Hideaki Takahashi parla del suo primo incontro con il presidente della SGI Daisaku Ikeda e dell’effetto che la relazione instaurata col maestro ha avuto sulla sua vita
Redazione: Nel Gosho Lettera da Sado Nichiren Daishonin dichiara che «chi ha un cuore di leone otterrà sicuramente la Buddità». Come spiegherebbe questa frase?
HIDEAKI TAKAHASHI: Ogni volta che leggo questo passo mi ricordo di quando avevo diciassette anni. A quell’epoca infatti ebbi l’opportunità di leggere proprio questo brano ad alta voce e di commentarlo. Purtroppo non riesco a ricordare che cosa dissi. Ma ricordo molto chiaramente quello che disse il presidente Ikeda, poiché lo considerai come un consiglio rivolto a me personalmente. Quel consiglio mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Egli parlò del “cuore del re leone”. Disse che significa avere sempre un atteggiamento attivo e non soccombere mai alla passività. Recitare Nam-myoho-renge-kyo con atteggiamento attivo o passivo conduce a risultati molto differenti. Questo è l’aspetto decisivo del Buddismo di Nichiren.
Il presidente Ikeda disse anche: «Il re leone non cerca compagni. Qualunque cosa accada, la relazione con il vostro maestro rimarrà fondamentale. Quindi sforzatevi di fare vostra la visione del maestro e di compiere, in questo modo, la vostra missione. Questo è il cuore del re leone». Quando ascoltai queste parole, decisi di avanzare con lui fino all’ultimo istante della mia vita.
Era la prima volta che incontrava Daisaku Ikeda?
TAKAHASHI: Quella lettura ebbe luogo il 23 aprile 1966. Lo ricordo con precisione perché lo annotai nel mio volume degli scritti di Nichiren Daishonin. Lo avevo incontrato personalmente per la prima volta a una grande riunione, circa sei mesi prima.
Lei si prese “a cuore” le parole di Ikeda. Dopo aver deciso di sviluppare un cuore di leone fu facile per lei sviluppare lo spirito di alzarsi da soli?
TAKAHASHI: Naturalmente non fu facile. Ogniqualvolta mi trovavo di fronte a grandi difficoltà o a un punto di svolta della mia vita, richiamavo alla mente le sue parole. Quindi pensavo: «Forse ora è giunto il momento di verificare se la mia determinazione è davvero abbastanza forte». Ricordavo la sua voce, l’atmosfera e la sensazione della mia determinazione di allora. Certamente, come esseri umani tendiamo facilmente a sfuggire alle difficoltà o alla realtà. Allora, ciò che mi incoraggia a sfidare me stesso comunque, ciò che risveglia il mio coraggio, è la voce del presidente Ikeda che serbo nel cuore.
Che cosa acquisiamo sviluppando l’atteggiamento di non sfuggire alle difficoltà?
TAKAHASHI: Ogni essere umano ha un potenziale straordinario e grandi capacità, ma la maggior parte delle persone usa una piccola percentuale del proprio potenziale poiché non si sfida. Ecco perché il presidente Ikeda parla sempre dell’importanza di un atteggiamento attivo verso la vita. Egli crede che tutti possano manifestare questo grande potenziale ed è determinato a dimostrarlo personalmente perseverando negli sforzi fino all’ultimo istante della sua vita.
Perché è così importante comprendere questo punto?
TAKAHASHI: Perché questo è il vero punto di partenza del Buddismo. Quando il Budda Shakyamuni raggiunse l’Illuminazione, egli poteva renderne partecipi gli altri o tenere per sé la propria realizzazione e godere individualmente della pace e tranquillità dell’Illuminazione. Se avesse optato per quest’ultima possibilità, nessuno oggi praticherebbe il Buddismo. Egli decise di condividere questa gioia con gli altri. Fino alla fondazione della Soka Gakkai, il Buddismo aveva poche ricadute nella vita quotidiana. Nessuno sapeva come applicare questi insegnamenti alla propria vita. Per questo la presenza di un maestro che comprende e dimostra il punto chiave del Buddismo è così importante.
Lei considerò fin da subito il presidente Ikeda come suo maestro spirituale o fu un processo graduale?
TAKAHASHI: Provavo grande ammirazione e slancio verso di lui e al tempo stesso percepivo l’immensa aspettativa che egli nutriva nei nostri confronti. Questa sincerità mi toccò davvero. Non erano molti gli adulti nella società che mi offrivano questo genere di attenzione o che mostravano un atteggiamento così sincero verso di me. Molto spesso ci dava dei consigli. Una volta disse: «Siete totalmente liberi di scegliere la vostra università, la vostra professione e la strada da seguire. Ma quel che mi aspetto da voi è che mostriate la vera grandezza di questo Buddismo e il grande potenziale che un essere umano può avere. Avete la responsabilità delle vostre vite. Ho piantato un seme dentro di voi, ma il fatto che questo seme cresca e diventi un grande albero non è mia responsabilità, dipende da voi. Mi piacerebbe osservare il vostro sviluppo e incontrarvi ancora ogni dieci anni».
Quindi ritiene che il presidente Ikeda abbia personalmente contribuito alla sua crescita?
TAKAHASHI: Sì, questo è stato l’allenamento della mia gioventù e successivamente, quando ho fatto attività all’interno della Soka Gakkai, ho perfezionato concretamente il mio carattere. Il presidente Ikeda si sforza in ogni momento. Egli porta sempre avanti la lotta fra vittoria e sconfitta. Perciò anche noi, suoi compagni di fede, cercavamo sempre di sforzarci al cento per cento. Le sue azioni erano così veloci e imprevedibili che noi non gli stavamo dietro. Da un momento all’altro ci dava indicazione di inviare un saluto o chiamare una persona al telefono per comunicare una notizia e di tornare a riferirgli la reazione dell’interessato. Non c’era tempo di rilassarsi. Spesso facevo errori e mi sentivo sottoposto a eccessive richieste e, prima di addormentarmi, riflettevo sui miei errori e me ne dispiacevo. A volte avrei voluto scappare lontano. Ma ho perseverato, col presidente Ikeda si può solo andare avanti. Sento una profonda gratitudine e una grande stima per questa persona che mi ha permesso di compiere uno sviluppo personale completo.
Sta quindi dicendo che per lo sviluppo individuale è importante avere un maestro?
TAKAHASHI: Sì, lo credo, perché con un grande maestro si può imparare a realizzare precisi ideali. È molto difficile seguire un nuovo sentiero senza tale modello.
Può spiegarci meglio questo punto? Che cosa sarebbe stato diverso?
TAKAHASHI: Certo. Il mio tallone d’Achille è la tendenza a essere passivo. Prima di iniziare a praticare il Buddismo di Nichiren, io e la mia famiglia seguivamo il Nembutsu. Poiché in esso viene messo al centro dell’adorazione un Budda divinizzato a cui affidare la responsabilità della propria vita, esso tende a rendere le persone passive. Quindi, la mia debolezza è la tendenza a non essere attivo, la difficoltà di prendere decisioni. All’epoca trovavo davvero difficile vivere in maniera attiva. E, se fossi rimasto tale, avrei probabilmente condotto una vita ordinaria.
Molti membri si chiedono cosa accadrà dopo la morte del presidente Ikeda. Come possiamo prepararci a questa situazione?
TAKAHASHI: Io credo che la sua decisione sia: «Se morissi oggi, non vorrei pentirmi di niente». Con questo atteggiamento si impegna costantemente affinché kosen-rufu si possa sviluppare in eterno. Per noi si tratta di decidere se vogliamo portare avanti il movimento con lo stesso atteggiamento. E, come ho detto già all’inizio, il presidente Ikeda pensa di averci già trasmesso tutto quello che serve. Siamo già in grado di assumerci tutta la responsabilità. In questo senso il futuro dipende dai nostri sforzi quotidiani.
È importante incontrare personalmente il presidente Ikeda?
TAKAHASHI: Mi auguro che quanti più membri possibile possano incontrarlo. Assistere alle proiezioni dei video delle riunioni mensili è comunque una buona occasione per sviluppare una relazione con lui. Come dice il Sutra del Loto, maestro e discepolo nascono insieme. La relazione fra maestro e discepolo non si limita a questa vita; in tal senso sono sicuro che tutti potremo incontrare il nostro maestro.
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la Testimonianza / Questo “altro” che aiuta il discepolo a divenire se stesso
Il “rapporto” con Ikeda all’inizio della pratica era di “affiancamento”, di studio delle idee di colui che gli altri mi indicavano come interfaccia per l’interpretazione della filosofia buddista. Mi veniva proposto un maestro di vita preconfezionato: ma io me lo volevo scegliere, dovevo instaurare un rapporto dialettico. Perciò studiavo la teoria buddista e continuavo a praticare. Solo in seguito l’ho incontrato personalmente. In Giappone al corso internazionale per i giovani, nel 1988. Mi colpì moltissimo. Per la spontaneità, l’irriverenza verso l’etichetta, la forza vitale, l’allegria. Durante il suo viaggio in Italia nel 1992, lo incontrai di nuovo: ci prese in giro e infilò i suoi pensieri con forza dentro una sfilza di battute. Questa “peste” era colui che avevo scelto come maestro di vita? Confermai allora: questo è il mio maestro, sensei. Forte, allegro, non ha paura a confrontarsi con le idee degli altri, combatte in prima linea la mia stessa battaglia, aiutandomi a studiare il Gosho.
Sono passati degli anni, durante i quali accanto a molte realizzazioni concrete si è materializzato un nemico terribile: i demoni interiori. Finché si trattava di combattere “i problemi esterni” tutto era molto più semplice, avevo imparato il meccanismo. Ma dopo venti anni di pratica la sfida era come vincere sull’oscurità fondamentale. Ho iniziato a scrivere una lettera a sensei. Mi chiedevo: come ha fatto lui a superare questa fase? Un giorno, infine, “mi” ha risposto con le lezioni sul Raggiungimento della Buddità in questa esistenza e sull’Apertura degli occhi… con quelle, posso procedere ancora una volta nella mia rivoluzione personale. «Diceva Thomas Merton che “non possiamo trovare noi stessi in noi stessi, ma solo negli altri. Allo stesso tempo, prima di poter andare verso gli altri dobbiamo trovare noi stessi”. Il maestro è questo “altro” che aiuta il discepolo a divenire se stesso» (ETAS, E&M 6 2007, SDA Bocconi, Forum Esistono ancora i maestri?). La lettera ha un nuovo incipit. Mi mancano i dettagli, ma so cosa devo fare: olio di gomito e coraggio. Intanto gli ho mandato un messaggio per il suo ottantesimo compleanno: auguri sensei. Io mi alzo da sola, accanto a te.
Barbara Bigagli