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Gesti antichi, significati moderni - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:23

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    Gesti antichi, significati moderni

    Conoscere meglio il rito e il suo significato è indispensabile per praticare in modo corretto l’insegnamento di Nichiren Daishonin. Questo articolo è dedicato a chi vi si è avvicinato recentemente, ma anche a chi desidera riscoprire il senso autentico di queste azioni

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    Conoscere meglio il rito e il suo significato è indispensabile per praticare in modo corretto l’insegnamento di Nichiren Daishonin. Questo articolo è dedicato a chi vi si è avvicinato recentemente, ma anche a chi desidera riscoprire il senso autentico di queste azioni

    «La Legge buddista è l’eterno principio che pervade tutta la vita e l’universo. Il Buddismo insegna come raggiungere la felicità. Noi che abbracciamo il Buddismo di Nichiren Daishonin basiamo la nostra vita sulla grande Legge fondamentale dell’universo, ovvero la Legge mistica. Niente è più gratificante dell’esservi direttamente collegati seguendo il sentiero di fede, pratica e studio. È il solo modo di costruire la felicità eterna descritta nel Gosho Felicità in questo mondo come la “gioia senza limiti della Legge”» (Il mondo del Gosho, esperia 2011, pag. 309).
    Se chiedessero a un membro della SGI perché recita Nam-myoho-renge-kyo probabilmente queste parole del presidente Ikeda ben risponderebbero a tale domanda.
    Quando si recita Gongyo (che comprende la lettura di due capitoli dei ventotto del Sutra del Loto e Daimoku) davanti al Gohonzon si riproduce la Cerimonia nell’aria descritta nel sutra stesso, in cui Shakyamuni affidò ai Bodhisattva della Terra il suo insegnamento per l’Ultimo giorno della Legge affinché non andasse perduto.
    Ricca di un’affascinante simbologia legata alla cultura indiana dell’epoca, tale cerimonia contiene il significato più profondo del Sutra ovvero l’affermazione dell’universalità della dignità e del potenziale umano: «La Cerimonia nell’aria […] si svolge in una dimensione che trascende il tempo e lo spazio. Possiamo partecipare alla Cerimonia nell’aria in qualunque momento, ovunque ci troviamo. Quando preghiamo solennemente di fronte all’oggetto che descrive la Cerimonia nell’aria, in quello stesso momento, diventiamo una cosa sola con l’eterna vita dell’universo, lì dove siamo, possiamo manifestare uno stato vitale vasto quanto l’universo» (La saggezza del Sutra del Loto, vol. 2, pag. 91).
    L’oggetto «che descrive la Cerimonia nell’aria» è il Gohonzon. Ogni giorno, mattina e sera, i membri della SGI rivivono tale momento leggendo alcune parti del Sutra del Loto e recitando Daimoku:
    «Gongyo è un’azione quotidiana con la quale rendiamo i nostri cuori e le nostre menti puri e pronti alla vita. È l’accensione del “motore principale” per uno splendido inizio di giornata; è la giusta preparazione per affrontare la giornata. Ci sono persone che hanno motori potenti e persone che hanno motori deboli. Cosa riusciamo o non riusciamo a realizzare nel corso della nostra vita è fortemente determinato dalla potenza del motore; la differenza può essere enorme. La costanza nella pratica quotidiana aumenta la potenza del motore» (D. Ikeda, Preghiera e azione, pag. 6).

    La funzione del rito

    Nonostante da queste parole emerga chiaramente il motivo della centralità del Gohonzon nella pratica del Buddismo di Nichiren Daishonin, può non essere immediato cogliere il senso di avere un oggetto di culto e della ritualità che ne concerne: «Per noi occidentali potrebbe risultare difficile capire il significato del termine “Gohonzon”, perché mostrare devozione verso un oggetto o qualcosa a cui dedicare la propria vita è una naturale necessità degli esseri umani, e non è tipico solo della religione. Ciascuno di noi, in modo più o meno consapevole, tende a crearne uno che assolve la stessa funzione: fornire un punto di riferimento verso cui indirizzare le proprie speranze e desideri. Per molti la famiglia viene posta al centro di tutto, per altri è la carriera, il denaro, o i beni materiali. Un oggetto di culto nella vita quotidiana è ciò per cui viviamo, su cui basiamo la nostra felicità e che può influenzare ogni aspetto della nostra vita» (Il Buddismo della gente, IBISG, 2013, pag. 62).
    La Soka Gakkai ha ereditato la ritualità tipica del clero pur essendo da anni un’organizzazione laica. Alcune cose sono cambiate nel tempo: ad esempio la versione lunga di Gongyo, che includeva un’ampia parte in prosa del capitolo “Durata della vita del Tathagata”, è stata sostituita da una versione breve introdotta dalla Soka Gakkai nel maggio del 2002. Ma il punto rimane: qual è la funzione della ritualità? In un articolo del maggio 1998, che riproponiamo ai lettori nella versione online di questo numero (524) della rivista, Il Nuovo Rinascimento provava a rispondere così: «Analizzando alcuni comportamenti […], sembra che l’essere umano abbia bisogno di una sorta di rito nella maggior parte delle sue attività: prepararsi l’ambiente di studio o di lavoro, apparecchiare la tavola in un certo modo e riunirvi attorno l’intera famiglia, baciare il coniuge sulla porta prima di andare a lavorare […] Per alcuni, perfino condire l’insalata è un rito. Sembra proprio che l’essere umano, in teoria così razionale e privo di fronzoli, quando non li ha, i riti se li vada a cercare» (NR, 195, 5).
    Se penso a un rito non necessariamente religioso, mi viene in mente una cena a lume di candela per un’occasione speciale, un bagno caldo con sali e bagnoschiuma per un momento di relax, leggere il giornale davanti a un caffè…Tutte cose che denotano il desiderio di ritagliarsi qualche minuto per sé o dare rilievo a un momento particolare.
    La ritualità di Gongyo e Daimoku ha proprio questo scopo: dedicarsi a far emergere la natura di Budda intrinseca nella vita di ciascuno.
    Acqua, candele, incenso, campana fanno parte del rito, oltre che avere un significato originale che è sempre interessante conoscere. Quando si decide di ricevere il Gohonzon l’unica cosa davvero necessaria è il mobiletto per proteggerlo, in quanto, senza tanti giri di parole, è comunque una pergamena in carta di riso soggetta alla possibilità di impolverarsi, strapparsi, bruciarsi ed essere maneggiata in modo maldestro da chi non conosce il suo significato autentico.
    Sulla base di ciò, ognuno può costruirsi un mobiletto, adattarne uno vecchio, trovarne qualcuno che gli piace: quelli dei compagni di fede, ad esempio, possono essere d’aiuto per avere delle misure di riferimento.
    Anche per gli accessori (candele, incensi, ecc.) vale lo stesso principio.

    Il Gohonzon al centro della mia vita

    Nei primi tempi della mia pratica buddista una compagna di fede mi fece notare che il mobiletto che ospitava il Gohonzon non era al centro della parete su cui lo avevo poggiato, e che la mia bellissima collezione di teiere sulla mensola sopra a esso sembrava qualcosa che pesasse sulla mia testa. Per quanto me lo dicesse una persona con cui intercorreva sia confidenza che amicizia, quelle parole mi “irritarono l’orecchio”: l’arredamento del mio salotto era secondo me perfetto e mi rifiutavo di credere che i trenta centimetri a destra o a sinistra di un mobiletto di legno avrebbero influenzato la mia pratica buddista e la mia vita. Ma, come sempre accade “è solamente il cuore che conta” (RSND, 1, 844) perciò, se fino a qualche minuto prima ignoravo totalmente la possibilità di cambiare qualcosa della vita curando questo particolare della mia pratica personale, pochi minuti dopo si presentava il dilemma di ignorare tale consiglio o recitare Daimoku per comprenderne il significato e sentire il legame profondo col Gohonzon.
    Il secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda diceva: «Nel Gosho si legge che ottenere la Buddità vuol dire comprendere che non c’è differenza tra la nostra vita e la vita del Budda. Quando riusciremo a percepire questa identità, non ci sarà nessun karma negativo che ci potrà ostacolare nell’ottenimento della Buddità». E nel volumetto Gohonzon della serie “I tascabili”, edito da esperia, a pagina 25 si legge: «Nelle case private il Gohonzon viene custodito in un mobiletto (butsudan) che deve essere solido, stabile e dignitoso, collocato nel posto migliore possibile, compatibilmente con la disposizione della casa e con le esigenze di chi ci abita».
    Inizialmente infastidita dall’osservazione della mia amica, iniziai a recitare chiedendomi quanto sentissi questa identità col Gohonzon: mentre facevo Daimoku l’occhio mi cadeva sulle mie splendide teiere e quei trenta centimetri di decentramento erano diventati fastidiosi. In breve il mio servizio da tè ha trovato posto in un angolo altrettanto bello del mio salotto, e il butsudan al centro della parete. Il Daimoku che ho recitato dopo tutto questo trasloco ha risuonato in modo diverso: ho sentito che le piccole incertezze d’arredamento non erano legate a un oggetto di culto che tassativamente doveva “sconvolgermi” la casa, ma alla decisone profonda di mettere il Gohonzon al centro della mia vita. Ho visto compagni di fede collocare il Gohonzon in un angolo angusto della stanza, recitare rannicchiati e raccontarmi di come si sentissero oppressi e in un vicolo cieco nella propria esistenza e trovarli tempo dopo cambiati, con uno stato vitale e un atteggiamento rinnovati, grazie anche a una cura diversa nei confronti del Gohonzon.
    Recentemente il direttore generale Nakajima ci ha spiegato come dovrebbe essere il proprio angolo dedicato alla pratica: sia sopra il mobiletto che sulle mensole sovrastanti, non dovrebbe esserci alcun oggetto; sul piano dove si poggiano acqua, candele, incenso, piante, offerte e campana, non dovrebbe esserci nient’altro.
    Sotto, ognuno può mettere ciò che meglio crede.
    A volte succede che accanto alle candele e all’incenso appoggio la cartolina che mi hanno regalato a una riunione, poi aggiungo il regalino di una giovane donna, poi una guida di sensei… insomma periodicamente ho bisogno di controllare la “casa” del mio Gohonzon e se inizialmente mi sembra nuda senza tutti gli oggetti accumulati, un attimo dopo mi sento più leggera, come quando faccio ordine nell’armadio e riscopro con stupore abiti seppelliti da mesi.

    La voce del Budda: la recitazione del Daimoku

    Se il modo con cui ci prendiamo cura della nostra personale “Cerimonia nell’aria” rispecchia quello con il quale pratichiamo, il modo in cui recitiamo Daimoku rispecchia come affrontiamo la vita e i problemi: «Innanzitutto, si recita con la voce che, secondo Daisaku Ikeda, “è un aspetto della vita; è inseparabile dal cuore. Secondo il principio di unicità di corpo e mente, il cuore e la voce sono essenzialmente una cosa sola”. Una persona fortemente determinata a risolvere i propri problemi tramite il potere del Gohonzon non recita certo con una voce flebile e lamentosa ma, per citare il Gosho, il suo «Nam-myoho-renge-kyo è come il ruggito di un leone», il suo ritmo richiama quello di un cavallo al galoppo. Inoltre, i sette ideogrammi che compongono il Daimoku hanno un significato, e quindi vanno pronunciati in modo comprensibile. Quindi, possiamo anche usare la voce e la pronuncia come verifica dell’atteggiamento che abbiamo di fronte alle difficoltà e agli obiettivi. E non finisce qui: possiamo agire sulla voce e sulla pronuncia per influenzare l’atteggiamento interiore» (NR, 195, 4).
    Quando si recita in molte persone contemporaneamente può capitare di non essere all’unisono e che pertanto non esca un Daimoku armonioso. Sarebbe inoltre opportuno avere cura di non coprire la voce di chi guida con la propria, in modo che tutti possano sentire e seguire lo stesso ritmo: questi accorgimenti danno l’opportunità di far emergere unità e armonia quando si pratica insieme. Ma il fulcro di tutto ciò è l’essere umano: la religione è uno strumento e la ritualità acquista significato quando serve a dare valore a ciò che si sta facendo e abitua a comportarsi in modo coerente col Buddismo.
    È umano costruire le proprie certezze intorno a gesti ripetuti, che però non dovrebbero mai diventare una gabbia: se si perde il senso profondo di ciò che si sta facendo, anziché aprire il proprio cuore e la propria mente, si rischia di far diventare la ritualità uno statico e sterile modello di riferimento. In ogni aspetto della vita e della società, la forma e il contenuto sono entrambi importanti e la loro identità imprescindibile. Eppure non bisognerebbe smettere di domandarsi perché si pratica il Buddismo di Nichiren Daishonin e se il modo in cui si fa, fa emergere gioia.
    Daisaku Ikeda spiega che la preghiera non è altro che desiderare qualcosa fortemente, e tanto più questa è forte, tanto più forte sarà la risposta. Il presidente Toda diceva di immaginare che pregare sia come suonare una campana: suonerà diversamente se fatta vibrare con uno stuzzicadenti anziché con un batacchio.
    «La parola fede include tutto: la verità, il coraggio, la saggezza, la fortuna; include la compassione e l’umanesimo, basati sulla pace, la cultura e la felicità di tutti. Fede vuol dire avere eterna speranza, è il segreto di una realizzazione personale senza limiti, il vero principio fondamentale dello sviluppo umano» (Preghiera e azione, esperia, pag. 1).

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