“Hikikomori” è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte”, e viene utilizzato per riferirsi a coloro che decidono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi rinchiudendosi nella propria stanza/abitazione, senza avere contatti diretti con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i genitori.
Abbiamo cercato alcune risposte e consigli pratici consultando il sito dell’associazione “Hikikomori Italia” e il libro di Marco Crepaldi Hikikomori con l’obiettivo di sensibilizzare e stimolare una riflessione critica su questo fenomeno poco conosciuto ma sempre più diffuso
Cos’è il fenomeno Hikikomori?
Il fenomeno ha iniziato a diffondersi negli anni ‘80 in Giappone e negli anni recenti l’attenzione mediatica è aumentata anche in Italia. Se da una parte questa attenzione è sicuramente positiva, dall’altra ha portato al proliferare di un’informazione spesso fuorviante, a tal punto che il fenomeno hikikomori è stato scambiato per patologie con le quali non ha nulla a che fare.
Anche se non esiste una definizione ufficiale ed esaustiva, nel suo libro Hikikomori Crepaldi lo descrive come: «Una pulsione all’isolamento fisico, continuata nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate» (Hikikomori, Alpes, pag. 10).
È anche importante fare chiarezza sul fenomeno sfatando alcuni stereotipi attorno a questa problematica.
Iniziamo quindi con il chiarire cosa non è l’hikikomori.
Non è dipendenza da internet. Nonostante talvolta possano potenziarsi a vicenda, si tratta di due problematiche distinte.
Il fenomeno hikikomori, infatti, ha un’origine indipendente dalle nuove tecnologie che negli anni ’80, quando esplose in Giappone, non erano ancora entrate nelle case. Lungi dall’essere una causa, quindi, l’accesso a Internet ha fornito un modo di restare in contatto con il mondo esterno nonostante l’isolamento o, nel caso del videogioco, una fuga dal pensiero del fallimento, uno svago che aiuta a sentirsi meno soli.
Come precisa Crepaldi: «Internet potrebbe aver avuto un effetto acceleratore, ampliando esponenzialmente le risorse a disposizione degli hikikomori nella condizione di isolamento e rendendo di fatto maggiormente attraente tale strada, almeno più di quanto lo fosse nell’era pre-digitale, ma la pulsione all’isolamento non dipende mai esclusivamente dall’attrazione nei confronti della rete, ma origina sempre da un malessere preesistente».
Ciò significa che tolto il videogioco, tolto il pc, tolto internet, il disagio sociale rimane.
Non è depressione, né autismo.
Esiste una forte relazione ma l’isolamento non è innescato dalla depressione, che tuttavia può manifestarsi nel protrarsi dell’isolamento (Ibidem, pagg. 5-10).
Seppure l’avversione nei confronti delle relazioni sociali sembri originare da una forte componente ansiosa, si tratta piuttosto di una visione negativa profondamente interiorizzata dagli hikikomori. Questa visione negativa della società e della possibilità di stare bene con gli altri col tempo si cronicizza e diventa una corazza che giustifica la loro scelta di isolamento.
Inoltre l’hikikomori non ha a che fare con l’autismo. Infatti il disagio adattivo si manifesta di solito in fase adolescenziale senza darne segnali nell’infanzia, cosa invece tipica dell’autismo.
Le cause
Le dinamiche socio culturali potenzialmente in grado di favorire l’hikikomori sono numerose e il tentativo di individuarle tutte rischia di scadere in forzature e generalizzazioni.
Tuttavia, afferma Crepaldi, la pressione di realizzazione sociale può essere considerata “come la madre dell’hikikomori” (Ibidem, pag. 38).
Le fonti di pressione sono potenzialmente infinite, e variano in relazione al contesto e alla persona. L’hikikomori attraverso il ritiro sociale vuole sostanzialmente fuggire da tali pressioni divenute con il tempo per lui insostenibili, e sottrarsi alla competizione (Ibidem, pag. 39).
Se la pressione di realizzazione sociale è considerata il combustibile, l’emozione dominante che si trova alla base della scelta del ritiro è la paura:
«Paura e vergogna coesistono e si fondono in un unico sentimento: la paura di essere giudicati. […]. Un altro fattore che può giocare un ruolo negativo è il perfezionismo, ovvero la ricerca ossessiva della perfezione. La necessità di mantenere uno standard sotto al quale non si accetta di scendere genera un meccanismo psicologico che può portare alla rinuncia totale all’agire: non è ammesso l’errore quindi qualsiasi cosa diventa particolarmente difficile e si tende a rimandare tutto all’infinito, fino a sviluppare un atteggiamento di resa, una sensazione di paralisi» (Ibidem, cfr. pagg. 38-45).
Come si può aiutare chi non vuole essere aiutato?
Spesso i ragazzi isolati negano categoricamente di avere un problema e di conseguenza rifiutano qualsiasi supporto.
Anche per questo è fondamentale dare una corretta informazione e ribadire che soluzioni rapide e coercitive difficilmente portano a benefici sul lungo periodo.
Soprattutto nei momenti di maggiore sconforto le famiglie diventano vulnerabili a quelle ideologie di risoluzione coercitiva, come alcune pratiche diffuse in Giappone per cui gli hikikomori vengono trascinati a forza e con violenza facendo anche spendere tantissimi soldi ai genitori.
Ma è possibile aiutare qualcuno che non vuole farsi aiutare?
Marco Crepaldi risponde che sì, è possibile, a patto di tenere presente che l’obiettivo non è spingere nostro figlio a vivere la vita che riteniamo la più giusta per lui, ma semplicemente aiutarlo a trovare la sua strada.
PER I GENITORI…
«Avere a che fare con un hikikomori rappresenta un compito delicato per chiunque, si tratti di un genitore, di un insegnante, di un amico o di uno psicologo/a, dal momento che ci si trova a relazionarsi con persone sfiduciate e disilluse. Per non essere respinti è necessario cercare di aggirare le barriere da loro erette nei confronti del mondo sociale, evitando qualsiasi tipo di forzatura o atteggiamento supponente, ma ponendosi come interlocutori empatici e non giudicanti» (Ibidem, pag. 84).
Spesso la sensazione dei genitori è che più si prodigano per aiutare il proprio figlio/a e più le cose peggiorano. In questo senso il primo consiglio è proprio di allentare la pressione in modo che il figlio non si senta oppresso.
Raccogliendo una serie di esperienze di famiglie che hanno affrontato questa problematica, il sito dell’associazione Hikikomori Italia (hikikomoriitalia.it) offre una serie di “buone pratiche”, come ad esempio:
- Riconoscere la sofferenza dell’hikikomori, anche se la sua scelta può sembrarci assurda: è necessario abbattere le nostre barriere mentali e sforzarci di comprendere realmente il profondo disagio che sperimenta, senza banalizzarlo o sminuirlo.
- Cercare di allentare la pressione di realizzazione sociale esercitata anche inconsciamente: ciò non vuol dire evitare a tutti i costi il conflitto, la cosa importante è che la finalità sia stimolare un dialogo e non manipolare le sue intenzioni.
- Approcciare il problema a livello sistemico, come qualcosa che riguarda la famiglia e la società e non solo direttamente la persona che si isola.
- Evitare assolutamente azioni coercitive come spingerli ad uscire per forza, o privarli di internet, perché il conflitto che si genera provoca ulteriore distacco e rafforza le reciproche convinzioni, mentre il dialogo rimane l’unica via per produrre un cambiamento positivo.
Naturalmente la condizione di hikikomori è molto complessa e le variabili da tenere in considerazione sono tante, ogni storia è a sé e l’approccio corretto varia a seconda del caso.
Tutti i comportamenti suggeriti devono quindi essere calati nelle specificità del singolo contesto e non adottati acriticamente.
Come afferma Crepaldi:
«Ogni hikikomori ha le sue peculiarità che lo rendono unico e non inquadrabile all’interno di un pacchetto preconfezionato di azioni. Per questo motivo, è sempre consigliabile evitare l’autogestione e rivolgersi a un professionista che possa monitorare da vicino la situazione e guidare verso un corretto approccio al problema» (Ibidem, pag. 89).
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Chi sono gli hikikomori?
Il fenomeno hikikomori viene definito come un disagio adattivo sociale, una pulsione all’isolamento fisico continuativa nel tempo che insorge principalmente durante l’adolescenza, ma tende a cronicizzarsi.
Il fenomeno è ancora poco conosciuto ma colpisce più di quanto si possa immaginare, soprattutto i giovani dai 14 ai 30 anni, principalmente maschi (tra il 70% e il 90%), anche se il numero delle ragazze isolate potrebbe essere sottostimato dai sondaggi ufficiali. Al momento in Italia alcune stime riportano almeno 100.000 casi.
Associazione nazionale “Hikikomori Italia”
“Hikikomori Italia” è un’associazione nazionale di informazione e supporto sul tema dell’isolamento sociale giovanile.
Il progetto è nato nel 2013 con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni su un disagio ancora poco conosciuto in Italia, nonostante riguardi decine di migliaia di persone, soprattutto adolescenti e giovani. Hikikomori Italia conta attualmente 33.700 iscritti (vedi sito hikikomoriitalia.it).
Nel 2017 è nata anche l’associazione “Hikikomori Genitori Italia Onlus”, madri e padri che possono usufruire gratuitamente di gruppi di mutuo-aiuto online o in presenza, coordinati e assistiti da psicologi volontari in tutte le principali città. L’associazione è composta da migliaia di genitori in tutta Italia riuniti in un gruppo Facebook di 1500 persone dove vengono condivise tante storie, testimonianze e dove avviene un confronto di esperienze.
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Speciale hikikomori – Testimonianza
Cinque anni vissuti da hikikomori
A scuola, durante la pausa pranzo l’aula era sempre piena di vita, gli studenti parlavano tra di loro con grande vivacità. Tutti, tranne Akio. Nessuno gli rivolgeva mai la parola; sembrava che solo intorno a lui ci fosse una barriera invisibile, che lo isolava dal resto della classe.
“Sono invisibile”, pensava. “Ma in fin dei conti, è meglio così. In confronto a quando venivo bullizzato alle medie, a stare da solo mi sento più tranquillo”.
Aveva resistito per tanto tempo alle angherie e alla violenza dei compagni di classe. Ma ciò che non riusciva più a sopportare era la completa indifferenza degli altri. Potevano anche fargli volare la cartella dalla finestra o farlo sanguinare, ma nessuno sembrava farci caso.
“Se deve continuare così, meglio stare da solo”. Così Akio, che si era iscritto a un corso presso un istituto tecnico della durata di cinque anni, si chiuse completamente in solitudine.
Quando gli parlavano della sua possibile carriera dopo il diploma, lui pensava: «Tanto non vivrò così a lungo». Non voleva nemmeno pensarci.
Al quarto anno smise di andare a scuola. Chiuse le tende della sua camera e spense tutte le luci.
L’unica luce nella stanza buia era quella dello schermo del suo videogioco.
Senza nemmeno rendersene conto, passò in questo modo molto tempo, fino a non sapere più che giorno o che ora fosse. A parte un piccolo spazio davanti al televisore, la sua camera era ormai piena di spazzatura.
“Che senso ha vivere? Sono nato solo per soffrire?”. Per circa tre anni il tempo in quella stanza si fermò. Poi, un giorno, si presentò alla porta di casa un giovane della Soka Gakkai.
Akio pensò: “Non è possibile che stiano cercando me”, e lo ignorò.
Ma il ragazzo tornò anche la settimana successiva, e quella dopo ancora. Decise quindi di incontrarlo, per capire cosa volesse.
Trovandosi di fronte a uno sconosciuto dopo così tanto tempo che era da solo nella sua camera, Akio non riuscì a dire una sola parola. Eppure, il ragazzo che era venuto a trovarlo non sembrava preoccuparsi del suo aspetto. Da quel giorno, andò una volta a settimana a trovare Akio, che rimaneva sempre in silenzio.
A volte era accompagnato da altre persone con cui parlavano del più e del meno, eppure quello era l’unico, grande cambiamento nella quotidianità di Akio.
Un giorno il giovane gli disse: «Perché non provi a venire a una riunione?».
Erano trascorsi due anni dal loro primo incontro e in quell’arco di tempo era andato a trovarlo un centinaio di volte.
«Va bene». Lo stesso Akio si sorprese nel pronunciare quelle parole. Non sapeva bene quando, ma la porta del suo cuore, che credeva ormai sbarrata per sempre, si era in qualche modo aperta.
Così partecipò a una riunione buddista e recitò Nam-myoho-renge-kyo per la prima volta: in quel momento provò una sensazione mai sperimentata prima. Era confuso, sentiva sgorgare la sua forza vitale e più recitava Daimoku, più il dolore che aveva provato per così tanto tempo diminuiva. Pochi mesi dopo si rese improvvisamente conto che fino a quel momento non aveva mai provato a diventare felice.
Al contrario, non aveva fatto altro che provare rancore nei confronti della propria situazione e odiare l’ambiente circostante.
Si era arreso, aveva perso fiducia e interesse nei confronti di se stesso e della vita.
Il suo modo di vedere le cose cambiò improvvisamente e il suo cuore si fece più leggero.
“Voglio assumermi la responsabilità della mia vita”, pensò.
E la sua preghiera fu pervasa da una profonda gratitudine per tutti coloro che avevano continuato a incoraggiarlo senza mai arrendersi; una preghiera colma di speranza e della decisione di diventare felice.
Due anni dopo, Akio si apprestava al suo primo giorno di lavoro presso un’azienda di vendita all’ingrosso di generi alimentari. Si era tagliato i capelli ed era ben vestito, ma non riusciva a non provare paura.
Era sul punto di andarsene ma proprio in quel momento si incoraggiò con tutto se stesso: “Questa mia decisione è basata sulla preghiera!”.
Pieno di determinazione, fece un grande passo avanti.
Il racconto di Akio
Akio racconta come le costanti visite di un giovane uomo della Soka Gakkai siano state determinanti per uscire dalla sua condizione di isolamento…
«All’inizio quelle continue visite mi infastidivano, ma poi, stranamente, ho iniziato a pensare: “Chissà se torneranno”. Sono infinitamente grato ai miei compagni di fede che hanno continuato a venirmi a trovare.
Prima di allora, nessuno mi aveva mai degnato di uno sguardo. Solo i membri della Soka Gakkai mi hanno prestato attenzione, guardandomi dritto negli occhi e accogliendomi così com’ero.
Mentre continuavo a recitare Daimoku, un giorno, improvvisamente, mi sono sentito come se fossi stato colpito da un fulmine. Mi dissi: “Smettila di dare la colpa alle circostanze esterne. Affrontale!”. Nonostante questo, però, mi ci volle molto impegno e fatica prima di riuscire a iniziare un lavoro. Ero terrorizzato. Impiegai due anni prima di trovare il coraggio di farlo.
Queste parole di Sensei furono per me un prezioso sostegno: “Recitando Daimoku possiamo trasformare noi stessi e, così facendo, siamo in grado di trasformare il nostro ambiente” (NRU, vol. 29, cap. 2, p.ta 26).
Sono riuscito a trasformare me stesso, fino a diventare una persona in grado di affrontare le sfide della vita.
Da un ragazzo che è rimasto chiuso nella sua camera per cinque anni, sono diventato una persona che riesce a pregare per la felicità degli altri. Ancora oggi mi capita di avere difficoltà a relazionarmi con le persone. Tuttavia, faccio del mio meglio per essere un alleato di chi sta soffrendo o si trova in una posizione di vulnerabilità.
Ora riesco a rimanere accanto alle persone animato da un sentimento di sincera compassione. Se penso che quei cinque anni sono serviti a questo, capisco che non sono stati sprecati, nel modo più assoluto.
La felicità non è un punto di arrivo. È continuare a recitare Daimoku anche mentre stiamo soffrendo; è riuscire a trasformare noi stessi e di conseguenza il nostro ambiente. Credo che, più di ogni altra cosa, questo percorso sia di per sé la felicità».