Alice vive un disagio profondo: non accetta la propria omosessualità. Quando, grazie alla pratica buddista, ne parla in famiglia, la reazione dura arriva dalla mamma. Iniziando il suo cammino nel proprio “paese delle meraviglie”, grazie agli sforzi e al Daimoku oggi ha completamente ribaltato la situazione di partenza
Sono lesbica e l’ho sempre saputo, ma mi vergognavo di ammetterlo anche a me stessa così mi imponevo di avere delle storie coi ragazzi. A diciotto anni conobbi una ragazza, persi la testa per lei e senza esitare lasciai il mio ragazzo. Le dichiarai il mio amore, che non è mai stato corrisposto, ma fra noi nacque una splendida amicizia che dura ancora. Iniziarono così le mie storie con le donne: avventure che non mi lasciavano niente e il vuoto che sentivo dentro mi portava all’alcool e alle droghe, a vivere senza uno scopo, a buttarmi via. Non avevo nessuna autostima e pensavo fosse impossibile che una ragazza si potesse innamorare di me.
Conoscevo il Buddismo da quando avevo quindici anni, così nel 2004 mi riavvicinai. Qui nessuno ti giudica se sei omosessuale, bianco o nero, ricco o povero e anche il presidente Ikeda incoraggia a portare avanti kosen-rufu così come siamo. Iniziai ad accettarmi, a pronunciare ad alta voce quella parola che prima mi dava fastidio. In seguito incontrai una ragazza che mi voleva bene ed ebbi la mia prima relazione seria che durò quasi un anno; in questo periodo, sorretta dalla fede e dai compagni, decisi di aprirmi per la prima volta coi miei genitori. Mio padre mi rispose che l’aveva sempre saputo e che l’importante era che io fossi felice. Mia madre invece scoppiò in un pianto disperato e ne scaturirono aspri litigi. Il rapporto con lei non è stato mai facile, ma come si legge nel Gosho di Capodanno «l’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre e trascura sua madre» (RSND, 1, 1008). Quindi dovevo cambiare tutto questo.
Nel 2006 ricevetti il Gohonzon e dopo poco accettai di diventare responsabile di un gruppo. Partecipai a un corso al Centro europeo di Trets con tre obiettivi chiari: approfondire il significato della responsabilità nella SGI, avere maggiore consapevolezza nella mia vita e cambiare il rapporto con mia madre. In quei giorni iniziai a vedere mia mamma da nuovi punti di vista e smisi di giudicarla. Decisi di dedicarmi a lei e iniziai a trovare il tempo da trascorrere insieme al cinema, fra negozi, a chiacchierare. Da allora non mi vieta di portare a casa la mia ragazza.
Nel 2008 cercai nella mia città un’associazione di donne lesbiche perché desideravo affermare i diritti che ancora oggi ci sono negati. Mi sento vicina al presidente Ikeda perché scrive spesso dell’importanza di lottare contro le ingiustizie. Fortunatamente l’Arcilesbica era già nata anche nella mia città, io partecipo agli incontri e offro il mio contributo nelle serate. Oggi faccio parte del direttivo e da poco abbiamo creato il “gruppo accoglienza” per dare una mano alle ragazze nuove che si sentono spaesate arrivando in associazione; è stata una mia idea che mi è venuta osservando e facendo attività di protezione e accoglienza alle riunioni buddiste.
La mia vittoria più grande è stata una sera in cui abbiamo proiettato un film intitolato Due volte genitori e parla del rapporto delle famiglie con i figli gay; avevo recitato Daimoku perché mia madre fosse presente e con mia grande gioia era seduta vicino a me; alla fine della proiezione chi voleva poteva intervenire, e mia madre ha detto: «Volevo solo dire che sono orgogliosa di mia figlia e che le voglio bene». È stata un’emozione indescrivibile.