In questi due anni di pratica del Buddismo sono cambiate davvero tante cose.
Ho passato l’adolescenza sentendomi sempre sbagliata, troppo avanti o troppo indietro rispetto agli altri, piena di cattiveria verso la mia famiglia, verso mio padre in particolare, sempre così severo, così autoritario e poco affettuoso, sempre restio al dialogo. Ero insofferente alle urla che rimbombavano spesso in casa, passando così ore in camera, isolata, a leggere poesie del Decadentismo e a scrivere fogli zeppi di frustrazione.
Poi a sedici anni arrivò la grande batosta di famiglia: mio fratello, diciannove anni, si ammala, ha un tumore, inizia la chemioterapia e con quella anche la mia discesa verso il baratro dei sensi di colpa: «Perché è capitato a lui? Sono io la pecora nera! Perché?». E da lì prese avvio una disgregazione ben più visibile: la famiglia restò a mala pena unita finché mio fratello non finì le cure, durate due anni. Ognuno poi affrontò l’esperienza a modo suo: io, finite le superiori, me ne andai in Irlanda per sei mesi e nel frattempo i miei genitori si separarono, così al mio ritorno mi ritrovai ad abitare con mio fratello e mio papà. Scoprii sicuramente il valore e la forza di mio fratello in quel periodo, ma la convivenza con mio papà mise a dura prova la mia resistenza: continuavo a chiedermi perché la famiglia si fosse disgregata invece che unirsi di più.
Non capivo, provavo solo rabbia e vuoto. Oltretutto, l’insofferenza, la confusione e la sensazione di fare solo male a chi mi si avvicinava mi portò a lasciare il mio ragazzo, ma iniziò così una serie di pentimenti e una sofferenza ancora maggiore. Il tempo però, come dicevano già nell’antica Grecia, ti addolcisce: mia mamma, che nel frattempo continuavo a vedere più spesso che potevo, ma che se la passava forse peggio di tutti noi, tornò a casa dopo un anno e mezzo. Il rientro fu difficile, non ci si assestò mai, ancora pianti e urla, pareva una storia senza soluzione. E io continuavo a vagare fra tentativi di iniziare l’università finiti male: decisi quindi per un corso di restauro di due anni e mi trasferii a Udine per lavoro, sempre senza pace, alla ricerca di qualcosa, senza ragazzo e con quasi nessuna amicizia, visto che passavo il tempo a lavorare e basta. Mio fratello era guarito già da un po’, ma col senno di poi, mi rendo conto che quegli anni non erano stati altro che il tentativo di espiare il senso di colpa.
Poi arriva un viaggio negli Stati Uniti, e lì avviene l’incontro con il Buddismo: mi ritrovo con un gruppo di amici a San Francisco, fra i quali c’è il fratello di una mia grandissima amica, Paolo, che è buddista da tre anni, e il cambiamento che ho visto in lui è stato il motivo per cui mi sono incuriosita. Viene fuori da un grande lutto, la morte del padre: gli chiedo come ha fatto ad affrontare questa esperienza senza uscirne rotto, e lui inizia a raccontare della pratica buddista che gli ha permesso di risolvere i problemi con suo padre (simili ai miei) prima che si ammalasse, e di quanto questo l’abbia aiutato ad accettare la sua scomparsa. Un pomeriggio gli chiedo se posso andare con lui a questo Centro di San Francisco e mi dice: «Prova a dire questa frase (Nam-myoho-renge-kyo) pensando a qualcosa di irrealizzabile», e io chiedo di trovare un po’ di pace, il ragazzo giusto, le scelte giuste.
Tornata in Italia continuo a interessarmi al Buddismo di Nichiren Daishonin e nel frattempo cambio lavoro di nuovo: inizio a gestire un pub che piano piano, però, mi porta sull’orlo del crollo psico-fisico. Riappare anche l’ex ragazzo, quello lasciato anni prima e che sempre era stato presente come un’ossessione.
Ma da allora ho continuato a recitare Daimoku, con immensa fatica perché incombeva sempre la tendenza a vedere fuori di me le cause delle mie sofferenze, a pensare di non poter far niente e a rispondere a ogni sfida, a ogni attacco, con un attacco maggiore.
Ho provato a non ascoltare la mente per una volta, ho ascoltato rumori e suoni più profondi, ho ascoltato la mia voce dire Nam-myoho-renge-kyo. E lì è iniziata la mia rivoluzione e da lì ho lottato per espandere la mia vita, per dialogare con l’ambiente. È stato come guardarsi allo specchio per la prima volta. Fa male, è difficile e scomodo questo percorso: non ci sono scorciatoie, devi imparare a far tacere la mente, a far parlare la tua Buddità. Devi guardarti dritto negli occhi, e così come sei, un po’ ammaccato e dolorante per le ferite, inizi ad apparecchiarti l’esistenza con tenacia, con tanta forza quanta è la tua voglia di avviare una svolta.
E la svolta arriva, perché, come dice Nichiren: «Non accadrà mai che la preghiera di un devoto del Sutra del Loto rimanga senza risposta» (Sulle preghiere, SND, 9, 182-83).
Per arrivare alla conclusione, il Daimoku mi ha guidata e protetta in modo inaspettato: continuavo ad andare verso una direzione, ma, chissà perché, non riuscivo a concludere quello che avevo in mente: non sono mai tornata con il mio ex ragazzo, perché, mentre tentavo di capire se davvero volevo stare con lui, è entrata nella mia vita la persona con la quale convivo da due anni, che adoro e con cui ho comprato una casa dove mi trasferirò al più presto.
Con il Daimoku, con i meeting, con l’attività frequente di byakuren, la mia vita nel giro di pochi mesi è stata stravolta: ora è da un anno e mezzo che sono all’università, con risultati incredibili, lavoro, ho una casa mia da condividere con chi amo e che metterò a disposizione per i meeting. Mia mamma ha ricevuto il Gohonzon prima di me, mio papà le ha costruito il mobiletto e mio fratello abita da due anni nell’appartamento sopra i miei genitori con la sua ragazza. Oltre a tutti questi benefici, quello mio personale, più intimo, è stato l’aver capito, grazie alla pratica, che, ancora dopo sette anni, nella mia testa le esperienze del passato non erano risolte, erano ancora massi enormi che a suon di Daimoku si sono sgretolati: ora ringrazio la mia vita di aver fatto quelle esperienze, perché hanno permesso anche a me di dare alla vita quel ‘valore aggiunto’ che avevo visto nelle persone che praticavano e che tanto invidiavo.
La mia rivoluzione è stata ed è questa: un’acquisizione sempre più profonda del mio potenziale. L’esperienza più grande è, per una persona cervellotica e sfiduciata come me, non sentirsi più in balìa degli eventi, non avere più la sensazione dello smarrimento e offrire, assieme all’acqua e alla frutta, la determinazione di capire che ci sono cause interne, non colpe esterne, che il passato è un trampolino, non un macigno, che lottare ogni giorno non toglie tempo alla nostra vita, ma le dà valore: capire questo è una rivoluzione, la più difficile e la più ricca di soddisfazioni: è per questo che ho deciso di intraprenderla per tutta la vita.
La mia rivoluzione continua ogni giorno: ho iniziato tante cose e ora devo portarle avanti. Lotto ancora per trovare un buon dialogo con mio papà, ma le cose sono cambiate parecchio da quando c’è un Gohonzon nella sua casa!
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