Una volta diventato vigile del fuoco, Federico Florio ha scoperto che la vera sfida è quella di ogni giorno: proteggere le persone con una preghiera risoluta per essere un ottimo professionista e attingere alla propria umanità
Raccontaci il tuo percorso, come sei arrivato a diventare un vigile del fuoco?
Ho iniziato a studiare psicologia, ma non mi sono poi laureato perché nel frattempo ho incontrato il Buddismo e ho capito che quello che stavo studiando in realtà non mi interessava. Mia madre lavora nell’amministrazione dei Vigili del Fuoco e qualche anno fa mi propose di entrare nei pompieri come volontario. Per me si trattava di un’opportunità concreta per avere una fonte di guadagno, così ho seguito il corso da volontario e ho iniziato subito a lavorare in ufficio, dopo di che ho fatto il concorso pubblico e sono entrato in graduatoria. A quel punto è iniziata la crisi e, benché idoneo, la mia assunzione veniva rimandata di anno in anno. È stata una vera lotta perché sulla carta avevo un lavoro, ma a causa dei tagli questa svolta non si concretizzava. Si è sbloccato tutto con il tempo, anche grazie all’attività buddista e al Daimoku.
Come ti approcci alla tua giornata lavorativa?
Quando mi sveglio la mattina decido in che modo utilizzare la giornata e quale direzione dovrà prendere il mio lavoro; come vigile del fuoco ogni giorno rafforzo la mia determinazione per far sì che le cose vadano nel migliore dei modi.
Un aspetto del mio lavoro all’inizio mi ha messo in crisi: ogni volta che andavo a effettuare un intervento per un’emergenza sentivo un’eccitazione, una sorta di contentezza e allo stesso tempo un senso di colpa perché, di fatto, questo significava che qualcuno stava male, aveva un problema o aveva subito un danno… mi sembrava strano essere entusiasta per questo.
Il mio desiderio di uscire per un intervento era però legato anche alla voglia di crescere professionalmente, perché è anche grazie all’esperienza che si diventa dei bravi vigili del fuoco.
La mattina mi mettevo davanti al Gohonzon con questo interrogativo: «Posso desiderare di fare interventi, anche importanti, e di acquisire più professionalità sulle spalle dei problemi altrui?».
Ho cominciato a fare Daimoku per riuscire a trovare una risposta a questo conflitto. È stato molto bello perché a un certo punto c’è stato un “click”: ho sentito che in realtà non mi posso aspettare che non ci siano problemi, incidenti o situazioni difficili, perché questo è parte del funzionamento della Legge di causa ed effetto che ci porta a vivere l’influenza sia del karma positivo sia di quello negativo. Ho percepito che come Bodhisattva della Terra, nel mio ruolo di vigile del fuoco, la mia funzione è quella di aiutare le persone che si trovano a fronteggiare situazioni difficili e pericolose; l’entusiasmo e la contentezza legate al fatto di uscire per un intervento si sono pian piano trasformate nella determinazione di adempiere alla mia missione di assistere e proteggere al meglio le persone nel momento in cui devono affrontare gli effetti manifesti del loro karma.
Che cosa provi rispetto al pericolo?
Questo lavoro mi sta portando a dover familiarizzare con situazioni di pericolo e di rischio a cui non ero abituato. Mi sono già trovato in circostanze molto scomode o complicate e ho già rischiato di farmi male in situazioni difficili. Recito Daimoku perché ci sia protezione, perché tutto vada al meglio e per avere quell’attenzione verso gli altri che in certi momenti è fondamentale.
La cosa interessante è che si tratta di un lavoro di squadra, quindi è indispensabile agire con lo stesso intento e creare armonia perché gli individualismi non premiano: se io non sto attento a quello che fa il mio compagno e viceversa c’è la possibilità che qualcuno si faccia male. Questo ti porta a dover creare per forza dei buoni rapporti con i colleghi.
È una grande lotta anche perché si fanno turni di dodici ore e si sta insieme per tanto tempo in un contesto prettamente maschile. Per me, abituato a trascorrere molto tempo a fare attività in mezzo ad artisti, buddisti, persone animate dallo spirito di ricerca, essere proiettato in un ambiente maschile come quello di una caserma è stato un bel passaggio e una grande sfida per tirare fuori la pazienza, sentire la vita degli altri e riuscire a trovare i miei spazi.
Cosa significa per te essere un vigile del fuoco?
L’obiettivo del vigile del fuoco è quello di tutelare persone, cose e animali e io lo trovo molto coerente con la mia vita da buddista. In un certo senso, mi sento un po’ privilegiato nello svolgere un lavoro che mi dà l’opportunità di sentire, sostenere e proteggere la vita delle persone.
Tuttavia, se mi concentro sull’ego e mi sento bravo perché faccio questo mestiere, corro il rischio di sentirmi in gamba solo perché aiuto qualcuno, a discapito della mia crescita personale.
Quando dico che sono un vigile del fuoco le persone cominciano a guardarmi in un modo diverso, rimangono sorprese, spesso si sente dire che siamo degli eroi.
Io non mi sento un eroe, piuttosto una persona che si sfida per tirare fuori il coraggio necessario a risolvere situazioni perlopiù difficili. Questo lavoro ti offre la possibilità di essere al servizio della vita e di sostenerla, anche attraverso la tutela e la protezione dei beni materiali importanti per le persone o, ad esempio, aiutando gli animali in difficoltà.
Questo è quello che devi fare – proteggere e tutelare – eppure non è scontato che tu riesca veramente a sostenere la vita.
All’inizio pensavo che il mio lavoro fosse proprio un “lavoro buddista”, ma poi ho capito che ogni lavoro può svolgere la funzione di salvare e aiutare le persone e, anche se ciò che faccio mi consente di aiutare gli altri, tutto dipende dalla mia intenzione più profonda, dal modo in cui decido di utilizzare le opportunità che la vita mi dà.
Ti sei mai trovato in situazioni difficili in cui l’insegnamento buddista ti ha aiutato?
Sì. Ogni volta che mi trovo di fronte una situazione difficile, vado incontro ai miei limiti, perché io ho comunque paura. Siamo esseri umani, a volte per agire dobbiamo tirare fuori il coraggio. È una sfida costante. Non è un lavoro ordinario, ti trovi veramente ad avere a che fare con il pericolo e la morte. Ci sono anche giornate tranquille, ma può accadere che mentre stai ridendo e scherzando con i colleghi suoni la campanella e ti trovi a uscire senza sapere cosa ti aspetta. A volte pensi che la situazione sia ordinaria e invece devi fronteggiare qualcosa di molto più rischioso di quanto pensavi. La sfida è sempre dietro l’angolo.
Come buddista, lotto nella mia vita quotidiana per superare i miei limiti; la pratica non mi serve per fare le cose che so fare, ma per sfidarmi in quelle difficili e io di sfide ne ho superate tante. Attraverso la mia attività nella Soka Gakkai ho costruito l’abitudine a manifestare il coraggio, il desiderio sincero di realizzare vittorie per incoraggiare gli altri, l’intenzione profonda di far andare le cose nel migliore dei modi. Questo è il bagaglio di esperienze maturate attraverso la pratica, che ora sul lavoro acquistano un valore ancor più grande.
Ricordo l’intervento più faticoso e delicato, uno dei più complessi fatti sinora. Era un incidente molto grave, abbiamo salvato delle vite, eravamo in mezzo al fango, quasi tutti ancora poco esperti, non riuscivamo a muoverci. In quell’occasione ho recitato Daimoku per tirare fuori il coraggio di agire e non spaventarmi perché era in gioco la vita delle persone. Sono questi i momenti in cui mi rendo conto che ho una responsabilità grandissima, quindi la mia preparazione, il mio stato vitale, la mia determinazione sono fondamentali, e io questo atteggiamento l’ho imparato facendo attività.
Pensi che la consapevolezza di questa forte responsabilità in un lavoro che non è affatto ordinario ti porti a rafforzare ancora di più la determinazione davanti al Gohonzon, rispetto ad esempio a un lavoro “più ordinario”, in cui magari gli errori sono del tutto rimediabili?
Credo che questo sia un dilemma che ci troviamo tutti a dover fronteggiare rispetto alla vita. Il desiderio di salvare le persone è una sfida che condividiamo tutti allo stesso modo. Non mi sento di dire che per me è più grande o importante, è una lotta – come ci dice sensei – difficile per tutti. La responsabilità di salvare una vita, da autentici buddisti, l’abbiamo anche nei confronti di un collega, per esempio, depresso.
Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?
Fare il vigile del fuoco è stato un immenso beneficio, dal punto di vista lavorativo, economico e per la mia intera esistenza perché mi sta dando la possibilità di creare grande valore. Oltre a questo, desidero perseguire anche il sogno di fare musica e diventare un autore pop. Questa è una passione che ho sempre avuto e che, grazie al fatto di lavorare su turni e avere dei giorni completamente liberi, riesco tuttora a coltivare.
C’è una frase di sensei che ti incoraggia nell’affrontare le tue giornate?
«Fede e vita quotidiana, fede e lavoro, non sono separati, sono un’unica cosa. Disgiungerli, pensando che la fede sia una cosa e il lavoro un’altra, significherebbe avere una fede teorica. Tenendo presente ciò, dovremmo impegnarci al cento per cento sia nel nostro lavoro sia nella fede. Con questa determinazione, teniamo in pugno la vittoria. Aver fede significa dare prova concreta nella realtà sociale e nella propria vita quotidiana» (Giorno per giorno, esperia, 7 giugno). Questo è lo spirito che cerco di adottare ogni giorno.