Mentre ero in ospedale i miei compagni di fede chiesero a un medico buddista di sostenermi. Lui mi disse: «Vuoi essere incoraggiata? Incoraggia gli altri!». Perplessa pensavo: «Sono qui che sto male e lui mi tratta così?». Rimasi delusa, ma da quel momento capii che il Buddismo significa alzarsi da soli
Sono nata in Croazia da mamma croata e padre serbo e con loro, all’età di quattro anni, mi sono trasferita a Belgrado. A sei anni venni scelta per partecipare a un famoso concorso canoro televisivo per bambini e lo vinsi. Da lì iniziò una carriera di bambina prodigio fatta di studi musicali, concerti, spostamenti, apparizioni. Si trattava di una vita forse invidiabile, ma per me molto stressante, tanto che durante l’adolescenza iniziai a soffrire di anoressia. Mia madre, pur essendo sempre al mio fianco, non si accorgeva di quello che mi stava succedendo, finché le cose non peggiorarono al punto che mi venne consigliato di rivolgermi a uno psichiatra. Nel frattempo, una volta finito il conservatorio, sostenni l’esame per essere ammessa all’Accademia di canto ma, provata dalla malattia, fui respinta. Riprovai nei due anni seguenti ma con lo stesso risultato. Non mi rimase altro che laurearmi in musicologia e pianoforte, lasciando completamente da parte il canto, che era la mia vita.
Tutto sembrava crollarmi addosso: stavo sempre male, avevo crisi di panico e per tentare di superarle mi imbottivo di psicofarmaci. Iniziai a frequentare un giovane baritono, iniziammo una relazione e mi portò a Milano a studiare lirica. Era il 1991 e dopo pochi mesi la situazione in Jugoslavia precipitò.
Tutti i risparmi che avevamo finirono per le costose lezioni di canto e le cose andavano sempre peggio. La guerra si stava inasprendo sempre di più e avevo perso qualsiasi speranza. Avevo una scarsa considerazione di me stessa e pensavo che tutto sommato le cose negative che mi succedevano le meritavo. Per fortuna una cantante newyorchese mi parlò del Buddismo e iniziai subito a praticare. Il mio compagno aveva iniziato a bere manifestando comportamenti violenti, anche nei miei confronti, tanto che sono finita in ospedale. Mia madre è venuta in Italia per riportarmi a casa e dopo averle parlato del Buddismo anche lei ha iniziato a recitare. Mentre ero in ospedale i miei compagni di fede chiesero a un medico buddista di sostenermi. Lui mi disse: «Vuoi essere incoraggiata? Incoraggia gli altri!». Perplessa pensavo: «Sono qui che sto male e lui mi tratta così?». Rimasi delusa, ma da quel momento capii che il Buddismo significa alzarsi da soli.
La mia storia sentimentale, ovviamente, era finita. In Jugoslavia la situazione era terribile, poi venimmo a sapere che mia madre aveva perso il lavoro e la convinsi a rimanere in Italia. Ci siamo messe l’obiettivo di trovare un impiego e una casa, mia mamma ha iniziato subito a lavorare come sarta. Io facevo le pulizie nelle case, mattino e pomeriggio, quando finivo andavo a lezione di canto e alla sera facevo due ore di Daimoku: era una vita molto dura, ma volevo a tutti i costi cambiare. Così è stato. Da allora, e fino ad adesso, ho fatto almeno due ore di Daimoku al giorno, a volte molto di più.
Dopo qualche tempo sono arrivati in Italia anche mia sorella con suo marito e hanno iniziato subito a praticare anche loro. Partecipavamo intensamente alle attività e rincontrai quel medico buddista che mi aveva incoraggiato in ospedale. Ho iniziato a guardarlo con occhi diversi e ho scoperto che mi piaceva. Recitavo molto Daimoku per questo, ma non succedeva niente: i mesi passavano ma lui neanche mi guardava. Poi, finalmente, si è accorto di me e oggi siamo felicemente sposati da dieci anni.
Nel frattempo avevo ricevuto il Gohonzon e avevo la responsabilità di un gruppo. Appena avevo un po’ di tempo libero facevo attività, il gruppo continuava a crescere e a dividersi, cosa che è successa per ben quattro volte! Eravamo molto uniti, c’era un membro che a volte portava anche dieci persone nuove alla riunione e guarda caso erano spesso persone con problemi simili ai miei: aiutando loro aiutavo me stessa!
In campo lavorativo, se prima si presentavano delle occasioni che poi non si concretizzavano, praticando, le cose hanno iniziato a cambiare. Dopo alcuni concerti, ho debuttato in quattordici ruoli principali in vari teatri in Italia e all’estero. Nonostante i progressi, dentro di me c’era sempre un desiderio di riscatto nei confronti del mio paese natale. Nel 2000, in maniera inaspettata, è arrivata questa possibilità, perché sono stata chiamata a cantare a Belgrado, davanti a cinquemila persone, in una importante manifestazione trasmessa in televisione. Qui ho avuto la possibilità di incontrare gli insegnanti che non mi avevano ammesso all’Accademia e, attraverso il potere della prova concreta, ho parlato ai miei amici del Buddismo incoraggiando anche gli allora pochi membri di Belgrado. Nel 2007 mi hanno chiamata al Teatro dell’Opera di Belgrado per cantare in quella che è la mia opera preferita, Pagliacci. In questo dramma io interpreto Nedda che punisce Tonio, per l’appunto… interpretato dal mio ex! Ho sentito di aver vinto su tanti aspetti della mia vita, e anche nella finzione scenica, e forte di questo sentimento gli ho potuto parlare di Buddismo.
Il 2010 è stato un anno davvero speciale. Basandomi sulla preghiera e col desiderio di mettere in pratica lo stesso spirito di sensei, sono stata partecipe di una grande crescita. Innanzitutto nel mio capitolo sono emerse moltissime persone piene di entusiasmo per kosen-rufu e sono stati consegnati settantasette Gohonzon. Il capitolo, raddoppiato in due anni, si è diviso proprio il 18 novembre, giorno della fondazione della Soka Gakkai. Mi aspettava una grande sfida nel mio lavoro: ho dovuto lottare contro la paura e l’insicurezza che mi assalivano tutte le volte che dovevo cantare. Nel dicembre 2010 infatti ho affrontato otto recite del Don Giovanni in sei giorni e una sfida così grande non mi era mai capitata prima, sia vocalmente che psichicamente. Il primo giorno avevo così tanta paura che volevo scappare dal teatro ma poi, recitando in camerino, tutto questo si è sciolto e alla fine ho cantato benissimo.
Grazie a questa difficoltà ho visto in faccia il “nemico”: la mia oscurità che mi imprigionava. Ho percepito di aver rotto questa catena ed esserne uscita fuori, ho provato una gioia e una forza enorme, percependo il mio valore infinito. Terminata l’ultima recita, ho scritto sulla mia agenda: «La vita è fatta per gioire e non per soffrire!». Da quel momento mi sono sentita, e mi sento tuttora, profondamente rinnovata. Il mio desiderio è di emergere ancora di più nella società, portando la mia missione per kosen-rufu e continuare a incoraggiare tutti i membri.
Come scrive Daisaku Ikeda: «Realizziamo uno sviluppo così eccezionale, che perfino coloro che ci invidiano e parlano male di noi non potranno che essere sorpresi dalla nostra energia, dal nostro impegno e dalla crescita esponenziale delle persone capaci che si dedicano a kosen-rufu. Su cosa si basa questo impegno? Sulle nostre singole rivoluzioni umane. Non ha niente a che vedere con la struttura organizzativa. Dobbiamo prima cambiare noi stessi, intraprendendo una vera trasformazione interiore, conferire alla nostra vita una nuova luce in quanto esseri umani e dedicarci a far crescere le giovani generazioni che contribuiranno a kosen-rufu» (NR, 351, 3).