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Con occhi diversi - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

11 dicembre 2025 Ore 02:41

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Con occhi diversi

Ilaria Carli, Ferrara

Un giorno, guardando attentamente mio padre, provai una compassione immensa: vidi un uomo infelice che per tutta la vita aveva cercato invano la felicità nella ricchezza facile, commettendo errori di cui si pentiva, ma nello stesso istante vidi anche i suoi innumerevoli pregi. Non era cambiato lui, erano cambiati i miei occhi e il mio cuore. Divenne la persona che più stimavo e smisi di vergognarmi di lui

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Un giorno, guardando attentamente mio padre, provai una compassione immensa: vidi un uomo infelice che per tutta la vita aveva cercato invano la felicità nella ricchezza facile, commettendo errori di cui si pentiva, ma nello stesso istante vidi anche i suoi innumerevoli pregi. Non era cambiato lui, erano cambiati i miei occhi e il mio cuore. Divenne la persona che più stimavo e smisi di vergognarmi di lui

Ho incontrato il Buddismo nel 2003. Per tutta la mia giovane vita avevo sofferto a causa di mio padre, un giocatore d’azzardo. Spesso rimaneva ai tavoli da gioco per giorni interi combinando solo guai e trascinando la nostra famiglia in gravi condizioni economiche. La bramosia del gioco lo portava a essere un marito e un padre assolutamente inaffidabile, tanto che una volta rubò l’intero stipendio a mia sorella. La mamma lottò sempre per non farci mancare nulla, nascondendo i soldi nei posti più strani. Naturalmente ci allontanammo da lui e mia sorella a diciotto anni smise completamente di parlargli. Benché io fossi la più piccola, continuavo a rincorrerlo per i bar, pregandolo di ritornare a casa. Piangevo sempre e per me l’unica soluzione per porre fine a questa sofferenza era pregare affinché morisse.
La persona che mi parlò di Buddismo mi confidò di avere avuto lo stesso problema con il marito e di essere riuscita, grazie a questa pratica, a essere nuovamente felice. Così provai a recitare Daimoku con il solo desiderio che papà smettesse di giocare. Iniziai a fare attività nella Divisione giovani senza risparmiarmi, recitavo quotidianamente e studiavo il Buddismo; cominciai così a costruire una forte identità e a sentire che le mie radici erano proprio là, nella mia famiglia. Compresi che la mia futura felicità sarebbe dipesa dalla trasformazione di questa sofferenza e che, nascosto dietro a questa disperazione, doveva esserci un grande tesoro.
Il presidente Ikeda scrive: «Quel che conta è che essi sono i vostri genitori. Se voi non li aveste non sareste qui ora. Vi prego di comprendere il significato profondo di questo punto. Siete nati in una particolare famiglia […]. Non siete nati altrove e questo racchiude il significato di tutto» (In cammino con i giovani, Esperia, 5). Apparentemente la situazione non accennava a migliorare, ma qualcosa in me era cambiato: sorridevo. Un giorno, guardando attentamente mio padre, provai una compassione immensa: vidi un uomo infelice che per tutta la vita aveva cercato invano la felicità nella ricchezza facile, commettendo errori di cui si pentiva, ma nello stesso istante vidi anche i suoi innumerevoli pregi. Non era cambiato lui, erano cambiati i miei occhi e il mio cuore. Divenne la persona che più stimavo e smisi di vergognarmi di lui. Il gioco non lo lasciò mai ma le cose migliorarono molto. Da lì cominciò il mio vero cambiamento: da ragazzina fragile e impaurita, a forte giovane donna che lottava per la felicità della propria famiglia. Ero diventata l’orgoglio di mio padre. Il mio cambiamento nei suoi confronti rivoluzionò l’atteggiamento di tutti, che lentamente cominciarono almeno a cercare di dimenticare il passato; lui ora si sentiva accettato e la depressione che lo aveva colpito lo abbandonò. Nel 2004 andai a vivere con il mio fidanzato e lasciai la casa dei miei genitori senza paura di abbandonare la mamma; pochi mesi dopo ricevetti il Gohonzon. Una sera papà venne a chiedermi il solito “prestito”, allora io gli feci shakubuku: gli detti cento euro e gli chiesi di provare a recitare. Non lo fece mai, almeno non seriamente, ma quelli furono gli ultimi soldi che mi chiese. Lo amavo così com’era e questo fu senza dubbio il più grande beneficio della pratica buddista.
Passai dal desiderio della sua morte, alla paura immensa che ciò potesse veramente accadere.
Con la scomparsa di mia nonna, nel maggio 2011, decisi di approfondire la fede da questo punto di vista. Rimasi colpita quando lessi una frase che diceva che gli orientali considerano la vita come la pagina di un libro, mentre gli occidentali come l’intero libro. Studiai il principio buddista secondo il quale “la legge di causa ed effetto permea le tre esistenze di passato, presente e futuro”: mi illuminai al fatto che la morte è un periodo di latenza della vita stessa e quindi essa stessa è vita!
Poco dopo a mio padre fu diagnosticato un cancro e in brevissimo tempo la situazione peggiorò: fu invaso da metastasi e il tempo che gli rimaneva era veramente poco. Rimasi pietrificata, ma dopo i primi momenti di sgomento e disperazione, raccolsi tutto il potere della fede e determinai davanti al Gohonzon di essere un faro per la mia famiglia.
Durante la sua agonia, ciò che mi uccideva era il suo tormento: la vita non gli concedeva più tempo per rimediare al passato. Un giorno chiese di poter stare con mia sorella; ci raggelammo e lei, imbarazzatissima, si avvicinò a lui che la strinse al petto piangendo, dopo venti anni di silenzio. Da quel giorno lei ogni notte rimase al suo fianco. Ero stremata da quella sofferenza senza via d’uscita: tutto ciò si sarebbe concluso con la sua morte e tuttavia sembrava proprio quello il momento che tutti aspettavamo. Mentre mi chiedevo il perché di tanta sofferenza e che senso avesse la sua esistenza in quelle condizioni, percepii profondamente che la missione di un individuo non si esaurisce con le parole o con le azioni, ma che le relazioni sono la cosa più profonda in assoluto. Mio padre aveva una missione che non si sarebbe conclusa fino all’ultimo respiro, e per portarla a termine era sufficiente il battito del cuore e questo era vero perché, in effetti, stavano accadendo cose grandi attorno a quel letto: aveva riconquistato la sua famiglia e trasformato il suo karma. Così decisi di andare in ospedale non per aspettare la morte, ma per vivere la vita, in ogni sua sfaccettatura, perché anche quella era vita!
Lo ringraziai perché con la sua esistenza un po’ disgraziata mi aveva permesso di crescere in fretta e di incontrare il Buddismo. Gli dissi che gli volevo bene e che non avrei voluto un altro papà, ma lui e solo lui e che lo stimavo per la grande persona che era. Affrontavo quindi il mio grande cruccio: in che modo il Buddismo risolve la sofferenza della morte? Alla fine, ma proprio alla fine, feci luce su questa oscurità. Il 19 gennaio 2012 papà se ne andò dormendo serenamente, circondato dalla sua famiglia. Gli tenevo la mano mentre i suoi respiri si facevano sempre più lenti. Lo salutai tranquillizzandolo: «Ciao papà, ci rivedremo presto. Andrà tutto bene» e sentii che mio padre andava verso quell’universo dal quale era venuto e dal quale ritornerà. Proprio alla fine, all’ultimo respiro, fui pervasa da una sensazione di serenità infinita e gratitudine per quel momento così ricco e non vidi la morte, ma vidi la vita in un ciclo infinito di nascita e morte. Sentire quanto era profondo e inesauribile il nostro legame è stato il momento più bello della mia vita. Il presidente Ikeda scrive che il legame esistente tra un genitore e un figlio uniti dalla Legge mistica, trascende i limiti della vita e della morte.
Papà ci manca molto, ma quando penso a lui, sorrido e sono felice e grata alla vita perché tale è la forza della fede! Il potere di questo Buddismo è tale da disperdere le nubi della sofferenza più buia e creare il massimo valore proprio dai dolori più grandi.
Il presidente Toda una volta disse che non c’è vita più profonda, nobile e forte di quella di chi ha superato gli abissi del dolore per la morte di una persona cara e si è dedicato risolutamente a realizzare i desideri del defunto. Ringrazio il mio grande papà per avere avuto l’onore di essere sua figlia.

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