Dopo tanto girovagare per l’Europa, l’incontro col Buddismo del Daishonin. In questa intervista Raffaele racconta il suo percorso individuale di costruzione della relazione fra maestro e discepolo. Un legame che non può mai essere basato su un modello standardizzato e uguale per tutti
Redazione: Com’era la tua vita quando hai incontrato il Buddismo?
RAFFAELE CAPONE: In quel periodo girovagavo per l’Europa, come tanti altri giovani, lavorando dove capitava giusto per avere qualche soldo in tasca. Vivevo un disagio interiore e grandi difficoltà nelle relazioni con gli altri. Non avevo progetti. Questo malessere era collegato alla mia infanzia: mio padre era morto qualche mese prima che nascessi e questo ha condizionato tutta la mia vita. Mi mandarono in un istituto dell’aeronautica militare per orfani di padre, dove sono rimasto per dodici anni. Quando tornavo a casa, il che accadeva molto raramente, vedevo gli altri ragazzi che vivevano in famiglia muoversi liberamente e questo mi faceva stare ancora peggio. Così dopo tante sofferenze decisi di lasciare l’istituto. Dopo poco completai gli studi, ma iniziai anche a fare uso di droghe e l’effetto fu devastante. Emersero la mia negatività e le mie paranoie. Arrivai al punto di odiare la mia famiglia: incolpavo mia madre perché non aveva avuto la forza di crescermi e mio padre perché era morto, inoltre, mio fratello e mia sorella per me erano inesistenti. Per tutti questi motivi me ne ero andato e mi trovavo in Germania quando, nell’ottobre del 1978, una cara amica tedesca mi parlò del Buddismo di Nichiren Daishonin.
Redazione: Cosa hai provato a recitare Gongyo e Daimoku?
RAFFAELE: Avvertii subito una grande fiducia nel Buddismo, è stato come riconoscere qualcosa che avevo già provato. Nell’istante in cui ho iniziato a praticare, mi sono sentito subito bene e ho capito che non avrei più smesso. Durante la giornata, vista la mia fragilità, spesso stavo male, allora recitavo Daimoku e mi sentivo immediatamente meglio. La mia difficoltà invece, visto il passato, era entrare a far parte di un’organizzazione, di una struttura.
Redazione: Allora si seguiva una disciplina rigida nella pratica?
RAFFAELE: No, assolutamente. Anzi sentivo un grande rispetto, c’era un’aria che non avevo vissuto da nessun’altra parte. A Bonn, dov’ero, si era formato un gruppo internazionale in cui io, per quanto malconcio, “rappresentavo” l’Italia. I membri di questo gruppo desideravano fortemente che iniziassi a praticare e questo desiderio si manifestava anche nel fatto che mi accettavano così com’ero, eppure… non avevo certo un bell’aspetto! Sento tanta gratitudine per la persona che mi ha fatto shakubuku e per i miei responsabili di gruppo che hanno avuto una grande pazienza nel sostenermi ogni giorno.
Redazione: Non doveva essere facile reperire il materiale per approfondire lo studio del Buddismo…
RAFFAELE: Dopo un po’ di tempo riuscii ad avere dall’Italia un pacco di fotocopie di testi. Gli scritti del Daishonin che leggevo per me erano splendidi, erano come l’acqua quando si ha sete. Ho ritrovato nel Buddismo quello che avevo sempre cercato. Mi colpì, in particolare, una spiegazione del presidente Ikeda del Gosho L’eredità della Legge fondamentale della vita in cui parla della diversità di ogni persona, della sua singolare missione e dell’unità nella diversità: tutti concetti che si concretizzavano nelle riunioni di discussione.
Redazione: Si può quindi affermare che il gruppo ti ha accolto non giudicandoti: tu hai fatto la stessa cosa con gli altri?
RAFFAELE: Sì, ho cercato e tuttora cerco di fare questa cosa. Non voglio giudicare nessuno, ognuno è fatto così com’è e può decidere di cambiare quando vuole. Non possiamo pretendere il cambiamento di nessuno. Praticando il Buddismo sorge spontaneo il desiderio di cambiare. Poi ognuno deve decidere da solo. Ad esempio, scegliere come maestro il presidente Ikeda è qualcosa che ho deciso io, non me l’ha imposto nessuno. L’ho capito quando ho sentito il suo calore e ho letto i suoi scritti. Ikeda per me è come un genitore, oltre che un maestro.
Redazione: Quando è nata la decisione di ritornare in Italia?
RAFFAELE: Nel 1981, mentre continuavo a vagare tra Italia, Francia e Germania, il presidente Ikeda venne a Francoforte e, subito dopo averlo incontrato, emerse in me il desiderio di ritornare definitivamente a casa. In realtà nel 1980 ero già tornato a Salerno e avevo iniziato a fare shakubuku, riuscendo anche a organizzare la prima riunione buddista. Era il 23 novembre, giorno storico, anche perché proprio quella sera ci fu il terribile terremoto che scosse la Campania e tutto il Sud Italia.
Redazione: Nel 1981 sei tornato definitivamente a Salerno. Quali sono state le tue nuove sfide?
RAFFAELE: Sono tornato a casa contento di tornare a vivere con mia madre ma la cosa più difficile, per me, che ero un “irregolare”, è stato costruire una normale esistenza: cioè lavorare stabilmente e avere una famiglia. Questa difficoltà mi ha accompagnato per parecchio tempo, non è che iniziando a praticare ci sia stato il miracolo. Nel frattempo insieme ai praticanti abbiamo creato un gruppo. La svolta è avvenuta nel 1984 perché volevo partecipare al primo corso della Divisione giovani in Giappone nel 1985. Mi servivano i soldi per pagarmi il viaggio. Mi sono detto: «Adesso mi metto a lavorare e qualunque cosa accada, il Gohonzon mi proteggerà!». Ho trovato lavoro in una conceria: mi sembrava di entrare all’Inferno tutte le mattine. Ogni giorno mi svegliavo presto, alle cinque, per fare almeno un’ora di Daimoku prima di andare al lavoro. La sera uscivo distrutto ma, avendo anche una responsabilità nell’organizzazione buddista, mi dedicavo all’attività per gli altri.
Redazione: Sei riuscito a partecipare a quel corso in Giappone?
RAFFAELE: Sì, ed è stata un’esperienza eccezionale: due giorni insieme al presidente Ikeda. Sensei ci ha incoraggiato tantissimo. In un’occasione ci disse: «La medaglia della gioventù verrà data a chi non smetterà mai di praticare qualunque cosa accada». Un’altra volta ci disse: «In Italia hanno cominciato ad accendersi le torce della Legge mistica, finché queste torce continueranno a splendere un numero sempre crescente di persone si raccoglierà intorno a esse».
Redazione: Quali sono stati gli echi del viaggio in Giappone nella tua vita?
RAFFAELE: Sono tornato in Italia con la grande decisione di andare fino in fondo, di non arrendermi rispetto al lavoro e di continuare a lavorare in conceria. Non ho più avuto paura di sposarmi, di creare una famiglia (ho quattro figli). Alla fine ho anche cambiato lavoro e da parecchi anni lavoro in un’azienda di ceramica. La situazione è migliorata, mi sembra di essere in Purgatorio, ma non è escluso che verrà il Paradiso… Riuscire ad avere un lavoro costante e una famiglia è stata un’esperienza enorme, perché grazie al Gohonzon sono diventato forte, ho affrontato difficoltà che mi sembravano impossibili da superare. Grazie all’attività buddista sto davvero cambiando la mia vita.
Redazione: Come vivevate l’attività per gli altri?
RAFFAELE: C’era un grande entusiasmo, anche se tutti avevamo grandi difficoltà, siamo stati sostenuti anche dai responsabili romani. Ogni giorno ci incontravamo per parlare di Buddismo, per fare shakubuku, cenavamo spesso insieme e quasi sempre nella stessa casa… Il presidente Ikeda era sempre al centro dei nostri incontri. Forse non brillavamo per lavoro o per studio, però al centro c’era sensei.
Redazione: Ci racconti meglio il tuo legame con il presidente Ikeda?
RAFFAELE: Ho avuto più occasioni di incontrarlo, ma non mi sono mai sentito un buon discepolo. Per me è stato sempre un punto di riferimento. È comunque difficile mettere in pratica i consigli di Ikeda. Le svolte importanti della mia vita sono avvenute grazie a lui. Per esempio nel 1990 ho affrontato una grande difficoltà: provavo una sensazione di paura enorme, stavo malissimo, mi sembrava di impazzire. Avevo paura anche di recitare Daimoku. La sera desideravo andare alle riunioni, ma mi sentivo davvero male. Sono stato fortunato perché mia moglie mi ha aiutato moltissimo, così trovavo la forza per andare alle riunioni e lì mi riprendevo. Ma il malessere ritornava con forza, era una cosa che mi paralizzava completamente. Era diventato un incubo. Io pregavo il Gohonzon come se fosse il miglior medico e la migliore medicina. Sono stato malissimo per un anno. Quando giunse la notizia che il presidente Ikeda sarebbe andato a Trets nel 1991, decisi con forza che entro quella data sarei stato bene. Così, un giorno mi sono “arrabbiato” e mi sono detto: «Non importa come starò, adesso reciterò Daimoku a oltranza e voglio vedere che cosa succede». A un certo punto ho sentito che il mio malessere pian piano si scioglieva come il ghiaccio al sole e dopo qualche ora ho sentito una gioia profonda. Da quel momento mi sono sforzato e mi sforzo di recitare un’ora di Daimoku tutte le mattine. Mi sono rimesso così bene che ho potuto incontrare il presidente Ikeda a Trets.
Redazione: Quali sono le caratteristiche di un’attività felice?
RAFFAELE: All’inizio abbiamo vissuto l’attività con grande calore, abbiamo accolto tutte le persone, cercando di dare il nostro massimo. Se avevamo dieci davamo dieci, senza remore. In questo modo siamo cresciuti tantissimo. Quando abbiamo perso di vista l’indicazione del maestro la parte oscura della nostra vita ha preso il sopravvento, creando disunità. Nella pratica buddista la relazione con il maestro è fondamentale. Se non condividiamo tutti lo scopo che ci ha trasmesso il maestro, cioè la realizzazione della propagazione qualunque cosa accada, possiamo diventare facili prede delle nostre stesse tendenze negative e non avere la forza di sconfiggere la propria oscurità fondamentale. Il nostro impegno dovrebbe essere quello di fare la rivoluzione umana e nello stesso momento riuscire a incoraggiare ogni tipo di persona a fare la stessa cosa. Abbiamo la responsabilità di trasmettere l’insegnamento buddista, non solo con Gongyo e Daimoku, ma attraverso l’azione. Il presidente Ikeda non si è limitato a studiare il Gosho standosene comodo in Giappone, ma ha viaggiato per incoraggiare tutti i membri sparsi per il mondo. Questo è il Buddismo: incoraggiare le persone. Noi ci siamo sforzati di fare così. Ci siamo recati in tutti i paesi del Sud Italia dove qualcuno iniziava a praticare, con l’unico desiderio di incoraggiare le persone a sperimentare il Buddismo. Al centro c’è stata sempre la guida del presidente Ikeda. Dall’inizio alla fine. Nel momento in cui questo aspetto si è indebolito si è insinuato il demone, la difficoltà.
Redazione: Quindi c’è stato questo momento di difficoltà necessario per crescere. Adesso le cose stanno migliorando?
RAFFAELE: Siamo in una fase di ricostruzione, prima di tutto individuale. Ognuno sta riappropriandosi del cuore della pratica. Noi possiamo creare una bella organizzazione, dove le persone possono praticare il Buddismo con gioia. Il nostro compito è trasmettere il cuore del maestro, non è dare ordini. L’importante è riuscire a creare un’armonia ancora migliore di prima, ognuno con le sue capacità, così com’è: non è che devo fare quello che fai tu, né tu quello che faccio io. Se ci accettiamo, io ti do di più di quello che ho. Così funzionano gli esseri umani. È scritto anche nel Gosho che se uno è lodato è disposto a dare la sua vita, tirando fuori da se stesso gioia e coraggio.
Per me la cosa importante è riconoscere che tutto ciò che abbiamo costruito è opera di tutti, anche di quei compagni di fede che si sono momentaneamente allontanati. E non dovremmo dimenticare di aver gratitudine nei loro confronti.
Redazione: Che obiettivi hai per il futuro?
RAFFAELE: Ho il desiderio di cambiare ancora, voglio migliorare, voglio riuscire a dare di più e meglio. Quando ho iniziato a praticare il mio desiderio più forte era di realizzare la felicità assoluta, stare bene in qualunque situazione. Adesso questa è una condizione che sta iniziando a manifestarsi, ma anche l’aspetto negativo vuole emergere, non è scomparso ed è sempre una lotta tra la felicità e l’oscurità.
Ho deciso di dedicare la mia vita agli altri così come sono. Di una cosa sono sicuro: ognuno di noi ha un potenziale così grande da riuscire a incoraggiare tutto il mondo. Ognuno possiede questa natura di Budda da fare emergere. Ognuno ha la sua missione da realizzare in questa vita e anche se siamo diversi lo scopo fondamentale, che ci unisce al di là dei diversi ruoli nella società, è quello di poter dare speranza e coraggio a tutte le persone.