All’inizio della pratica la vita di tutti i giorni non m’interessava affatto.
Desideravo lasciarmi alle spalle una complicata situazione familiare e immaginavo che sarei stata felice se certe condizioni fossero cambiate. Nel frattempo tanti “piccoli” scopi si realizzavano uno dietro l’altro, e comparve nel mio libretto di Gongyo una lunga e complessa “lista dei desideri”. Trascinata dall’entusiasmo della scoperta parlavo della pratica a chiunque mi capitasse davanti, compresi i miei genitori, che iniziarono a praticare. Dove stava il trucco? Mi chiedevo io annichilita. Non era possibile che fosse così semplice! La risposta a questa domanda arrivò con la realizzazione del mio scopo principale, che mi lasciò totalmente spiazzata.
Prima di tutto perché le cose quando accadono per davvero non sono affatto come le immaginavamo: e poi mi accorsi che sì, realizzavo i desideri grazie alla pratica buddista, ma che questo non migliorava che temporaneamente il mio “stato vitale”, cioè come mi sentivo nella vita di tutti i giorni!
Qualcuno, deluso, a questo punto della storia smette di praticare.
Se la gioia della realizzazione dei desideri ha un carattere solo temporaneo, perché affaticarsi con questa disciplina impegnativa? Tanto poi ci risiamo, punto e a capo, alle prese con la nostra triviale vita quotidiana.
La preghiera e l’azione
Nel Buddismo esiste il principio che la fede è uguale alla vita quotidiana. Nichiren Dashonin ce lo ricorda spesso nei suoi scritti con una frase del Sutra del Loto: «Se capitasse loro di esporre qualche testo del mondo secolare o di parlare di questioni di governo o di cose legate alla salute e alle condizioni di vita, saranno sempre in accordo con la Legge corretta» (SDL, 19, 348). Anche il presidente Ikeda afferma sovente nei suoi discorsi che la vita di una persona e la sua fede buddista non sono in alcun modo separate. Generalmente spiega questo principio in due diverse accezioni: la prima, che non si può praticare pensando che tutto si aggiusti solo perché recitiamo Daimoku; la seconda, una pratica corretta si rispecchia nella vita di tutti i giorni: «Se il cielo è sereno, la terra è illuminata» (SND, 1, 251) spiega Nichiren Daishonin con una metafora, paragonando il cielo alla nostra fede e la terra agli “affari di questo mondo”. Le conseguenze pratiche di questo principio sono semplici: per raggiungere i nostri obiettivi è necessario pregare il Gohonzon per realizzarli e infine agire in tal senso. Una persona che si prefigga di laurearsi e non apra mai un libro per studiare, è evidente che pur praticando non realizzerà la sua aspirazione. La fede si manifesta nelle azioni e si rispecchia nella vita di tutti i giorni. Questo non vuol dire affatto che chi incontra problemi non ha fede, poiché il Buddismo non promette di eliminare le difficoltà («Dopotutto nessuno può evitare i problemi, nemmeno i santi o i saggi» (SND, 4, 157) ci ricorda Nichiren Daishonin). La “fede” nel Buddismo sta nel modo di affrontarle: usarle come “legna da ardere” per recitare Daimoku e superarle, accumulando un’esperienza di vittoria dopo l’altra. Si crea un ciclo virtuoso che, usando i problemi e i desideri come carburante, “mette in moto” la nostra vita.
Qui e ora
La realtà di cui è composta la nostra esistenza non è altro che l’insieme dei momenti vissuti ogni giorno, la vita quotidiana, appunto, la cui felicità o infelicità singola, al termine della vita faranno pendere il bilancio finale da una parte o dall’altra, positiva o negativa, felice o infelice. Diversamente da ciò che si crede comunemente la nostra vita quotidiana è la vita stessa, e non esiste altra scelta che cambiare il qui e ora. Nichiren Daishonin dice: «Se uno non è in grado di attraversare un fossato largo dieci piedi, come può attraversarne uno largo cento o duecento?» (Il comportamento del Budda, SND, 4, 45). Se non si è capaci di cambiare la nostra condizione quotidiana, come potremo esercitare un’influenza sul futuro della nostra vita? Per conseguire la felicità assoluta non è necessario anelare a qualcosa di “lontano”: è sufficiente essere capaci di cambiare con la nostra pratica la nostra condizione attuale.
«Soffri per quel che c’è da soffrire e gioisci per quello che c’è da gioire. Considera entrambe, sofferenza e gioia, come fatti della vita e continua a recitare Nam-myoho-renge-kyo qualunque cosa accada. In questo modo sperimenterai una gioia illimitata derivante dalla Legge. Rafforza la tua fede più che mai» (Felicità in questo mondo, SND, 4, 157) …che, detto in soldoni, significa che se sto male, recito per stare subito meglio e metto a segno un istante di gioia in più e uno di sofferenza in meno.
E cosa accade quando una persona mette in moto la propria determinazione verso il futuro, recita dinamicamente per mantenere uno stato vitale energico e gioioso e immerge se stesso nell’agire nel presente?
Ebbene, la sua vita diventa come una potente calamita che attira gli altri, muove l’ambiente intorno: e così il potere della pratica scaturisce come un fiume in piena dalla nostra vita quotidiana, in termini di gioia, fortuna e forza vitale! Si è in grado di trasformare qualsiasi problema, di cogliere l’immenso spessore della vita, di gioirne. Una simile condizione vitale è “la fede uguale vita quotidiana” di cui parla il Buddismo di Nichiren Daishonin.
Specchiarsi nella vita
Un secondo aspetto del principio “la fede è uguale alla vita quotidiana” è riferito all’agire con buon senso, e anche “dimostrare”: si tratta di un effetto della comprensione della vita quotidiana che si manifesta praticando correttamente.
Nella Proposta di pace 2006 il presidente Ikeda cita Montaigne che tra le altre cose dice: «Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve» (BS, 115, 19). Ma, attenzione! Vivere come si deve, non significa solo fare i bravi ragazzi, seguire le regole della società (che possono essere sbagliate) e organizzarsi una vita da vetrina. Non è garanzia per essere felici. Sono necessari gli sforzi istante dopo istante per cambiare il proprio stato vitale, cioè recitare Nam-myoho-renge-kyo ogni volta che ne abbiamo bisogno.
Montaigne conclude i suoi Saggi donandoci queste parole: «È una perfezione assoluta, quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l’uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo che cosa c’è dentro. […] E anche sul più alto trono del mondo non siamo che seduti sul nostro culo» (Ibidem).