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Chi è un Budda? - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:51

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Chi è un Budda?

Diventare Budda non significa trasformarsi in un essere perfetto, simile a un Dio, ma risvegliarsi pienamente all’immensa dignità e bellezza della propria esistenza individuale e di quella di tutti gli altri. Raggiungere la Buddità in questa esistenza è l’argomento sviscerato nella prima lezione

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Diventare Budda non significa trasformarsi in un essere perfetto, simile a un Dio, ma risvegliarsi pienamente all’immensa dignità e bellezza della propria esistenza individuale e di quella di tutti gli altri. Raggiungere la Buddità in questa esistenza è l’argomento sviscerato nella prima lezione

Cosa significa nel Buddismo di Nichiren Daishonin raggiungere la Buddità in questa esistenza?
È stato l’argomento della prima lezione in cui, nell’ordine, Erica Galligani, direttore del Nuovo Rinascimento, Francesco Geracitano, vice direttore generale dell’Istituto Buddista Italiano e Maria Lucia De Luca, direttore di Buddismo e Società, hanno cercato di sviscerare da varie angolazioni questo fondamentale concetto.
E, nell’intento di comprendere un po’ più profondamente insieme ai tremila membri presenti al Palaterme di Fiuggi che questo è l’obiettivo per sé e per gli altri della pratica buddista, si sono basati sulle lezioni recentemente tenute al corso europeo di studio a Trets dal responsabile del Dipartimento di studio della SGI, Katsuji Saito.
Questo concetto, che in giapponese si chiama jobutsu, cioè letteralmente “diventare Budda” è un’idea un po’ fuori dalla norma per le religioni monoteistiche più diffuse che, considerando dio un essere perfetto e assoluto, creatore dell’universo, ritengono impensabile che l’essere umano, in quanto sua creatura, possa aspirare a diventare egli stesso pari alla divinità. In effetti uno dei punti che rendono ostico il concetto che tutti possano conseguire la Buddità – ha fatto notare Erica Galligani – deriva proprio dall’idea comune di considerare il Budda come un dio.
Anche nel Buddismo alcuni Budda sono figure simili a quelle delle religioni monoteistiche, come il Budda Amida che compare nei sutra della Pura terra (scuola Nembutsu). L’insegnamento del Sutra del Loto, dichiarando che tutti – compresi i malvagi, le donne e le persone dei due veicoli (Studio e Illuminazione parziale) a cui tale possibilità era negata dagli altri sutra – possono ottenere la Buddità e che possono farlo così come sono, nella loro forma presente, offrì una prospettiva davvero rivoluzionaria.
Se non ha niente a che vedere col diventare un qualche essere superiore, separato dal mondo reale, cosa significa allora per noi diventare Budda?
Ebbene, nel Buddismo di Nichiren Daishonin – ha detto Francesco Geracitano citando le parole di Saito nella sua lezione – «diventare Budda significa risvegliarsi alla propria dignità e nobiltà di individuo e vivere con tale consapevolezza». Per far questo occorre lottare costantemente contro la propria oscurità fondamentale, che ci fa dubitare di poter manifestare la Buddità.
Questo modo di vivere è esemplificato dal Bodhisattva Mai Sprezzante (Fukyo) – di cui si parla nel ventesimo capitolo del Sutra del Loto – che, grazie alla sua pratica di rispettare e riverire ogni persona in quanto dotata della natura di Budda, rinacque come Budda Shakyamuni. La pratica di Mai Sprezzante di rispettare ogni persona è una pratica difficile, ed è l’essenza stessa del Sutra del Loto e del Buddismo. L’umile monaco Mai Sprezzante rivelando a tutti, nessuno escluso, che potevano ottenere la Buddità, a causa dell’arroganza delle persone non riceveva in cambio altro che critiche, insulti e persecuzioni. Ma egli continuava imperturbato, e come effetto ottenne la purificazione dei sei sensi, vale a dire il conseguimento della sua stessa Illuminazione, e anche coloro che lo criticavano alla fine ottennero la Buddità. Perché, ha ribadito Geracitano, quando ci inchiniamo alla Buddità degli altri la natura di Budda in loro innata, che ne siano consapevoli o meno, si inchina a noi e quest’azione a sua volta risveglia anche la nostra Buddità.
Le capacità apparentemente divine o sovrannaturali del Budda, elencate nei sutra, in realtà derivano da questo suo risveglio e dalla conseguente capacità di recare beneficio agli altri; in altre parole dal suo grande desiderio di condividere con gli altri la consapevolezza che ognuno, nelle profondità di se stesso, possiede il grande tesoro della Buddità. In definitiva, derivano dalla sua immensa compassione.
Ma chi è allora un Budda? All’epoca di Shakyamuni, ha spiegato Maria Lucia De Luca, molte persone che si risvegliavano a qualche verità parziale erano chiamate “Budda”, ma poi, a causa della sua grande capacità di insegnare agli altri e della verità suprema a cui si era illuminato, tale appellativo passò a indicare solo Shakyamuni, che si era risvegliato alla Legge eterna facendone la propria maestra. E quando una persona si basa sulla Legge eterna manifesta le qualità del Budda eterno.
Scrive Daisaku Ikeda: «Le persone che vivevano nel periodo in cui Shakyamuni era in vita poterono avvicinarsi alla Legge – maestra del Budda – percependo la presenza del Budda grazie al diretto contatto con Shakyamuni» (Saggezza, 3, 84). Shakyamuni dunque, tramite il contatto personale, ispirava le persone a percepire in loro stesse la Legge eterna. Ma come possono percepirla tutte le persone come noi che non vivono più all’epoca del Budda Shakyamuni?
Riguardo a ciò c’è una frase di Sha­kya­muni molto eloquente: «Chi vede la Legge vede me, chi vede me vede la Legge». Questa è “la Legge eterna maestra di tutti i Budda” che ci ha lasciato nel Sutra del Loto, cioè Myoho-renge-kyo, l’aspetto più profondo delle nostre stesse vite. Nell’Ultimo giorno della Legge Nichiren Daishonin ha offerto a tutta l’umanità il mezzo concreto per risvegliarsi a questa Legge, cioè alla suprema nobiltà della propria esistenza e di quella di tutti gli altri: il Gohonzon.
Nam-myoho-renge-kyo è sia la causa che l’effetto della Buddità. La causa che ci permette di manifestare la Buddità è sì il fatto che ognuno di noi possiede la natura di Budda, ma più profondamente è la fede che ci permette di lottare contro la nostra oscurità intrinseca che ci fa continuamente pensare di non averla. E De Luca ha concluso ricordando la metafora più volte ribadita da Saito nella sua lezione: la nostra Buddità è come il sole che c’è anche quando è coperto dalle nubi; quando le spazziamo via con il forte vento della nostra fede e della nostra pratica il sole della Buddità si manifesta istantaneamente.
Concetti difficili e profondi ma, come ha ricordato Francesco Geracitano, ciò che conta è aver colto e impresso nella nostra vita che Nichiren Daishonin ci ha offerto la possibilità di risvegliare un immenso potere che già esiste dentro di noi. E quando ci “apriamo” a esso – uno dei significati di jo di jobutsu è giustappunto “aprire” – noi stessi diventiamo il Budda di assoluta libertà, per il quale non esiste alcun limite invalicabile.
Ma quale pratica ci viene richiesta per manifestare e consolidare nel corso di questa esistenza l’immenso stato vitale, nobile e maestoso come la torre preziosa che appare nel Sutra del Loto e che lo simboleggia? Nella Raccolta degli insegnamenti orali si afferma: «Quando si esercitano in un singolo istante gli sforzi di cento milioni di kalpa, le tre proprietà del Budda emergono istantaneamente nella nostra vita. Nam-myoho-renge-kyo significa pratica diligente» (GZ, 790, cfr. Buddismo e società, 124, 56). In proposito Geracitano ha citato la risposta alla domanda rivolta a Saito durante il corso europeo sul significato di questa impresa apparentemente pazzesca di “esercitare in ogni istante gli sforzi di cento milioni di kalpa“. L’oscurità fondamentale consiste nel non credere al potere della vita e della Legge mistica, e la fede è il suo esatto opposto. Quando appare una forte fede, tale oscurità scompare istantaneamente. Per questo occorre una “forte fede”, così come un cerino non è in grado di dissipare completamente l’oscurità, ma la luce del sole può farlo.
E poiché l’oscurità fondamentale prende la forma di ostacoli che cercano di indurci continuamente ad abbandonare la fede, allontanandoci dalla pratica, dall’attività buddista e dal Gohonzon, lo “sforzo di cento milioni di kalpa” non è altro che il non abbandonare mai questa lotta davanti al Gohonzon e nella propria vita, al fianco della Soka Gakkai e insieme al nostro maestro, per la felicità propria e di tutti gli altri esseri umani.

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