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Avere un maestro, occasione di crescita - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 10:35

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    Avere un maestro, occasione di crescita

    Quando si parla di maestro, Oriente e Occidente sembrano avere una visione totalmente diversa. Il Buddismo abbraccia entrambe le visioni spiegandone il senso profondo e universale, ma soprattutto il valore nella vita di ciascuno

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    Quando si parla di maestro, Oriente e Occidente sembrano avere una visione totalmente diversa. Il Buddismo abbraccia entrambe le visioni spiegandone il senso profondo e universale, ma soprattutto il valore nella vita di ciascuno

    Rita Levi Montalcini affermò: «La scelta di un giovane dipende dalla sua inclinazione ma anche dalla fortuna di aver incontrato un grande maestro» (La clessidra della vita, Baldini Castoldi Dalai, 2008).
    Ciò che sappiamo fare oggi è parte di ciò che abbiamo appreso dalla nostra famiglia e dall’intero ambiente in cui siamo cresciuti. Pertanto le circostanze storiche, gli usi e i costumi della nazione in cui siamo nati hanno determinato, per una buona parte, la nostra identità. Più conoscenze acquisiamo nel corso della crescita più abbiamo la possibilità di scegliere quali strade intraprendere. Nei primi anni di scuola entriamo in contatto con chi ha il compito di insegnarci a leggere, a scrivere, a porre quelle fondamenta indispensabili per la nostra istruzione: la figura del maestro. La vita stessa è stata una buona maestra quando da piccoli ci ha insegnato a riconoscere i gesti d’amore, la musica che ci piace, gli amici simpatici con cui giocare; è stata più severa quando abbiamo imparato che buttarsi dallo scivolo senza le dovute precauzioni può essere doloroso. La vita è la miglior maestra d’esperienza.
    Daisaku Ikeda, in un saggio, cita il poeta americano Walt Whitman che definì l’educazione in questi termini: «La vera educazione ha inizio dai primi passi e continua a guidare il bambino lungo tutto il suo percorso, passo dopo passo. Non si tratta di insegnare loro solo ciò che è scritto sui libri, ma di incoraggiarli e allenare la loro mente affinché siano in grado di pensare e agire autonomamente. Essenzialmente si tratta di risvegliare in loro l’amore per la conoscenza» (NR, 510, 8).
    Il maestro ha dunque il compito di aiutare gli alunni a formare non solo la loro educazione, ma anche la loro personalità, mettendoli così in grado di manifestare appieno il loro potenziale. L’intento principale quindi non deve essere quello di plasmarli a propria immagine e somiglianza. Ludwig Wittengstein disse: «Per essere un buon maestro non basta ottenere dei risultati buoni, o addirittura sorprendenti, durante l’insegnamento. Perché è possibile che un maestro elevi i suoi scolari a un’altezza per loro innaturale quando essi si trovano sotto il suo influsso diretto, ma non sia capace di guidare il loro sviluppo portandolo fino a quell’altezza; così che essi precipitano appena il maestro abbandona l’aula» (Pensieri diversi, Adelphi, 1988). Il vero maestro invece è colui che agisce con l’intento di essere superato dal proprio allievo; è colui che lo istruisce al massimo delle sue possibilità in modo che possa avanzare in autonomia pur tenendo sempre i suoi insegnamenti ben impressi nel cuore.
    Se tornassimo con la mente all’antica Grecia e volessimo individuare la figura del “maestro” per eccellenza, il nostro pensiero andrebbe senza dubbio a Socrate. Nacque nel 469 a.C. e dedicò tutta la sua vita alla filosofia e all’educazione. Karl Jaspers disse di lui: «Come molti ateniesi, passava la sua vita per strada, al mercato, nelle palestre, prendendo parte ai banchetti. Era una vita di dialogo con chiunque». Questo dialogo apparve come qualcosa di nuovo e del tutto insolito agli ateniesi: esso scuoteva l’animo nel loro intimo, inquietava non perché non fossero abituati al confronto ma proprio perché Socrate sollevava questioni, poneva l’uomo dinanzi ai quesiti esistenziali della vita, a volte cogliendolo di sorpresa ma sempre sollecitandolo a ragionare, a tirare fuori il meglio di sé. «Il dialogo è ora necessario alla verità stessa – continua Jaspers -, per una necessità naturale, poiché la verità si apre all’individuo insieme agli individui. Socrate aveva bisogno degli uomini per essere chiaro ed era convinto che gli uomini avevano bisogno di lui, specialmente i giovani» (Socrate, Buddha, Confucio e Gesù. Le personalità decisive, Roma, Fazi Editore, 2013, pag. 11). Nell’Apologia egli disse: «Io mi rivolgo sempre agli individui soltanto». Ciò che lo contraddistinse, oltre allo straordinario coraggio di vivere in coerenza con la sua stessa filosofia, fu il fatto di non considerarsi un “maestro”. In questo senso il suo obiettivo non era tanto quello di insegnare un sapere, ma quello di stimolare la mente delle persone attraverso il dialogo al fine di arrivare insieme a nuove consapevolezze, verso la costante ricerca della verità. Così facendo, i suoi interlocutori avrebbero manifestato naturalmente le loro peculiari capacità. Nonostante il suo rifiuto a titolo di mentore, egli comunque fu considerato tale da molti grandi filosofi, primo fra tutti il suo diretto discepolo Platone. È interessante osservare come l’umiltà e la spontaneità di un uomo possano toccare il cuore di un altro al fine di percorrere insieme un cammino di crescita. Questo fu l’intento di tanti pensatori e saggi del passato, quelli che furono chiamati “maestri” nel corso dei secoli. Nell’organizzazione scolastica del Medioevo e del Rinascimento, ad esempio, l’appellativo “maestro” veniva dato a chi aveva ottenuto il dottorato in una facoltà universitaria o ancora a quelle persone che furono maestri nelle arti rinascimentali, coloro insomma che conoscevano così ampiamente una disciplina da poterla insegnare agli altri.
    Il Petrarca fu considerato maestro di stile, e ancora potremmo citare i pittori Monet, Sisley, Renoir come “maestri” della pittura, coloro che diedero il via alla corrente impressionista. Il maestro quindi era colui che creava nuove tendenze, proponeva nuovi modelli, nuovi approcci verso il mondo, solitamente andando contro a quelli vigenti nell’epoca e determinando spesso così nuove correnti di pensiero. Ormai però l’appellativo “maestro”ai giorni nostri non ha più lo stesso valore che aveva una volta sia nel campo delle arti sia in quello della filosofia. Ben diverso è invece il riconoscimento che viene attribuito al maestro spirituale, figura quasi interamente associata all’Oriente. Qui in Occidente quindi può essere considerato del tutto normale e legittimo percepire questa figura, una volta collocata fuori dagli schemi accademici, come qualcosa non in linea con il nostro essere, seppur questa funzione del “maestro” sia sempre stata parte di noi, o tramite le esperienze fatte sulla nostra pelle o con un insegnante. Perché dunque dovremmo aver bisogno di un maestro? Il Buddismo ci mostra che significato ha questo legame spirituale, uno dei più profondi che un essere umano possa sperimentare.

    La relazione tra maestro e discepolo nel Buddismo

    «Incontrai Toda per la prima volta sessantadue anni fa, nell’agosto del 1947. Il maggiore dei miei fratelli era rimasto ucciso durante la Seconda guerra mondiale, la nostra casa di famiglia era stata distrutta in un’incursione aerea durante la guerra e io stesso ero di salute cagionevole». Così inizia il racconto di Ikeda nel ricordare il suo maestro, un incontro che cambiò per sempre la sua vita. «Toda rivolse lo sguardo su di me – un ragazzo di diciannove anni – e istantaneamente disperse le nubi dal mio cuore dicendo: “Quando penso alla nostra famiglia, al nostro paese e al nostro mondo turbolento, sento il desiderio di eliminare tutta l’infelicità e le sofferenze dalla faccia della terra. Ecco in che cosa consiste il movimento di kosen-rufu. Vuoi unirti a me?”. Le sue parole mi elettrizzarono. Era la prima volta che sentivo qualcuno parlare in modo così semplice e chiaro di un percorso corretto per la vita e per la società. Sentii istintivamente che potevo fidarmi di quell’uomo, anzi, ne fui profondamente ispirato» (Maestro e discepolo, vol. 1, esperia, 2012, pag. 95). Quel primo incontro, così semplice e al contempo pieno di calore umano, fu la prima causa per la crescita spirituale dell’attuale presidente della Soka Gakkai, Daisaku Ikeda, sotto la cui guida il Buddismo di Nichiren Daishonin si è diffuso oltre i confini del Giappone, a oggi in 192 nazioni e territori del mondo. Ciò che spinse Ikeda a seguire Toda fu il forte desiderio comune di avanzare insieme per il bene delle persone, per impedire l’insorgere di altre guerre e realizzare così un mondo di pace. Possiamo affermare quindi che Ikeda, dopo quell’incontro, si risvegliò allo stesso spirito che animò Shakyamuni e Nichiren Daishonin. Non è uno spirito riservato a poche persone elette, è uno spirito che ognuno di noi può far emergere dalla sua vita; e non è nemmeno una relazione gerarchica: mae­stro e discepolo camminano insieme, non può esistere l’uno senza l’altro. Attraverso una sincera e profonda preghiera davanti al Gohonzon che ricerca l’unità con il maestro, leggendo la sua storia e ispirandoci alle sue lotte, potremmo sperimentare nella nostra vita una forza nuova, illimitata. Nel momento in cui decidiamo di mettere in pratica le parole di sensei (sensei in giapponese significa, appunto, maestro), frutto di chi ha colto fino in fondo il funzionamento della Legge mistica, potremmo vincere su qualunque sfida, sperimentando così una gioia senza limiti e la bellezza di dedicare la nostra esistenza alla pace.

    Avanzare sulle proprie gambe

    Nel primo volume della Saggezza del Sutra del Loto Ikeda spiega: «Nel legame tra maestro e discepolo la consapevolezza dei discepoli è di primaria importanza. La risposta del maestro dipende dalla forza dello spirito di ricerca, dal senso di responsabilità e dalla determinazione del discepolo» (nuova edizione, esperia, 2013, pag. 347). Egli spiega che è il discepolo a dover compiere per primo lo sforzo di ricercare il maestro. È un venirsi incontro, un crescere insieme. Il giovane Ikeda, quando decise di seguire Toda, fece il voto di dedicare la sua esistenza alla felicità delle persone. Una promessa che continua ancora oggi ad approfondire dedicandosi sempre di più a tutti noi, i suoi discepoli, proprio come Toda fece con lui: non si risparmia mai nell’incoraggiarci, nel trasmetterci le parole giuste per infonderci nuova speranza e farci sentire la certezza, anche nei momenti più bui, che sicuramente arriveremo insieme alla vittoria assoluta. Anche noi nel momento in cui formuliamo e manifestiamo il voto di dedicarci a kosen-rufu, risvegliamo nel cuore lo stesso spirito incarnando così il principio di non dualità di maestro e discepolo.
    Ma che significato ha questo principio? Durante un incontro con la Divisione studenti, Ikeda spiegò: «La non dualità di maestro e discepolo significa avere un maestro nel proprio cuore e stare dritti sulle proprie gambe». E poi aggiunse: «Il presidente Toda è nel mio cuore. Non è qualcosa che si dichiara ad alta voce, è una cosa che riguarda il cuore, perché l’unità con il maestro esiste nella nostra interiorità» (Gli insegnamenti della speranza. Lezioni sugli scritti di Nichiren Daishonin, esperia, 2009, pag. 13). Quando nel nostro cuore emerge questa relazione, istantaneamente manifesteremo nell’ambiente, così come siamo, lo spirito del maestro. Durante il corso mondiale giovani tenutosi in Giappone lo scorso settembre, alcuni giovani incontrarono i membri del Tohoku colpiti dallo tsunami, definiti da loro “i campioni della vittoria del legame maestro-discepolo”. Una ragazza italiana che andò a incoraggiarli disse: «Quando si ha come unico obiettivo scaldare il cuore dei compagni di fede affinché vincano ancora di più, e quando si condivide con loro la propria vittoria, allora lì vibra la determinazione di sensei, lì si manifesta il beneficio di avere un maestro» (NR, 523, 19). Ispirandoci alla relazione che Ikeda sviluppò con il suo maestro Toda possiamo vivere ogni giorno in pieno accordo con l’intento del maestro. Esso risiede nel coraggio d’intraprendere dialoghi sinceri con le persone, negli sforzi e nella dedizione con cui ci impegniamo nelle attività della Soka Gakkai, nei gesti pieni di calore umano verso chi soffre, in tutto ciò che ci mette in contatto con la nostra e l’altrui Buddità, in tutto ciò che facciamo per dedicarci a kosen-rufu. È qui che emerge in tutta la sua pienezza lo spirito del maestro, uno spirito che sta a noi ricercare, riconoscere e approfondire per tutta la vita.

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