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Come una tazzina rotta - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 09:30

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Come una tazzina rotta

Manuela Biondi, Firenze

“Da quando la mia malattia ha un nome posso vederla e sentirla dentro di me; è un po’ come il mio “personal trainer”. Grazie a lei ho scoperto una Manuela che mi piace molto di più di quella di prima e alla quale non voglio rinunciare”

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“Da quando la mia malattia ha un nome posso vederla e sentirla dentro di me; è un po’ come il mio “personal trainer”. Grazie a lei ho scoperto una Manuela che mi piace molto di più di quella di prima e alla quale non voglio rinunciare”

Ho conosciuto il Buddismo nel dicembre 1996. Quando mio fratello me ne ha parlato vivevo una vita molto piatta a livello interiore. Avevo avuto un figlio all’età di diciotto anni e ne ero ancora sconvolta, tanto che non mi rendevo conto veramente di essere madre. Mi ero rinchiusa in un guscio di paure da cui non riuscivo ad uscire.
Iniziai a praticare e feci subito dei passi avanti incredibili. Cominciavo a prendere decisioni per la mia vita in modo più consapevole, senza dover sempre rimpiangere le azioni fatte come mi succedeva in passato. Misi fine in modo definitivo ad una relazione che mi causava solo sofferenza. Spontaneamente nasceva un vero rapporto con mio figlio Xavier che aveva profondamente bisogno di me e abbiamo iniziato a crescere e vivere insieme non più da fratello e sorella come invece era avvenuto fino ad allora.
Attraverso il Gohonzon e la recitazione, iniziai a prendere coscienza di quelli che erano i limiti e le barriere che ogni giorno mi ero faticosamente costruita “impegnandomi” a fare sempre la vittima della situazione. Portavo ancora molto rancore nei confronti del padre di Xavier ma il Buddismo mi stava aiutando ad affrontare anche questo problema. Riuscivo a mantenere un rapporto adulto con questa persona senza lasciarmi influenzare dalle mie sofferenze.
Nel maggio del 1998 decisi di prendere il Gohonzon: volevo profondamente iniziare a ricostruire la mia vita mettendo alla base la saggezza. Grazie all’aiuto dei miei genitori avevo avuto la possibilità di andare a vivere da sola e stavo mettendo a posto la mia casa ma, a un mese dalla data della cerimonia per la consegna dei Gohonzon, accusai dei disturbi fisici che mi spaventarono parecchio. Feci una risonanza magnetica che evidenziò molteplici formazioni nodulari di piccole e medie dimensioni in diverse parti del cervello.
Nella mia mente echeggiava solo la parola noduli. Dai vari controlli mi venne semplicemente diagnosticata una forma di cefalea, per cui mi rassicurai: non avevo un cancro al cervello come avevo creduto. Tutto ciò mi fece pensare però per la prima volta al fatto che avrei potuto lasciare da solo mio figlio in una situazione che non gli trasmetteva sicurezza. Decisi di cambiare veramente la situazione con suo padre e riuscii a parlargli semplicemente aprendogli il mio cuore.
Durante l’estate continuavo ad avere formicolii che mi paralizzavano per pochi minuti gli arti e che mi lasciavano molti dubbi. Io però mi fidavo ciecamente dei medici, nonostante a volte dubitassi di poter avere qualcosa di strano e magari anche di contagioso, e mi dedicavo alla mia casa.
In settembre, proprio quando pensavo di potermi rilassare per riprendermi da una vita che mi aveva travolto, crollarono tutte le mie certezze. Ero al Centro culturale di Firenze con Xavier quando cominciai a sentirmi strana, in preda a un’angoscia che non sapevo spiegarmi, mi sembrava di non essere io.
Venni ricoverata d’urgenza dopo due notti insonni in preda a spasmi dolorosi. Non potevo camminare, il braccio era completamente morto, la faccia presentava una emiparesi che mi dava grossi problemi nel parlare, non potevo mangiare, non riuscivo a vedere bene e rischiavo quasi l’arresto respiratorio. Per circa dieci giorni sono stata alimentata solo con flebo perché anche i muscoli collegati alla deglutizione erano paralizzati. Vista la situazione critica mi avevano allestito una camera da sola (cosa non facile visto l’estremo affollamento dell’ospedale) che mi ha permesso di avere sempre qualcuno con me. Questo fu il primo di una lunga serie di benefici incredibili.
Recitare Gongyo e Daimoku era per me un notevole sforzo; credo che in una settimana i miei familiari mi abbiano letto il Gosho Risposta a Kyo’o un centinaio di volte. La mia arma segreta era parlare di Buddismo ai miei familiari, ai medici e agli altri ammalati. Una notte addirittura mia madre, che non pratica, si mise a recitare per me. In tutto il mio hombu vennero organizzate recitazioni di Daimoku. Sento veramente una grande gratitudine nei confronti di tutti i membri che mi hanno sostenuto a distanza quando non mi era possibile fare abbastanza da sola. Quando ho ricominciato a fare Gongyo i membri del settore facevano i turni per farlo con me mattina e sera. Tutti i medici erano a conoscenza dell’attività buddista all’interno della mia stanza e capivano quanto questo mi aiutasse.
Mentre trascorrevo le giornate da sola nella mia stanzina, avevo un sogno: volevo tornare a casa dal mio piccolo per stringerlo forte fra le braccia e volevo per noi una nuova famiglia. Volevo l’amore che non avevo mai avuto, mi sentivo già innamorata del Gohonzon ma volevo un amore in carne e ossa e mi sarebbe piaciuto sposarmi al Centro culturale. Non ero riuscita da persona sana a crearmi una famiglia mia, figuriamoci cosa potevo sperare adesso. Stavo migliorando, ero sicuramente molto più sollevata però c’era ancora qualche cosa che non andava e nonostante le cure fossero molto invasive io non accennavo alcun tipo di miglioramento.
Ancora non sapevo cosa mi era successo, mi avevano parlato di un processo infiammatorio in corso al sistema nervoso centrale, grandi paroloni che per me non avevano significato. Per un mese e mezzo hanno cercato di non farmi capire la diagnosi esatta, forse intimoriti dalla mia età e dal mio aspetto di pulcino bagnato.
Alla fine ho scoperto grazie a un’amica che sono affetta da sclerosi multipla, una malattia degenerativa che porta nella maggior parte dei casi all’invalidità permanente. La prima reazione fu di sfogarmi con i medici, accusandoli di peccare di incompetenza. Oggi mi rendo conto che con il loro atteggiamento di “sufficienza” mi hanno aiutato a tirare fuori tutta la mia testardaggine per combattere la malattia.
Il rancore che nutrivo soprattutto nei confronti di un medico è diventato un amore profondo, perché il suo modo di non capirmi mi ha fatto reagire e pensare che “gli avrei fatto vedere io cosa poteva fare la paralitica”. È così che lui mi aveva chiamata davanti a tutti. Sono certa che un giorno riuscirò a trasmettergli questo mio sentimento di affetto e avrò la possibilità di costruire un rapporto sincero con lui. Nel momento in cui è venuta fuori la parola sclerosi multipla è cambiato profondamente il mio Daimoku. Se non sai contro cosa combattere miri a vuoto, senza avere grossi risultati. Ho iniziato invece a indirizzare ogni singolo Daimoku che usciva dalle mie labbra e la risposta è stata immediata.
Secondo i medici del reparto neurologia il mio caso era disperato e senza speranza, le loro prospettive per me erano di almeno un anno di chemioterapia per poter sperare in un minimo recupero delle gambe, per quanto riguardava le braccia dovevo metterci una pietra sopra: non avrei mai più potuto prendere in braccio il mio bambino. Avevano anche fatto preparare per me una carrozzina molto particolare.
Nonostante ciò, dopo cinquantatré giorni di degenza, sono uscita dall’ospedale sulle mie gambe, anche se avevo bisogno di un sostegno e avevo poca autonomia, e con tanta voglia di vivere, anche più di prima. Ho continuato con la fisioterapia, trovando sempre sul mio cammino persone eccezionali che mi hanno seguito e con cui ho fatto esperienze di amicizia bellissime. Ho fatto circa un anno di fisioterapia massacrante durante il quale i fisioterapisti, per non farmi illudere, continuavano a paragonarmi a una tazzina rotta che non tornerà mai più la stessa. Loro non credevano al mio recupero e io di rimando gli rispondevo che poteva anche essere meglio di prima. Non ho mai fatto la chemioterapia ma altre cure molto meno invasive, eppure penso di averla ugualmente rincollata bene la mia tazzina! È stato molto difficile capire come affrontare la malattia, ma adesso la sento come una parte di me stessa. Addirittura mio figlio la chiama la mia “amica rompipalle” che ho nel cervello.
Da quando la mia malattia ha un nome posso vederla e sentirla dentro di me e si può dire che facciamo a braccio di ferro tutte le mattine; è un po’ come il mio “personal trainer”. Grazie a lei ho scoperto una Manuela che mi piace molto di più di quella di prima e alla quale non voglio rinunciare. E questa nuova forza mi è servita, perché il lavoro che mi aspettava dopo l’ospedale è stato forse più duro. Ho dovuto iniziare di nuovo a tirare fuori le unghie e i risultati non hanno tardato. Proprio grazie alla malattia infatti pochi mesi dopo ho conosciuto una persona eccezionale, uno degli amici del mio fisioterapista, che mi ha aiutato ad affrontare tante difficoltà e con la quale sono riuscita a realizzare il “sogno impossibile”. Lo scorso novembre ci siamo sposati al Centro culturale e oggi affrontiamo insieme qualunque problema.
Adesso ho un lavoro meraviglioso: sono impiegata in aeroporto come addetta di scalo, ho una famiglia e la casa che ho sempre sognato. Il Buddismo mi ha insegnato che, per poter sempre progredire, una volta che si è realizzato uno scopo è bene non fermarsi. Per questo oggi il mio scopo è incoraggiare il maggior numero di persone che si trovano alle prese con problemi di malattia come quelli che ho affrontato io, per riuscire a trasmettere loro che il veleno si può davvero trasformare in medicina.

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