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Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 13:48

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Amici miei

Trent’anni di pratica buddista: le battaglie contro una malattia incurabile e sulle sue numerose ricadute. Due cose sono state fondamentali per arrivare alla vittoria: il Daimoku e mille amici che lo sostenevano e lo incoraggiavano

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Intervista a Riccardo Pacci, vice responsabile nazionale della Divisione uomini, ministro di culto, responsabile del Dipartimento di studio

Trent’anni di pratica buddista: le battaglie contro una malattia incurabile e sulle sue numerose ricadute. Due cose sono state fondamentali per arrivare alla vittoria: il Daimoku e mille amici che lo sostenevano e lo incoraggiavano

Redazione: Come e quando hai incontrato per la prima volta il Buddismo? Cosa ti incuriosì e cosa ti spinse a provare?

RICCARDO PACCI: Il primo incontro fu nell’estate del 1977, vedendo un mio amico che conoscevo da quando avevo otto anni, Andrea Bottai, che era estremamente cambiato perché invece di fare le monellate con me, era diventato un “bravo ragazzo”. Mi disse che recitando Nam-myoho-renge-kyo si diventava felici e “di botto” mi fece fare due ore di Daimoku. Non mi dicevano di smettere di essere come ero o di smettere di fare quello che facevo, così cominciai a recitare molto Daimoku tutti i giorni finché non arrivò il primo beneficio: un lavoro favoloso e strapagato. Questo fu l’avvio.

Redazione: Che clima culturale c’era a Firenze quando hai iniziato a praticare questo Buddismo?

RICCARDO: Molto conflittuale. Eravamo sul finire degli anni ’70, la seconda ondata di quei giovani che non avevano vissuto il ’68 e quindi c’era un clima teso in cui si sentiva la delusione di qualcosa che non era accaduto. Noi, giovani e buddisti, volevamo la pace nel mondo in un momento in cui tutti parlavano di conflitti. Era un’epoca di contrapposizioni, di blocchi a livello politico internazionale e anche a livello sociale. Per questo attiravamo molte persone; portavamo un messaggio di pace, serio e deciso, in un clima di assenza di valori.

Redazione: Com’eri a quel tempo? Quali erano le tue idee e i tuoi sogni?

RICCARDO: I desideri più immediati erano quelli di dare un indirizzo alla mia vita e praticando il Buddismo mi accorgevo che potevo “anche” sognare e non “solo” pensare. Ero passato dall’idea di fare una carriera militare a fare il volontario della Croce Rossa, poi obiettore di coscienza e nello stesso tempo non vedevo quello che sarebbe stato il mio futuro lavoro. Però avevo un sogno: volevo girare intorno al globo per affari e lavorare in tutti i paesi dove atterravo, e in pochi anni ho iniziato a lavorare nel campo commerciale facendo più volte il giro del mondo, trovandomi però nuovamente a corto di sogni con la necessità di ripensarmi e di reinventarmi. Ero nuovamente alla ricerca della mia identità che era in crisi, come quando avevo iniziato a praticare, e il Buddismo mi ha aiutato non a diventare qualcuno, ma se non altro a essere me stesso. Questa è stata la grande differenza.

Redazione: Ci sono dei sogni che ti porti ancora dietro da allora?

RICCARDO: Sogni irrisolti no, ma di nuovi sì! Mi sono sempre piaciute le lingue, e quindi qualche anno fa ho iniziato a studiare il russo e sto già pensando che la prossima che studierò sarà il mandarino. Mi piace comunicare con la gente e una cosa che mi urta moltissimo è non capire quello che le persone mi dicono e non poter comunicare quello che sento. Mi ha sempre affascinato il fatto che il Budda poteva parlare tutte le lingue, anche se mi ci è voluto un po’ prima di capire che l’importante è toccare il cuore delle persone al di là delle parole.

Redazione: Eri già sicuro che avresti praticato questo Buddismo per tutta la vita?

RICCARDO: Sì, non ho mai avuto nessun dubbio. Non mi volevano consegnare il Gohonzon subito perché praticavo da circa un mese. Ma ero talmente insistente che, pur non avendo preparato né il butsudan né niente, l’allora direttore generale Kaneda si rassegnò a consegnarmelo. Così la stessa notte nel garage con un mio amico dovetti costruirmi il butsdan, che venne un pò storto e traballante perché nella realtà “volevo, volevo” ma, come spesso mi è successo, mancavo nello sforzo concreto. Ero fermamente convinto che avrei praticato per tutta la vita e ribadii questa decisione il primo dicembre del 1977, giorno in cui ricevetti il Gohonzon. Dopo venti giorni, insieme a Marco Magrini e Andrea Bottai, ebbi l’occasione di incontrare a Parigi, al Centro europeo di allora, il dottor Yamazaki (vedi NR, 360, 16). Recitò con noi tre ore di Daimoku e poi parlò per quattro ore filate. Gli feci moltissime domande, tutte quelle che avevo in mente e lui, incoraggiandoci, rispose a tutte. Trovai una conferma nelle sue parole di quello che avevo scelto anche sull’onda dell’emozione, di ciò che sentivo dentro e non ebbi più alcun dubbio: avrei praticato per tutta la vita. Questo colloquio fu un grande punto di svolta nella mia vita, anche in concomitanza del fatto che avevo ricevuto il Gohonzon. Fu un’occasione meravigliosa, si percepiva il profumo di kosen-rufu e sentii che anche noi in Italia lo avremmo realizzato.

Redazione: In tutti questi anni ci sono stati dei momenti in cui ti sei sentito in difficoltà con l’organizzazione?

RICCARDO: Tantissimi. Ho avuto difficoltà con la struttura dell’organizzazione, perché sono un tipo anarchico ed essere infilato in una griglia dove cominciano a dire “devi far questo, devi far quest’altro” è una cosa che mi fa impazzire, per cui ho avuto regolarmente problemi; però sono sempre riuscito a risolverli grazie al legame che ho stabilito con ogni singola persona, cosa che per me prevale. Negli ultimi due-tre anni a seguito dei miei gravi problemi di salute avevo perso completamente la speranza, e nuovamente l’organizzazione, ed essenzialmente gli amici membri, sono stati quelli che mi hanno permesso di superare questo momento critico, durante il quale ho compreso che è un’illusione praticare al di fuori della Soka Gakkai. Puoi farlo finché pensi solo a te stesso e finché hai una vita relativamente facile, ma quando incontri un grosso ostacolo capisci perché il presidente Toda diceva: «L’organizzazione è più importante della mia stessa vita». Il problema, adesso, è come ripagare questi debiti di gratitudine…

Redazione: Un episodio che ricordi volentieri e che vorresti raccontarci?

RICCARDO: In questi giorni insieme a Marco, Andrea e Niccolò, amici della Divisione uomini, ci ritroviamo tutti i giovedì mattina, prima di andare ai rispettivi lavori, a recitare Gongyo e un’ora di Daimoku. Sono le stesse persone, i miei stessi amici con i quali recitavo trent’anni fa prima di andare a scuola. E oggi non mancherei a questo appuntamento per tutto l’oro del mondo.

Redazione: Una parola per chi comincia a praticare?

RICCARDO: Da una parte di avere tanti sogni e tante speranze, ma dall’altra di farsi tante domande. La prima cosa è decidere, perché non è vero che ci vuole tanto tempo. Però effettivamente si decide quando si è motivati e lo si è quando abbiamo fatto una riflessione sulla nostra vita e su quella delle altre persone. Uscire dal nostro egoismo è una grande motivazione per praticare questo Buddismo. Impegnarsi per le altre persone è un ottimo obiettivo e sono sempre stato d’accordo con sensei quando afferma che bisogna praticare questo Buddismo divertendosi. Per fare questo bisogna davvero essere motivati e chiarirsi perché si pratica: non può essere solo per “voglio questo e quest’altro”. Perché queste sono cose che, almeno nella mia vita, si sono esaurite velocissimamente! Ho sperimentato quanto sia fenomenale la quotidianità della vita e penso che sia straordinario trovarsi la mattina con gli amici di trenta anni fa a fare Gongyo insieme.

Redazione: Nel 2003, attraverso una gastroscopia fatta casualmente, ti hanno scoperto un tumore maligno, molto grosso, alla bocca dello stomaco e ti hanno dato pochi mesi di vita. Come hai reagito?

RICCARDO: Sul primo momento non avevo ben capito che si trattava di me perché mi sentivo benone, ma poi mi sono detto: «Bene, incamminiamoci su questa strada, per quella che sarà». Stavo vivendo una buona vita ed ero motivato, ma probabilmente avevo perso un po’ di smalto e ho capito che dovevo scegliere nuovamente se trascorrere il tempo che avevo a disposizione, e non sapevo quanto, in una maniera miserabile o vittoriosamente. Ma ho deciso di mantenere fede alla promessa di vivere una vita gloriosa, magari breve ma vissuta fino in fondo.

Redazione: Durante questa tua grande esperienza riguardo alla malattia hai raccontato che ricercavi una risposta a tutto quello che ti stava succedendo: dove l’hai trovata?

RICCARDO: Nel Mondo del Gosho il presidente Ikeda scrive: «Il Daishonin afferma che la malattia è “il volere del Budda” perché ci sprona a risvegliare “lo spirito di ricerca della via”» (vol. 2, pag. 329). E a quel punto mi sono reso conto che non era questione di guarire o non guarire, ma di iniziare a fare un cambiamento serio e vero di me stesso. C’era anche la possibilità che non superassi l’operazione, ma mi sentivo tranquillo perché recitavo Daimoku con forza, sostenuto da mia moglie, mia figlia, dagli amici e da un messaggio del presidente Ikeda che avevo informato della malattia. Arriva il momento dell’operazione e mi portano in sala operatoria nello stesso giorno e alla stessa ora di quando avevo iniziato a praticare ventisette anni prima: il 1° ottobre! Non ho mai dato una grande importanza ai numeri ma indubbiamente questa cosa mi ha colpito. L’intervento riesce bene e io riprendo la mia vita normale ma effettivamente in seguito non mi sono riguardato un granché!
Nel Gosho c’è scritto: «La malattia apparirà quando il karma negativo sta per esaurirsi» (La cura delle malattie karmiche, SND, 5, 86). Ci si può ammalare per fare un passo in avanti, per capire qualcosa, e non è il solo motivo, ci sono tante concause; io ovviamente ho vissuto in modo da averle tutte e così la malattia si è manifestata presto e con tutta la sua forza, prima che in altre persone e questo mi ha permesso di riflettere meglio su moltissime cose.

Redazione: Dopo sei mesi, in base a fortissimi dolori addominali, ti hanno diagnosticato una pancreatite acuta fulminante, dandoti per spacciato…

RICCARDO: Per me da quel momento sono cominciati i veri problemi. Stavo veramente male, avevo otto litri di liquido nell’addome, intorno al cuore e ai polmoni. Non riuscivo a recitare Daimoku e dopo un po’ mi dovevo mettere la maschera a ossigeno. A quel punto ho cominciato a sentire l’importanza degli amici membri, che in passato mi ero sforzato di incoraggiare come meglio potevo. Entravo e uscivo dall’ospedale, dato che subentravano continue complicazioni: del pancreas non mi era rimasto quasi più niente, solo una piccola porzione che produceva l’insulina e così non ero diventato anche diabetico; e poi l’ittero, la malnutrizione… calavo di peso in continuazione. Prima dieci, poi venti, trenta, fino a quaranta chili in meno. Lì ho iniziato a sperimentare cosa sono le difficoltà nella fede. A volte diciamo a una persona: «Tira fuori tutto il fiato che hai». Ecco, io non avevo fiato. Oppure: «Tira fuori tutta la determinazione», e io sentivo che non mi bastava neanche per campare. Ci sono stati due momenti in cui io ho sentito che stavo morendo: uno è quando mi è scoppiata questa pancreatite, perchè il dolore era talmente forte che non avevo mai sperimentato niente del genere, e la malnutrizione: da centotré chili ero ridotto a cinquantaquattro e non avevo fiato neanche per alzare le gambe, per fare uno scalino. Ho capito il significato della frase “si sta spegnendo”; sentivo che la forza vitale mi sfuggiva tra le mani e non avevo la possibilità (credevo!) di fare niente. Ma nella realtà attraverso gli incoraggiamenti del presidente Ikeda, di mia moglie Patrizia e di un bigliettino di mia figlia Bianca Maria, di otto anni, dove c’era un disegno e su scritto: «Papà, Nam-myoho-renge-kyo è come il ruggito di un leone, non ti abbattere» ho capito che questo fiato, questa determinazione che non trovavo… andava trovata! Mi restava un briciolo di speranza e la dovevo attivare. E da subito è ripartito tutto. Ho ricominciato a nutrirmi, anche se i medici dicevano: «Sta morendo, non c’è più nulla da fare».

Redazione: Quindi hai avuto accanto due donne eccezionali: tua moglie e tua figlia.

RICCARDO: Sono la mia fortuna. Sono state pazienti con me, mi hanno incoraggiato sempre.
Ho fatto shakubuku a mia moglie trenta anni fa e questa esperienza sulla malattia ci ha unito ancora di più. La mia bambina ha iniziato a fare Daimoku e saltuariamente Gongyo (vuol guidare sempre lei, mia moglie dice che mi somiglia!) e in questa condizione critica, dove generalmente vengono fuori un sacco di problemi, è riuscita non solo a migliorare a scuola, ma a eccellere, è riuscita a utilizzare questa difficoltà.

Redazione: Come hai reagito di fronte a questa ulteriore e durissima difficoltà?

RICCARDO: Mi sentivo nel fondo di un gorgo, di una tenebra e non riuscivo a venirne fuori. Sentivo che la vita se ne stava veramente andando via. Finché in fondo a questa palude, l’unica cosa che mi è venuta in mente è stata: «Ma al presidente Ikeda cosa gli racconto?». Così è iniziata a sorgere una luce che a poco a poco, sospiro dopo sospiro e, con grande difficoltà, mi ha fatto ripartire. Le donne mi portavano pranzi vegetali e gli amici mi venivano a trovare; lì ho capito l’importanza di parlare con delicatezza alle persone perché altrimenti invece di incoraggiarle si rischia di schiacciarle.

Redazione: Ma non è finita qui perché avevi anche una grossa pseudociste nell’addome e questo significava un altro intervento a rischio. È umano essere scoraggiati, non trovi?

RICCARDO: Certo, ma sono ripartito grazie agli incoraggiamenti ricevuti e da lì mi sono messo a recitare con più forza. Torno a fare un controllo e il medico non trova più la pseudociste, questa enorme sacca piena di liquido generata in seguito alla pancreatite. «Impossibile – dico io – è diciassette centimetri per sette! Guardi meglio!». Il medico continuava a dire: «È impossibile, impossibile! Lei non sa da che cosa è venuto fuori!». La ciste non c’era più! Sinceramente non me l’aspettavo nemmeno io, esco dall’ambulatorio frastornato e incredulo, quindi niente operazione, niente chemioterapia. Ma questa è stata la cosa più semplice, la cosa più difficile è stata combattere contro me stesso, fare un passo avanti nella mia fede e ricercare davvero il motivo per cui volevo vivere: per incoraggiare le persone. Ho capito l’importanza fondamentale del maestro e della SGI, l’essere un membro della SGI; essere malato o meno conta poco. Stiamo dentro la nostra organizzazione e incoraggiamo ogni persona, perché, vi assicuro, quando siamo “in fondo al barile” i mille amici Budda ci tendono le mani e ci sostengono la vita. Con questo sostegno, con questi amici, in questi due anni ho vissuto una vita più che gloriosa!

Redazione: Questo evento ha sicuramente approfondito la tua fede e ti ha cambiato, ma in che modo?

RICCARDO: È una domanda un po’ difficile che mi sono fatto anch’io. Non posso dire che sono migliorato però è cambiata la mia sensibilità rispetto alle persone. Riesco a capirle e a essere più sensibile nei loro riguardi. Sicuramente, grazie alle difficoltà che ho incontrato riesco a essere ancora più motivato nell’impegnarmi perché sento ancora di più la sofferenza delle persone, sento proprio il bisogno di questa cosa, mentre forse prima era più mentale, c’era più egocentrismo, il doverlo fare… non lo so! È sicuramente un grosso cambiamento che è avvenuto nella mia esistenza e ancora non ho chiarito bene cosa è successo, mi sto riavendo ora alla vita per cui…

Redazione: Ringrazi spesso la Divisione donne. In che modo ti ha aiutato in questo tuo percorso?

RICCARDO: La comprensione della vita nelle donne è differente. Noi uomini abbiamo poca attitudine a parlare tra di noi, a rivelarci, a essere incoraggiati e quindi si diventa più soli. È difficile poter toccare la vita di un nostro amico perché quando si parla di noi subentra questo meccanismo che chi si confida si sente più debole, invece le donne mi hanno incoraggiato come se fossi una donna. Loro mi parlavano di sé e io gli parlavo di me, come non avevo mai fatto con nessuno, in maniera naturale. Mi trovavo nel mezzo, come se fossi una barchetta che scendeva la corrente di questo fiume e si discuteva magari del colore della sciarpa, se stava bene con quel vestito e di altre cose di cui io normalmente non avrei mai parlato. Ero incoraggiato da questa loro levità e peculiarità, senza fare progetti o piani; noi uomini siamo meno attenti. Anche la signora Takahashi, durante il corso estivo di Fiuggi nel 2006, ha visto che mi ero messo nel piatto delle porzioni che erano improponibili anche per una persona sana e mi ha detto: «No, non è possibile per te mangiare cosi!», e poi ha cominciato a tessere una rete di spionaggio che il KGB era niente a confronto, con tutte queste donne che gentilmente mi controllavano consigliandomi di stare attento. Mi proteggevano, dicendomi ad esempio: «Di pancreas tu ce ne hai pochino… fallo durare di più!». Ho dovuto trovare la forza della “donna all’attacco”, perché quella dell’uomo era finita!

Redazione: In trent’anni di pratica buddista hai sempre incoraggiato tantissime persone, anche dei malati gravi. Che differenza c’è a incoraggiare una persona non avendo avuto la stessa esperienza e avendola invece vissuta?

RICCARDO: Forse lo potrebbero dire le persone incoraggiate se è più efficace o no. Non penso che sia necessario essere malati per incoraggiare le persone nella fede, sennò dovremmo essere banditi per incoraggiare i banditi, drogarsi per incoraggiare i drogati. Però sperimentare una sofferenza per capire quella degli altri è importante. Mi è capitato di parlare con una ragazza molto giovane e malata di tumore e nei suoi occhi vedevo mia figlia: se avessi avuto quel “demone” sottomano me lo sarei mangiato nel caffelatte. L’ho incoraggiata cercando di trasmettergli più convinzione possibile e recentemente mi ha chiamato per dirmi che il tumore si è ridotto del 50% per cui non le stanno facendo nessuna cura perché sta regredendo da solo. Lei pratica da tre mesi, a dimostrazione che non bisogna per forza essere “stagionati” per avere imparato qualcosa, sono importanti la freschezza e la determinazione nella pratica. Bisogna sperimentare la sofferenza per alleviare la fatica del vivere e incoraggiare le persone a sfidarsi, perché non c’è una ricetta se non quella di recitare Daimoku. Ognuno ha la sua strada particolare. Ho saputo di tante persone, di cui non conoscevo neanche il nome, che recitavano Daimoku per me. La gente è molto più compassionevole di quanto io possa aspirare a essere. Questa è l’eccezionalità delle persone comuni, necessarie per realizzare kosen-rufu. Quando è morto mio padre, poco prima della mia operazione, per me è stato molto importante parlare con degli amici e sentire il loro incoraggiamento.

Redazione: Forse nel momento in cui una persona comprende profondamente la malattia capisce anche che vivere o morire non è la cosa fondamentale. Ma agli altri come riusciamo a spiegarlo? E come facciamo a non infondere false speranze di guarigione di fronte a malattie terminali?

RICCARDO: Mi sono reso conto che per mia moglie Patrizia questa situazione è stata molto più dura che per me. Io, quando sentivo che veramente stavo morendo, mi dicevo: «Va bene, morirò, ma cerchiamo di allungare il più possibile la vita, di vivere questo poco tempo felicemente. Comunque, io voglio vincere!». E poi mi chiedevo: «Ma se vivo e vado avanti, diventerò felice?». Il problema grosso è questo: se io non sarò più felice, il fatto che viva di più non è una cosa fondamentale. L’importante è non lasciarsi vincere dalla mente e ho visto che chi si sfida sinceramente è gioioso, non preoccupato. Per esempio noi pensiamo: «A questa persona gli dico che riguardo a quella malattia vincerà sicuramente, poi… chissà se guarisce o non guarisce». Ma noi dobbiamo trasmettergli che “veramente” l’impossibile diventa possibile e sto incoraggiando i membri in questo modo. Dovremmo incoraggiare le persone fino in fondo perché quando veramente manifestiamo la nostra Buddità succedono delle cose incredibili. Preghiamo per essere felici adesso, perché dobbiamo affrontare la vita e non si può partire sconfitti. Ho vissuto intensamente fino in fondo, ho cercato di sentire tutti i miei amici prima degli interventi, di infondere coraggio a chi potevo. Ho stabilito dei legami ancora più forti e quelli sono stati la vittoria.

Redazione: Quindi hai vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo.

RICCARDO: Ho vissuto ogni momento fino in fondo, ma ne è valsa la pena. Avevo davanti mesi duri da affrontare, con la prospettiva di una vita miserabile, perché essere malato per più di due anni e mezzo sono tanti giorni, per cui se continui a vivere un giorno schifoso dopo l’altro per così tanto tempo, ti dici: «Che vita schifosa ho fatto!». Ma oggi paradossalmente penso: «Dovrei rifare questa esperienza? Va bene! Caso mai fatemelo sapere prima il finale, così faccio preoccupare meno le persone».

Redazione: Hai detto che durante la malattia ti mettevi dei piccoli scopi giornalieri.

RICCARDO: Era il “trucco” che usavo, perché quando è lunga ti senti disperato e questo è valido per tutte le difficoltà. È il ripetersi delle cose che ti stronca le gambe. Un giorno sbagliato può capitare. Ma quando cominciano a essere diversi giorni, mesi, anni è dura. Il trucco che ha funzionato e funziona per tutti è dire: «Fino a stasera, poi domani smetterà un attimino di piovere e verrà fuori il sole» e il giorno dopo per te quel pezzettino di sole è l’inizio della primavera, poi può anche ricominciare a piovere, ma il pezzettino di sole l’hai visto e sai che tornerà fuori. È stata veramente una battaglia all’ultimo sangue mai sperimentata in vita mia.

Redazione: Tu sei arrivato a combattere mettendoci questa grande forza anche grazie al Daimoku che avevi recitato in passato?

RICCARDO: Determinanti sono stati il Daimoku e l’incoraggiamento dei membri. I primi anni di pratica sono serviti sicuramente come base, ma a volte sono stato un po’ più pigrone, per esempio facevo meno Daimoku, ma studiavo di più… un po’ la vita che si fa tutti. Le mie giornate sono tutte differenti una dall’altra e infatti sono contento di fare un’ora di Daimoku dal Bottai una volta alla settimana, è un bel punto di partenza! Quindi una volta la settimana per quattro volte al mese, poi un altro po’ di giorni ce li metto anch’io e così riesco a fare una buona media. Ma a volte mi capitano delle giornate micidiali, dove veramente ho poco tempo, allora cerco di telefonare o di scrivere a una persona per incoraggiarla. Ecco, l’insieme di queste azioni mi ha portato a questo punto e lo stare in mezzo alla gente e fare attività per le altre persone è quello che ha fatto la differenza. L’ho visto in modo diretto perché i membri a loro volta mi hanno incoraggiato. Anche chi non mi conosceva ha recitato Daimoku e chi mi conosceva ha fatto per me delle cose… pazzesche! Grazie a tutti!

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