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Lettera ai fratelli - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:59

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Lettera ai fratelli

Roberta Aramu

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«Forgiando il ferro, tutti i suoi difetti vengono in superficie. Una roccia messa sul fuoco si ridurrà in cenere, mentre l’oro diverrà oro puro»

tratto da Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, pag. 112

Come l’oro puro

Quando ho iniziato a praticare questo Buddismo ero affascinata dal concetto di rivoluzione umana, poi ho compreso che non si trattava solo di una bella teoria, ma di avere il coraggio di mettersi in discussione e di decidere di fare un profondo cambiamento.
Nei miei primi tre anni di pratica buddista sono venuti alla luce tutta una serie di problemi causati principalmente dalla mia negatività e in particolare dalla mia arroganza, che veniva riflessa dallo specchio del Gohonzon restituendomi, senza tanti complimenti, la severa risposta dell’ambiente. Osservando senza capire ciò che mi stava accadendo, le persone intorno a me pensavano che seguire gli insegnamenti del Daishonin mi portasse sfortuna e mi chiedevano di smettere, io invece percepivo lo stato vitale che rafforzava il mio benessere interiore. Avrei continuato a praticare anche solo per quello.
A diciannove anni, dopo che per la seconda volta non avevo superato l’esame di maturità, ricevetti il Gohonzon. Mitsuhiro Kaneda, allora direttore generale, senza sapere niente mi incoraggiò dicendomi: «Da oggi avrai più benefici» confermando ciò che a un livello più profondo stavo già percependo.
Ho avuto la fortuna di poter fare attività di protezione, come byakuren, per circa dieci anni, partecipando a vari corsi, durante i quali la nostra disponibilità verso i membri era totale, sia di giorno che di notte. Non ci poteva essere una scuola migliore per limare il mio egoismo e la mia pigrizia, ho avuto l’opportunità di allenare l’atteggiamento di offrire la mia vita, di “lasciare andare con gioia” come spesso ci veniva spiegato. Non posso dire che sia stato facile, ma ho avuto la fortuna di poter controllare il mio istinto di fuga ricercando una consapevolezza più profonda di quello che stavo facendo. Nei momenti importanti si sono sempre manifestate grandi difficoltà e per risolverle ho dovuto trasformare qualcosa di profondo dentro me stessa. Adesso credo di capire sempre meglio che questo è un processo ineluttabile che fa parte delle basi della nostra pratica.
Al diciannovesimo anno di pratica mi ricordai della famosa guida di sensei Mirando a venti anni di pratica buddista (cfr. D. Ikeda, Ai miei cari amici italiani, pag. 10, 2003) allora mi chiesi come sarebbe dovuta essere la mia vita in vista del traguardo dei miei venti anni e che cosa avrei dovuto fare. Pochi mesi dopo cominciai a sentire uno strano malessere, di cui non riconobbi la patologia, poiché sono sempre stata una persona sana, di conseguenza non pensai di curarmi e l’affrontai come sempre avevo fatto, recitando Daimoku. Dopo due mesi questo malessere era ormai diventato un dolore costante al quale cominciavano ad associarsi forti attacchi di panico.
Un giorno telefonai ad Asa Nakajima, responsabile nazionale della Divisione donne, per chiederle un consiglio sulla fede. Lei mi disse che stavo affrontando un aspetto molto profondo della mia oscurità e mi incoraggiò dicendomi che non aveva dubbi che l’avrei superato e che quella era l’occasione per fare un grande cambiamento. In particolare mi disse: «Vedi Roberta, se io penso a te vedo una persona forte, ma non vedo gioia, sei sempre seria, probabilmente devi alleggerire la tua vita, impara a sorridere». In effetti, in seguito, capii che gran parte del mio malessere, che nel frattempo si era trasformato in una depressione con i fiocchi, era stato provocato dalla mia tendenza esagerata a sovraccaricarmi di lavoro e di responsabilità. I miei venti anni di pratica mi avevano messo di fronte alla malattia dalla quale ho ricevuto il grande regalo di imparare a vivere con più leggerezza e così, solo dopo otto mesi, ho cominciato a uscire dal tunnel della depressione e ho avuto una guarigione velocissima. Era come se un enorme blocco di cemento si fosse improvvisamente sgretolato.
Di recente ho affrontato un’altra prova, questa volta un complicato problema di lavoro. È stata una situazione lunga e potenzialmente logorante. Stavo preparando l’esame di studio sul Buddismo e attraverso la spiegazione di Ikeda sul Gosho Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza (BS, 119, 12) ho ulteriormente approfondito che l’essenza della nostra vita è quel famoso “oro” che diventa “oro puro” citato nel Gosho. Mi è rimasta incisa questa parte della spiegazione: «L’essenza della pratica buddista è percepire la vera natura della nostra vita, della nostra mente. Per fare questo dobbiamo intraprendere una lotta interiore […]. Per questo combattere l’oscurità o l’ignoranza dentro di noi è una parte inevitabile del processo per diventare Budda. In altre parole, il fatto di combattere continuamente la nostra ignoranza innata o di non farlo è l’unico fattore determinante per ottenere la Buddità. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Impegnandoci in questa lotta possiamo manifestare la saggezza del Budda dentro la nostra vita e quindi confrontarci con la nostra oscurità e superarla» (Ibidem, 37).
A volte vedere i nostri aspetti negativi ci spaventa, dimenticando che il Buddismo non dice di eliminare ma di sfruttare i nostri difetti come potenziale per l’illuminazione. In questo brano Ikeda ci sta dicendo che è normale che l’oscurità si manifesti e che la cosa più importante è di continuare a ricercare interiormente un atteggiamento di lotta. Ci sono dei momenti in cui sembra che anche la voglia di lottare venga meno, una manifestazione dell’oscurità sotto forma di stanchezza e apatia, ma se stiamo praticando sinceramente possiamo comprendere ciò che avviene e, di conseguenza, fare una preghiera mirata che ci consentirà senza dubbio di superare l’ostacolo. Questa lotta non è contro dei mostri giganteschi fuori di noi, ma un processo interiore che ci mette in grado di comprendere sempre meglio che la nostra vita è l’entità della Legge mistica e che in virtù di questo siamo solo noi che decidiamo se far prevalere la Buddità piuttosto che l’oscurità.

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In questo brano…

Nichiren scrisse questa lettera nel 1275, dopo il suo ritiro sul monte Minobu, indirizzandola ai fratelli Ikegami – per questo il titolo Lettera ai fratelli. Troviamo in essa un grande incoraggiamento rivolto ai fratelli Munenaka e Munenaga, figli di un fervente seguace di Ryokan, capo del tempio della scuola della Vera parola. Ryokan cercava di contrastare l’azione del Daishonin, sia con attacchi diretti, sia con complotti a vari livelli. Nichiren incoraggia i due fratelli a perseverare e a sostenersi a vicenda, nonostante il padre avesse cercato di dividerli minacciando il maggiore di diseredarlo nel caso in cui non avesse abbandonato la fede, minaccia poi messa in pratica.
La frase qui citata contiene il cuore di questo incoraggiamento: nei momenti di difficoltà si rivela la vera natura di una persona o di un legame umano, ciò che è imperfetto e corruttibile dimostra i suoi difetti (ferro) o si sgretola (roccia), mentre ciò che è perfetto e puro manifesta queste qualità (oro). È un incoraggiamento importante da tenere presente in ogni occasione in cui la vita ci pone una sfida alzando l’asta dell’ostacolo di fronte a noi. «Dicendo che il bodhisattva Mai Sprezzante – scrive Ikeda nella Saggezza del Sutra del Loto – era buono e gli arroganti erano cattivi, facciamo una distinzione fra bene e male e rimaniamo nell’oscurità. Quando svolgiamo la pratica (del bodhisattva) di inchinarci, ci inchiniamo a Nam-myoho-renge-kyo in cui c’è unità di bene-male e di giusto-sbagliato» (SSL, 4, 16). La decisione di divenire ferro od oro sta tutta nelle nostre mani e nel nostro Daimoku.

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