottengo grandi risultati in modo rapido, riuscendo a sfruttare bene il tempo in cui mi alleno e a migliorare velocemente.

Nel settembre del 2012 hai vinto la Coppa Europa a Londra e questa vittoria ha incuriosito i tuoi compagni…

Prima di partire per Londra avevo promesso a me stesso e a sensei che avrei affrontato il “demone” che mi impediva di spiccare il volo ed essere in gara al cento per cento, ma al primo incontro venni battuto. La sofferenza cresceva e pensavo di non farcela. Continuavo a recitare Nam-myoho-renge-kyo e in seguito venni ripescato: potevo ancora combattere per il terzo posto, quattro incontri da vincere e non potevo più sbagliare. Recitai dentro di me per tutta la durata della gara, anche mentre combattevo. Vinsi tutti e quattro gli incontri e conquistai la medaglia di bronzo… la prima! Ero felicissimo. I miei compagni mi dissero che avevano notato in me una crescita incredibile per tutta la durata della gara; colsi l’occasione e parlai loro della pratica.
Nella gara successiva non riuscii a ripetere il risultato, ma tornai a casa deciso a concentrarmi sulla competizione seguente che si sarebbe svolta a Istanbul. In finale riuscii a battere il vice campione d’Europa e vinsi il mio primo oro internazionale. Alla fine della gara i miei amici mi chiesero di partecipare a una riunione di discussione, ormai in caserma tutti sapevano della mia pratica, e tutt’ora mi chiamano “il Budda”!
In quell’occasione riuscii a raccontare loro ciò che la pratica buddista ha portato nella mia vita.
Infatti prima di praticare pensavo che vittoria significasse vincere la gara a qualunque costo e, paragonandomi agli altri, pensavo: «Perché dovrei comportarmi diversamente se gli altri non lo fanno?». Poi ho compreso che, se non cambio atteggiamento io per primo, la vittoria che posso ottenere è solo apparente: le persone che vincono ma non trasformano la loro vita in profondità hanno guadagnato una mezza vittoria… essere un atleta che vince fino in fondo, che cambia la propria vita, questo è ciò che mi dà la forza per affrontare i miei limiti e battermi al cento per cento nelle gare che affronto. Sono arrivato a pensare: «Alla fine della mia esistenza cosa conterà? Se avrò vinto le Olimpiadi o se sarò riuscito a cambiare e a realizzare la mia vita?».

Nel tuo percorso sportivo che importanza ha la relazione con il maestro?

Per me è una ricerca difficile e costante, attimo dopo attimo. Ritengo che sia importante avere una persona che ci dice con che spirito affrontare la vita: non le azioni da fare, ma l’atteggiamento da ricercare.
Dopo un’altra vittoria a un torneo internazionale mi comunicarono che avrei partecipato ai campionati europei, ma le gare di preparazione non andarono come sperato. Recitando Daimoku mi accorsi che fondamentalmente il mio mondo di base, la collera, che si esprimeva con il voler prevalere sugli altri, riemergeva ancora nei momenti critici, quelli decisivi, quando nelle gare dovevo tirare fuori una forza diversa per vincere. Capii che dovevo rivoluzionare questo atteggiamento e rilanciai l’impegno nell’attività, nel Daimoku e nel parlare della pratica agli altri. Mi ero messo obiettivi giornalieri che cercavo di rispettare assolutamente. A dieci giorni dagli europei, durante un allenamento, però mi infortunai a una spalla. Il dottore mi disse che dovevo stare fermo due mesi, il che voleva dire non solo rinunciare alla possibile vittoria, ma addirittura alla gara.

Questo infortunio ti ha scoraggiato?

All’inizio sì, ma tornando dall’ospedale percepii che quella poteva essere l’occasione che stavo aspettando per trasformare il mio atteggiamento. Volevo impegnarmi seriamente, rientrare in tempo per la gara e dedicare una medaglia al mio maestro. Recitai tantissimo Daimoku e mi impegnai negli esercizi per il recupero della mia condizione fisica. I “peggiori demoni” hanno tentato di farmi desistere, ma non ho mai mollato finché, due giorni prima della visita medica che avrebbe decretato se ero o no in grado di gareggiare, mi resi conto dell’impossibilità del mio obiettivo: la spalla stava migliorando molto velocemente, ma non sarebbe bastato. Quando le strategie “di testa” erano fallite decisi che mi sarei affidato davvero al Gohonzon, lottando fino all’ultimo istante. Così, dopo appena due giorni, quando il medico mi visitò la spalla, questa si muoveva liberamente, senza dolore. Sono riuscito a gareggiare anche se non a vincere, ma ero felice perché non mi ero permesso di vacillare nella mia convinzione. Grazie alla promessa di portare una medaglia al mio maestro, l’infortunio è stato l’occasione per cambiare il mio modo di vedere la vittoria non più solo come qualcosa che soddisfa me stesso, ma come il mezzo per dimostrare la forza di questo insegnamento.
La cosa bella, per me, è che ogni volta che leggo le sue guide trovo l’incoraggiamento giusto che parla a me, sento che la mia vittoria è il grande desiderio del maestro. Per me è questo: qualcuno che c’è sempre, non importa se non lo conosco o non l’ho mai visto. Sento il legame con il maestro come un mio punto di forza. Ricercare questo legame mi ha anche permesso di rivitalizzare il rapporto con i miei maestri di judo, che ho capito avere un ruolo fondamentale nella vita di un atleta. Una delle più belle soddisfazioni della mia breve carriera è arrivata proprio dal direttore del mio centro sportivo che mi ha dedicato su Facebook un bellissimo post in cui si dichiarava incredulo di fronte a quello che avevo realizzato guarendo dall’infortunio… lo ha definito un “miracolo della fede” e ha invitato tutti gli altri ragazzi a seguire il mio esempio.

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