Ci sono incontri e parole che lasciano il segno. Un segno così profondo da risvegliare la primavera del Buddismo in EMILIA-ROMAGNA, nei primi anni ’80. E come un prato che si risveglia dopo un lungo e freddo inverno, i “fiori” di kosen-rufu sono sbocciati rigogliosi nella regione
All’inizio c’erano libretti di Gongyo fotocopiati e chilometri di strada per raggiungere i pochi che avevano il Gohonzon. C’erano giovani entusiasti e curiosi che portavano i genitori ai meeting e c’erano genitori che cominciavano a praticare: un po’ per “controllare” cosa facessero questi strani figlioli, un po’ perché alla fine l’entusiasmo è una cosa contagiosa. Si provava e poi alla fine si parlava con un altro e un altro ancora. Fino a diventare così tanti che le stanzette non bastarono più e si pensò che c’era proprio bisogno di una sede aperta sempre e per tutti. Fino a diventare così tanti che la ricostruzione di una storia di quei tempi diventa un incrocio intricato di nomi, luoghi e vicende. L’avvio di kosen-rufu in Emilia-Romagna più che un punto di partenza dà l’impressione dello sbocciare improvviso di un campo di fiori che fino al giorno prima sembrava spoglio. La crescita del numero dei praticanti è stata infatti assai rapida tanto che se volessimo citare i nomi di tutti i pionieri non basterebbe lo spazio. Dai ricordi dei primi praticanti, alcuni un po’ sfocati altri vividi e precisi, pare che la pratica in questa regione sia arrivata da tre strade differenti. Emilio infatti arrivava da Sestri Levante e fu lui a parlarne a Susi e Marco che abitavano allora a Bologna. Era il 1979. A Reggio Emilia invece Valdo aveva cominciato a recitare Daimoku grazie a un giovane di Barletta. Era, mese più mese meno, il 1980. La terza strada si collega addirittura a New York. Là si era recato Marco musicista jazz del Ferrarese. C’era andato per trovare ispirazione in un momento non proprio felice della sua vita. Lì ebbe la fortuna di incontrare musicisti del calibro di Herbie Hancock, Wayne Shorter e Buster Williams. Fu quest’ultimo a fargli shakubuku. Lui non solo ne fece tesoro ma tornò a Copparo col desiderio di far conoscere Nam-myoho-renge-kyo a quante più persone possibile. Era il 1982. «Sono andata alla mia prima riunione nel gennaio del 1984 – ricorda Miriam Malaguti di Ferrara – eravamo in sei, tutti principianti, e poi c’era Marco, l’unico membro con il Gohonzon. In quella riunione non capii praticamente nulla, ma ero molto attratta e decisi di provare. Mi rispecchiai talmente in questa pratica che in un mese feci cinquanta shakubuku. Tutte persone che con il tempo hanno continuato a praticare. Le riunioni erano sempre più affollate e in un anno i praticanti passarono da sette a trentacinque e i Gohonzon alla fine dell’anno erano già dodici». «Sì è vero – continua Adriana Cavalieri Rivola, una delle prime praticanti di Bologna – c’era un grande fermento. Molti si avvicinavano attratti dalla filosofia buddista in particolare poi però capitava anche che alcuni, capito che si trattava di una disciplina da fare seriamente e che dietro insomma c’era dello sforzo, si allontanavano». Anche Iolanda Lambertini ha cominciato a praticare perché a parlargliene fu il figlio Antonio. «Lui aveva cominciato un anno prima, io nel 1983 e ancora oggi sono grata a lui e alla pratica. Certo i primi tempi si brancolava un po’ nel buio, ma lo studio del Buddismo ci ha aiutato tantissimo. Ho cominciato a sessant’anni e non smetterò mai. Ora che per questioni di salute esco poco e frequento poco le riunioni, recito sempre Daimoku per proteggerli».
I giovani in Emilia-Romagna sono stati quindi l’anello di congiunzione fra tre generazioni. A Bologna in particolare in quegli anni si respirava politica e fermento sociale, con quella voglia di cambiare che animava tanti spiriti. Nicoletta Suzzi di Bologna aveva sedici anni quando ha cominciato a praticare nel 1981. «C’era un ragazzo nella mia scuola che faceva uso di droga come moltissimi a quei tempi. Poi mi sono accorta che in lui qualcosa era cambiato e che aveva smesso con gli stupefacenti. Un bel giorno mi sono decisa, gli sono corsa dietro e gli ho chiesto cosa era successo. Mi ha parlato per quattro ore». «Erano anni impegnati – dice ancora Nicoletta – e tante volte potevi incontrare nelle riunioni persone tanto diverse da te anche politicamente, poi ti mettevi lì e facevamo tantissimo Daimoku tutti insieme, senza parlare di altro. Una volta ricordo che a casa dell’Adriana Rivola eravamo in quarantasei. Il nostro Daimoku faceva tremare il pavimento». Un Daimoku unificante in tanti sensi come rammenta Adriana: «La prima domenica del mese si faceva kosen-rufu Gongyo. Di solito alle riunioni si arrivava dopo il lavoro un po’ stanchi, invece la domenica alle dieci del mattino vedevi arrivare queste giovani donne belle, eleganti e profumate. Io notavo gli sguardi accesi dei giovani».
Di attività, anche allora, se ne faceva tanta. Quando le case, anche le più grandi, si rivelavano troppo piccole per contenere il numero crescente di praticanti, alcuni prendevano in affitto dei locali per riuscire a ospitare tutti. Gli zadankai erano tre al mese e poi una riunione di studio e il kosen-rufu Gongyo della domenica. Responsabili veri e propri non c’erano ancora e spesso arrivavano responsabili da Firenze a incoraggiare e sostenere i praticanti dell’Emilia e della Romagna. Tra loro Riccardo Pacci «ci aveva molto a cuore» ricordano oggi in moltissimi. Per il resto si studiava su fotocopie e fogli ciclostilati. Un grande supporto erano il Gongyo e il Daimoku registrati su audiocassetta. Poi arrivò Il Nuovo Rinascimento a dare sostegno alle attività. «Me lo ricordo ancora il primo numero del febbraio 1982 – dice Nicoletta – in quel momento ebbi l’impressione che stavamo diventando grandi, importanti». Certo anche lì non è stato facile. «I giornali – racconta Emilia – arrivavano da Firenze e venivano distribuiti alle riunioni. Chi aveva questo compito di solito imparava praticamente gli argomenti presenti in quel numero a memoria. Saggi di sensei, Gosho e anche le esperienze così da trasmetterli a tutti e stimolare le persone ad abbonarsi al giornale». Una bella determinazione non c’è che dire. Anche far circolare le comunicazioni non era poi così semplice come ora. «Era un delirio – dice ancora Emilia – andavamo in giro con le tasche piene di gettoni telefonici alla ricerca di una cabina libera». «Sì, è vero. Sentivamo fortemente il nostro impegno» conferma Tinto Bruini che ha cominciato a Modena nel 1982. «Parlavamo moltissimo della pratica spesso addirittura nei bar o per strada. Forse allora non c’era molto studio, che abbiamo approfondito nel tempo, ma eravamo molto sinceri». Anche la Romagna in quegli anni ha avuto persone che hanno saputo mettere delle radici profonde. Rina Brusi di Ravenna ha cominciato nel 1981. «Della pratica mi parlò mia nipote, io ero incredula e pensavo: “Se è una cosa così bella perché nessuno me ne aveva mai parlato?”. Ci ho provato e non ho più smesso. Dopo aver partecipato al primo corso nazionale dal tema “Alzarsi da soli” sono tornata a casa e ho cominciato a fare shakubuku prima di tutti a mio marito e mia figlia che oggi pratica ancora. A quel tempo l’unica adulta ero io, e sono stati i giovani quelli che hanno portato avanti l’attività». Sandra Nobile di Ravenna ha cominciato un po’ più tardi nel ’90, ma a oggi ha realizzato centosettantasei shakubuku che hanno ricevuto il Gohonzon! Persone di Ravenna, Piacenza, Forlì, Cesena hanno cominciato a praticare con lei. «Mi piace ascoltare le persone – dice Sandra – ci ho messo due anni per ricevere il Gohonzon, avevo tutto, non mi mancava niente. Poi ho compreso il senso di missione e oggi la mia casa è sempre aperta a tutti».
All’ondata degli anni Ottanta fatta di “improvvisazioni” e scoperta è seguita quella degli anni Novanta. Quindi l’organizzazione del territorio, le responsabilità, l’inaugurazione del Centro culturale a Bologna il primo ottobre del ’90. La presenza dell’università ha poi rappresentato un forte stimolo per far conoscere la Soka Gakkai. La visita del presidente Ikeda nel ’94 a Bologna, dove ricevette dall’alma mater l’anello dottorale, segnò un forte impulso alle attività sul territorio. Organizzazione di mostre, eventi e il conferimento della cittadinanza onoraria a sensei da parte di numerosi comuni dell’Emilia-Romagna hanno non solo contribuito ad aumentare il numero dei praticanti o simpatizzanti, ma anche arricchito lo spirito del fare attività. Numerose sono le iniziative “spontanee” che nascono in tutte le parti della regione. Cineforum, conferenze (tra cui quella sul dialogo interreligioso “Cittadini del mondo” del ’95 a Bologna) o la partecipazione ai Centri per la Pace di Forlì e Cesena, dove Ivana Lega e Manuela Bianchi lavorano alla diffusione della filosofia di Nichiren e della cultura della pace trasmessa dal presidente Ikeda.
Alcuni dei primi praticanti della regione hanno oggi preso altre strade, ma è anche grazie al loro impegno in quegli anni se oggi possiamo raccontare questa storia.
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La gioia di parlare con i giovani
Il cambiamento nel figlio convince Adriana ad abbracciare il Buddismo. Dopo tanti anni, il suo legame con i giovani è sempre forte, e la stimola ancora oggi a convidere quest’insegnamento con i giovani che incontra
di Adriana Cavalieri Rivola
È stato mio figlio che ha cominciato a parlarmi del Buddismo di Nichiren. Cercava di coinvolgermi dicendomi: «Mamma, sai che ci sono dieci mondi?». «Dieci? – gli ribattevo – per me anche uno è troppo, figuriamoci dieci». Non volevo capire, non avevo fiducia in lui. Eppure cominciai a rendermi conto del suo cambiamento e fu questo che mi spinse a cominciare. Era il 1983. Erano quasi tutti giovani allora. Gli adulti si contavano sulle dita di una mano. Si può dire che sono nata, nella fede, con i giovani. E se proprio devo essere sincera, mi trovo meglio con loro che con i miei coetanei. In quest’ultimo periodo ho sentito un desiderio “prepotente” di fare shakubuku. Non che prima non lo avessi, ma non sempre è facile e col tempo le occasioni con parenti e amici diminuiscono. Credo che non sia un caso se le persone con cui mi trovo a parlare di Buddismo siano perlopiù giovani.
Mesi fa, per esempio, ho avuto problemi agli occhi e sono dovuta ricorrere a una visita urgente. Contro ogni probabilità sono riuscita a prenotarne una entro tre giorni. Persino il giovane farmacista di turno si è meravigliato della mia “buona fortuna” e mi ha chiesto: «Ma che ha fatto una preghiera speciale?». «Certo che l’ho fatta. Sono buddista». «E com’è questo Buddismo?». «Si è felici». «È quello che mi manca». «Se permetti ti porto del materiale da leggere». Gli ho regalato Felicità in questo mondo e un mare di fotocopie, soprattutto sul karma. E poi, in occasione della visita di Herbie Hancock a Bologna, il libro Il Budda nello specchio che contiene proprio la sua prefazione.
Di occasioni ne capitano, quando lo desideriamo. Un giorno, ritirando le scarpe, il giovane calzolaio mi ha detto: «Signora, lei deve essere un tipo determinato. Lo vedo da come consuma le suole». Gli ho chiesto: «Sei anche psicologo?». Lui si è fatto una risata e mi ha detto che da come si cammina si capiscono tante cose. Anche a lui ho parlato di Buddismo e gli ho portato Felicità in questo mondo.
Alla vigilia del 16 marzo, giorno di kosen-rufu, ho recitato Gongyo con la determinazione che tutte le attività del giorno dopo fossero protette, poi ho pensato che non era abbastanza e che desideravo fare qualcosa di più. Allora mi è venuto in mente di mandare, d’accordo con le mie corresponsabili, un messaggio di auguri da parte della Divisione donne. È stato meraviglioso, i ragazzi mi hanno invitato a una loro riunione al Centro culturale dove avevano organizzato anche un rinfresco. Mi sono presentata con un piattone di insalata di riso e in tasca il mio messaggio scritto per loro. Mi piace parlare ai giovani, sono come pagine bianche. Vado avanti con l’esempio del maestro nel cuore. A vent’anni ero sicuramente meglio di adesso, ma dentro sono molto più bella di allora. Lo sguardo umano si ferma all’esterno, non penetra nel profondo, e così chi mi guarda oggi vede solo un’acciaccaticcia e anziana signora, ma felice di vivere, felice di esistere.
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Quel giorno con Ikeda al Centro culturale di Bologna
Quella giornata me la ricordo come fosse ieri. La visita del presidente Ikeda al Centro di Bologna. Che emozione! Era il 31 maggio del 1994.
Io, allora, facevo parte dello staff autisti. Per circa due anni, dalla visita del ’92 in Italia, quando sensei si era recato a Firenze e a Milano, avevamo cominciato a recitare Daimoku con l’obiettivo di vedere Ikeda nel “nostro” Centro. Nel ’92 alcuni di noi si erano recati alla stazione di Bologna per salutarlo. Certo era stato un momento entusiasmante per molti, ma noi desideravamo proprio parlargli, averlo un po’ tra noi. La prima tappa del viaggio del ’94 fu Firenze ed è proprio lì che cominciò a girare la notizia. Lo staff del presidente Ikeda stava infatti riflettendo sulla possibilità di inserire nelle tappe degli spostamenti anche il Centro di Bologna. Sensei era atteso il primo giugno all’Università per la consegna dell’anello dottorale – in quell’occasione tenne la lectio magistralis su Leonardo da Vinci. All’improvviso ci informano: si parte per Bologna, direzione Centro culturale. Io guidavo l’auto di scorta che precedeva quella dove viaggiava il presidente Ikeda. Che sudata! E non solo per il gran caldo. Tra gli altri c’era Giorgio Marescalchi, anche lui nello staff autisti, mentre a guidare l’auto di sensei era Osvaldo, un italo-francese che lo ha accompagnato in varie occasioni. Impossibile descrivere la gioia e l’emozione delle persone che ci stavano aspettando a Bologna. Le corallo, i soka-han, le byakuren, c’era anche un membro dello staff medici. Avevano fatto ore di Daimoku e avevano pulito il Centro da cima a fondo. Due volte. Sì perché la sera prima c’era stato un violento temporale che aveva portato dentro fogliame e altro. Così il 31 mattina hanno ricominciato daccapo. Ma quel giorno c’era il sole e il presidente Ikeda ne ha approfittato per passeggiare con la moglie Kaneko e scattare delle foto. Scherzando come sua abitudine. Impossibile dimenticare la forza del Daimoku e Gongyo che abbiamo recitato insieme. Ricordo che ci disse che Gongyo va fatto in modo sostenuto e armonioso con il ritmo di un cavallo bianco che torna verso il suo castello. Poi, ispirato dai pioppi presenti in gran numero nella zona circostante il nostro Centro culturale, ci parlò a lungo.
Il 31 maggio di quest’anno abbiamo organizzato un incontro al Centro per ricordare quel giorno di quindici anni fa. Abbiamo anche allestito una mostra di pannelli fotografici. Un’occasione per ritrovarci, per ringraziare ancora tutti coloro che allora hanno contribuito all’evento, in prima linea o dietro le quinte, ma anche per rideterminare il futuro di kosen-rufu in questa regione.
Fabio Franceschini
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Cineforum a Monghidoro
Nel paese al confine con la Toscana che molti anni fa ospitò il primo corso primaverile dell’Emilia-Romagna, la proiezione del film Anna dei miracoli è stata l’occasione per affrontare la relazione tra maestro e discepolo da una prospettiva differente
La relazione tra maestro e discepolo è stato il tema centrale di un cineforum organizzato da alcuni membri del settore Futa, hombu est di Bologna. L’evento è stato ospitato il 31 maggio scorso a Monghidoro, sull’Appennino. Un’iniziativa rivolta soprattutto a inaugurare una stagione di scambi e di dialoghi uscendo dalle abitazioni per aprirsi alla società. Il film proposto è stato Anna dei miracoli di Arthur Penn. La pellicola, del 1962 premiata con due oscar, racconta la storia di Helen Keller, attivista americana per i diritti civili, avvocato, giornalista, scrittrice. Sorda e cieca a pochi mesi dalla nascita a causa di una grave malattia, la Keller trasformò completamente il suo destino. Un personaggio citato tantissime volte dal presidente Ikeda come esempio di forza, coraggio e determinazione. Al suo fianco, nella scoperta del mondo e nel superamento dell’handicap la Keller ebbe la sua amata maestra con cui costruì una profonda relazione di affetto e di sostegno. La visione del film è stata seguita da un dibattito con esperienze e riflessioni sulla relazione tra maestro e discepolo. Tra gli intervenuti non solo membri della Soka Gakkai, ma anche amici e conoscenti – alcuni praticanti di altre fedi – che hanno contribuito alla discussione attraverso l’intreccio di storie personali. Erano presenti anche alcuni membri dell’hombu Mugello. (a.s.)