Si parla tanto dell’importanza del dialogo, un principio valido ovunque, dalle relazioni fra le singole persone a quelle fra le nazioni. Quello del dialogo è un metodo utilizzato da tutti i grandi maestri buddisti per insegnare alle persone a riconoscere il grande valore della loro vita. E a rispettarlo. Perché dialogo significa anzitutto rispetto profondo, di sé e dell’altro
La parola dialogo deriva dal greco dià (fra) e lògos (termine che include significati come linguaggio, principio, razionalità, legge ecc.). Nel Buddismo non è semplicemente un veicolo o un mezzo per comunicare il proprio messaggio, ma esprime un principio fondamentale: la fiducia negli esseri umani, nel loro potenziale e nella loro immensa dignità in quanto manifestazioni della Legge dell’universo. Nella tradizione buddista, l’interazione umana fondata sul rispetto e il dialogo aperto ha svolto un ruolo centrale verso la scoperta di valori universalmente condivisi che permettono agli esseri umani di vivere nel modo più umano e migliore possibile.
La storia ci offre innumerevoli esempi di studiosi, religiosi e filosofi che, pur nutrendo una convinzione solida e apparentemente incrollabile nelle propie idee, piuttosto che sostenerle a senso unico sono stati maestri nell’arte del dialogo. Una forte convinzione non è necessariamente un ostacolo al dialogo; al contrario, quando è accompagnata da un’altrettanto forte apertura mentale, è un ingrediente fondamentale per il suo successo.
I sutra, che riportano gli insegnamenti del Budda, presentano Shakyamuni come un maestro che ha trascorso la vita viaggiando da un luogo a un altro, interagendo con le persone, offrendo loro un mezzo per vivere con fiducia e speranza di fronte alle inevitabili sofferenze della vita. Le persone che incontrava erano diverse per livello sociale ed economico, bagaglio culturale, capacità di comprendere i suoi insegnamenti. Si impegnò dunque in un dialogo semplice e naturale per risvegliare le persone al Dharma – la verità interiore assoluta e universale – e condividere con gli altri la sua profonda fiducia nelle loro capacità di agire sulla base di questa verità e realizzare vite di assoluta felicità.
Anche Nichiren Daishonin era un maestro nel dialogo. Molte delle sue opere principali, come quelle in cui protesta con il governo, sono scritte sotto forma di dialogo. Il suo più importante trattato, Adottare l’insegnamento corretto per la pace nel paese (Rissho ankoku ron), si svolge come un dialogo tra due individui, il padrone di casa e l’ospite, i cui punti di vista sono divergenti, ma che trovano un terreno comune nella preoccupazione per la situazione difficile di una società distrutta dalla guerra e dalle calamità naturali. Il dialogo si sviluppa in uno scambio di punti di vista sulle cause e le possibili risposte alla situazione disastrosa e si conclude con il voto da parte di entrambi di lavorare insieme per un obiettivo comune.
Il dialogo è sempre stato il punto centrale anche nella Soka Gakkai: fin dai primissimi anni Trenta in Giappone, i piccoli gruppi di discussione, in cui dialogo e incoraggiamento individuale si basano sul rispetto reciproco e il riconoscimento dell’uguaglianza, sono stati il fulcro dello studio e della pratica.
Perché, come afferma il presidente della SGI, Daisaku Ikeda: «La vittoria sui nostri pregiudizi, sul nostro attaccamento alle differenze, è il principio guida del dialogo aperto, la condizione essenziale per la realizzazione della pace e del rispetto universale per i diritti umani».
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Sarebbe così bello dialogare, se non fossero tutti così ostinatamente sbagliati!
Il dialogo con le persone simpatiche e affini, o con tutti quelli che amo, è un’esperienza meravigliosa. Mi piace davvero ascoltare e dire la mia opinione e sono sempre assai colpita dalla ricchezza che scaturisce in queste occasioni. Sono anche disponibile a farmi carico delle critiche e dei suggerimenti per migliorare e, quando sbaglio, so chiedere scusa. Ci sono persone non affini o non tanto simpatiche con le quali si può dialogare tranquillamente e in modo costruttivo. Purtroppo l’idilliaco quadretto è limitato a una quantità minima di persone e, molto più frequentemente, devo incontrare persone piuttosto faticose. Confesso che frequentare attivamente la comunità buddista incrementa notevolmente gli incontri del secondo tipo. Il punto dolente è rappresentato dall’incontro con persone che mi sembrano offendere la mia o altrui dignità o calpestare il mio senso di giustizia.
In queste circostanze, entro immediatamente in contatto con la mia oscurità fondamentale, che assume le sembianze di un rottweiler. Con un rottweiler ci si può azzannare o abbaiare furiosamente, ma mi risulta che dialogare non sia consigliabile. Per molto tempo ho pensato che i nobili motivi che aizzavano il rottweiler giustificassero la sua ferocia, ma poi ho dovuto ammettere che la collera provoca solo danni e squalifica ogni argomentazione.
Mi sono immaginata un fumetto in cui due personaggi, visibilmente alterati, litigano fra loro. Che cosa ci sia scritto nella nuvoletta che contiene le loro parole è irrilevante. L’immagine mostra chiaramente due persone che stanno litigando. L’azione di litigare, l’andare allo scontro è di per sé priva di rispetto, non può affermare alcun contenuto positivo. Inoltre, dopo ogni impresa del rottweiler, sono completamente priva di forza vitale, il che comporta un triste soggiorno nel mondo d’inferno, una faticosa risalita e una penosa fase di ricostruzione. Il tutto si rivela essere un costosissimo spreco di risorse e buona fortuna.
Da quando ho preso coscienza che il mio problema è la presenza del rottweiler, e non delle persone prepotenti o antipatiche, ho intrapreso un’opera d’intenso lavorio davanti al Gohonzon, per riuscire a passare alla fase successiva, quella del dialogo, appunto. Il principio ispiratore della seconda fase è che la Legge esiste in ogni fenomeno e persona e se io non sono in grado di percepirla, dipende dalla mia oscurità. Gli incontri difficili, faticosi, dolorosi con gli altri mettono in luce la potenza della mia oscurità e mi aiutano a trasformarla. Questo lungo viaggio alla ricerca del dialogo è stato sempre ispirato e sostenuto dal costante incoraggiamento di Daisaku Ikeda, senza il quale avrei trascorso la vita a ringhiare le mie buone ragioni.
Laura Barbieri
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Il rispetto che cura
Negli anni Sessanta uno psicoterapeuta americano, Carl Rogers, riflettendo sulla propria esperienza fece una scoperta interessante. Si rese conto che, indipendentemente dai metodi e dalle teorie che seguivano, certi psicoterapeuti ottenevano notevoli risultati con i loro pazienti in un tempo relativamente breve, mentre altri no, anche dopo anni e anni. L’obiettivo della psicoterapia in genere consiste nel riuscire a trasformare l’approccio della persona col mondo interno, cioè con se stessi, e col mondo esterno, in modo da riuscire a vivere meglio, essere più contenti e soddisfatti, e meglio inseriti nel contesto familiare e sociale in cui si vive.
E, sempre in parole molto povere, si può dire che una terapia, la quale si basa su una serie di sedute in cui si “dialoga” con un altro essere umano sia riuscita quando la persona, il cosiddetto “paziente”, alla fine è stata capace di ristrutturare meglio le sue risorse per affrontare il mondo e ne vede la prova concreta nella vita e nei rapporti.
Bene, Rogers cominciò a fare ricerche, con una rigorosa metodologia scientifica per vedere quali fossero i criteri, relativi al terapeuta nella relazione che, indipendentemente dal paziente, facessero sì che certi terapeuti avessero più successi di altri. E ne trovò diversi.
Autenticità: cioè che il terapeuta sia se stesso, insomma sia sincero e consapevole delle proprie emozioni nella relazione con l’altro. Empatia: cioè che sia capace di entrare nel mondo interiore e nel sentire della persona che ha di fronte senza perdere di vista il proprio equilibrio personale. Considerazione positiva: nelle parole di Rogers «la capacità di accettare con calore ogni aspetto dell’esperienza del cliente, in quanto parte essenziale». Accettazione incondizionata: «il terapeuta dà valore al cliente in modo assoluto, non condizionato» insomma lo rispetta profondamente nella sua unicità di essere umano.
Con una serie di ricerche sperimentali verificò che più questi ingredienti erano presenti nella relazione fra il terapeuta e il suo paziente, più quest’ultimo aveva la possibilità di “guarire” nel senso ampio di cui si accennava sopra.
Ma perché? L’ipotesi di Rogers è che ogni persona abbia in sé la capacità di realizzare se stessa, trasformare positivamente i propri limiti in opportunità, manifestando appieno le proprie potenzialità, quando incontri condizioni di relazione favorevoli.
Le sue osservazioni funzionano assai bene, tanto che da lui e da altri è nata tutta un’altra idea di relazione d’aiuto e di modo di rapportarsi al disagio psicologico che si chiama “counseling”. Ma, a guardar bene, queste “scoperte” non sono valide solo nell’ambito ristretto dall’aiuto professionale.
In qualsiasi colloquio con un’altra persona possiamo aiutarla a “ristrutturarsi” per il meglio, “ristrutturando” al tempo stesso anche qualcosa di noi stessi, imparando e insegnando ogni volta qualcosa di nuovo. Se leggiamo con attenzione i criteri di Rogers vediamo che ci ricordano un insegnamento antico che sta al cuore della dottrina buddista: il profondo rispetto per sé e per gli altri, il riconoscimento della nostra e dell’altrui natura di Budda, in parole povere, ognuno di noi, indipendentemente dalle sue circostanze di partenza ha dentro di sé la capacità di salvare se stesso e di costruire una vita felice.
Marialuisa Cellerino