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I disturbi del comportamento alimentare - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 08:05

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I disturbi del comportamento alimentare

Un disturbo alimentare è un problema caratterizzato da comportamenti alimentari atipici o estremi, che può causare angoscia e spesso porta a conseguenze psicologiche o fisiche anche molto gravi. Secondo le statistiche, infatti, si tratta dei problemi psichici con il più alto tasso di morte diretta, e possono interessare chiunque. Inoltre in questo periodo, con la pandemia, sembrano essere aumentati

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Un disturbo alimentare è un problema caratterizzato da comportamenti alimentari atipici o estremi, che può causare angoscia e spesso porta a conseguenze psicologiche o fisiche anche molto gravi. Secondo le statistiche, infatti, si tratta dei problemi psichici con il più alto tasso di morte diretta, e possono interessare chiunque. Inoltre in questo periodo, con la pandemia, sembrano essere aumentati

Nelle pagine che seguono, dedicate a questa complessa problematica, pubblichiamo due interviste – a Sveva Nobile,  psicoterapeuta e a Cinzia Cattani, dietista – insieme a due esperienze

Un dialogo aperto

Abbiamo rivolto alcune domande a Sveva Nobile, psicoterapeuta, riguardo ai disturbi del comportamento alimentare (DCA)

Come nasce un disturbo del comportamento alimentare (DCA)? È possibile individuare cause o fattori che portano più frequentemente a un DCA?

Sveva Nobile: Sicuramente alla base dell’insorgenza di un DCA, come nella maggior parte dei nostri disturbi, troviamo un insieme di fattori sia individuali (predisposizioni genetiche) che ambientali (familiari ed esperienze di vita), che possono predisporre, cioè facilitare, l’insorgenza del disturbo e che, in termini tecnici, vengono chiamati “fattori di rischio” e sono gli stessi per tutti e tre i tipi di disturbo del comportamento alimentare (anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata o binge eating disorder).
I fattori individuali sono rappresentati da caratteristiche specifiche di personalità come: bassa autostima; assenza di fiducia in se stessi; scarsa consapevolezza delle proprie emozioni; eccessivo perfezionismo; un modo di vedere e vivere estremamente polarizzato – “o tutto bianco o tutto nero”; l’essere particolarmente impulsivi o ossessivi; attribuire importanza eccessiva al peso e all’aspetto del proprio corpo.
I fattori  ambientali sono prevalentemente: la presenza di un membro della famiglia a dieta per un qualsiasi motivo; familiari particolarmente critici su alimentazione, peso o forme corporee; episodi di vita in cui si è stati presi in giro su alimentazione, peso o forme corporee; disturbi dell’alimentazione in famiglia; obesità, passata o presente dei genitori o personale; stretta frequentazione di ambienti che enfatizzano la magrezza.

A volte quando ci relazioniamo con una persona a noi vicina che sta lottando con un DCA ci sentiamo impotenti o in difficoltà. Come potremmo comportarci per sostenerla?  Quali sono le cose più giuste da dire per aiutarla, senza farla sentire a disagio e senza lasciarla sola?

Sveva: È normale sentirci impotenti di fronte alla sofferenza di un’altra persona e questo spesso è legato al pretendere da noi stessi di trovare la soluzione o risolvere al posto dell‘altro.
Questo naturalmente non è possibile e non è il nostro compito, che è invece quello di “esserci” per la persona che soffre. “Esserci” vuol dire non fare finta di niente, come se il problema non esistesse o fosse un tabù da non nominare, ma neanche parlare solo del problema.
Rimanere se stessi, spontanei e sinceri, e ricordarci che anche l’altra persona è sempre la stessa che conoscevamo e amavamo prima dell’insorgere del problema, e soprattutto che quella persona non è solo “il suo problema”!
Esserci in modo rispettoso, cercando di non giudicare né la persona né i suoi familiari, di non esprimere rabbia, paura o disperazione per la sua situazione. Lasciare sempre aperto il dialogo, incoraggiarla a farsi curare e rassicurarla che non c’è nulla di cui vergognarsi o sentirsi in colpa per il fatto di avere una sofferenza, una difficoltà.

È possibile guarire definitivamente da un DCA?

Sveva: Si, è possibile. Non è certo, ma è assolutamente possibile.

Cosa potremmo fare nel caso in cui ci rendessimo conto di soffrire di un DCA?

Sveva: È molto importante prendere consapevolezza di avere un problema con l’alimentazione e l’immagine di sé, senza giudicarsi, vergognarsi o spaventarsi, e rivolgersi a centri e/o professionisti competenti che possano fare una diagnosi esatta. Questo è molto importante perché a volte possiamo avere un vero e proprio disturbo del comportamento alimentare, a volte la nostra sofferenza relativa al cibo o al corpo può essere un sintomo di un altro disturbo (come la febbre che può essere semplice influenza o sintomo di infezione in corso o anche di patologie più gravi) o una difficoltà legata a patologie organiche.

Cosa possiamo fare se ci accorgiamo che un nostro amico, amica, o un nostro familiare sta passando attraverso un dCA?

Sveva: Se la persona a noi cara ci ha parlato del problema sicuramente quello che abbiamo detto prima. Se la persona non ce ne ha parlato esplicitamente possiamo, con delicatezza e senza giudizio, ma sempre in modo spontaneo e sincero, dirle che abbiamo notato la situazione e chiedere a lei se se ne è accorta, se sta facendo qualcosa e che siamo a disposizione se vuole parlarne e se possiamo essere in qualche modo di aiuto.

Come ti aiuta il Buddismo nel sostenere qualcuno che lotta con un DCA?

Sveva: Essere buddista mi aiuta veramente da moltissimi punti di vista, su vari piani, è impossibile elencarli qui tutti, proverò a dirne alcuni.
La recitazione di Nam-myoho-renge-kyo e lo studio della filosofia buddista mi permettono di avere uno stato vitale alto e quindi energie fisiche e mentali necessarie per sostenere carichi di sofferenza, sconforto e senso di impotenza che sono spesso propri di chi soffre di una patologia; di mantenere sempre un assetto non giudicante, anzi sentire profonda gratitudine e stima verso chi soffre e lotta per riconquistare una vita sana; avere una visione profonda dell’essere umano.
Avere fede assoluta nella potenzialità infinita di guarigione e di trasformazione del veleno in medicina: tutto questo arriva alla persona che mi impegno a sostenere e la aiuta a fare emergere da dentro di sé energie e fiducia in se stessa e nelle proprie possibilità e capacità di guarigione.
Inoltre mi incoraggia sapere che posso recitare Daimoku per quella persona e i suoi cari e che, attraverso di me, quella persona sta creando un legame con il Gohonzon.

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“Myo significa rivitalizzare”

esperienza di Marta Lasen, Milano

Incoraggiata dalle parole del maestro Ikeda, Marta ha affrontato la sfida dell’anoressia stabilendo come base della sua vita la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo e l’attività buddista da cui trae nutrimento, ritmo ed energia. In questo modo ha risolto la relazione con i genitori e ha trasformato il suo “deserto interiore” in un terreno fertile dove oggi tornano a fiorire sogni e obiettivi, primo tra tutti, incoraggiare ogni giovane a vivere a pieno la sua vita

Ho incontrato la pratica buddista a ventitré anni, grazie a mia zia, quando pur non sapendo nulla di Buddismo andai al Centro culturale per il Gongyo di Capodanno. Nonostante la giovane età avevo già sofferto molto. Mio padre era morto di tumore tre giorni prima del mio diciassettesimo compleanno. Anche se ero la più piccola di casa, decisi comunque che sarei stata la più forte per sostenere mia madre, visto che mio fratello e mia sorella stavano attraversando grosse difficoltà. Grazie alla corazza della “figlia che non crea problemi”, riuscii a gestire per un po’ un apparente equilibrio. Profondamente però, mi trovavo a fare i conti con la mancanza improvvisa di un padre con cui non ero mai riuscita a instaurare un dialogo. Ero arrabbiata e mi sentivo in colpa per non essere andata in ospedale a salutarlo prima che morisse.
Dopo un anno e mezzo quella corazza iniziò a cedere: smisi di andare a scuola e, soprattutto, di mangiare. Nel giro di due mesi persi dieci chili: ne pesavo ventotto e bevevo un bicchiere di succo al giorno. Quello era il mio unico pasto.
Tra una flebo e l’altra, mia madre dovette fare una scelta estrema: venni ricoverata per sei mesi in una clinica specializzata, lontana da Milano. Fu un periodo buio ma, nonostante la sofferenza, riuscii a creare legami profondi con alcune ragazze ricoverate tanto che, a dieci anni di distanza, la mia compagna di camera di allora ha ricevuto il Gohonzon.
Uscita dalla clinica mi sforzai per rimettere in moto la mia vita, ma l’ombra dell’anoressia non mi lasciava. Sopravvivevo, ma non avevo idea di cosa volesse dire vivere. Il mio ciclo mestruale era interrotto da cinque anni finché, durante quel Capodanno 2009, mi tornò spontaneamente. Nichiren Daishonin scrive: «Myo significa rivitalizzare, rivitalizzare significa ritornare a vivere» (Il Daimoku del Sutra del Loto, RSND, 1, 132).
Dopo cinque mesi di pratica decisi di ricevere il Gohonzon e, incoraggiata dalle parole del presidente Ikeda, mi buttai nell’attività buddista che negli anni è diventata la base della mia vita da cui traggo nutrimento, ritmo ed energia.
Nel 2013 partecipai al Corso giovani europeo al Centro culturale di Trets, in Francia. Mi affidarono l’incarico di referente per le guide personali e, arrivata all’ultimo giorno, mi incoraggiarono a riceverne una anch’io. Ero convinta di non aver nulla di cui parlare, ma mi fidai. Nella guida fui incoraggiata a ripartire dalla preghiera per “nutrire” la mia vita e trasformare il mio deserto interiore in un terreno in cui potessero tornare ad attecchire e sbocciare sogni e obiettivi. Per realizzare questo grande cambiamento, mi fu consigliato di recitare prima di tutto tre milioni di Daimoku: al momento mi sentii molto scoraggiata per la lunga strada da fare, ma decisi comunque di sfidarmi e di fare un milione di Daimoku all’anno fino a raggiungere i tre milioni e vedere cosa sarebbe cambiato.
Intanto, recitando Nam-myoho-renge-kyo i lati rigidi del mio carattere si smussavano, lasciando sempre più spazio al coraggio e alla spontaneità.
La più colpita dal mio cambiamento fu mia madre: proprio lei che aveva fatto la catechista per anni, sbalordita dal potere della pratica buddista iniziò a frequentare gli zadankai e, nel 2015, decise anche lei di ricevere il Gohonzon.
Mentre mi sfidavo per realizzare il mio obiettivo di Daimoku, per me molto difficile, l’odio verso mio padre si scioglieva in compassione: imparai a conoscere la sua storia, a comprendere il suo dolore e anche il suo modo di esprimere l’amore. Se la pratica buddista mi aveva permesso di trasformare completamente la relazione con lui che non era più in vita, allora potevo davvero realizzare tutto! Anche guarire dalla mia malattia, sempre pronta a riemergere. Infatti, così come mi ero privata del cibo, anche nel lavoro, nelle relazioni o in altri ambiti della vita mi privavo della gioia.
Nel maggio 2021 a mia madre vennero trovate delle micro-calcificazioni al seno. Mentre praticavo perché l’esito fosse negativo, rivivevo il karma familiare, la paura di perdere anche mia madre e di risprofondare nell’anoressia. Ma questa volta avevo il Gohonzon, l’allenamento nell’attività della Soka Gakkai e tutto il Daimoku accumulato. Decisi di lottare per trasformare la paura in vittoria e, come dice Nichiren Daishonin, per “scambiare sassi con oro”. La biopsia rilevò che si trattava di un tumore preso appena in tempo. Decisi di sfidarmi ogni domenica recitando cinque ore di Daimoku fino all’operazione.
Davanti al Gohonzon compresi che il corpo è la manifestazione concreta della Buddità, ed è solo attraverso il nostro corpo che possiamo realizzare kosen-rufu. Da quel momento ho davvero scelto di essere felice. Mi sento immensamente fortunata perché ora riesco a comprendere cosa intendesse Toda dicendo che la felicità assoluta è provare gioia per il semplice fatto di essere vivi.
L’intervento di mia madre è stato un successo. Dall’anno scorso ho iniziato a farmi seguire da un nutrizionista e ad accettare, per la mia salute, di mangiare carne e altri cibi che avevo allontanato, oltre a fare attività fisica per imparare a sentire il mio corpo. E da novembre ho già messo su centimetri e chili, costruendo pazienza e rispetto per il mio percorso.
L’anoressia, che una volta era la mia vergogna, è diventata l’origine della mia forza e della donna che ho deciso di essere. Grazie alla pratica buddista ho potuto trasformare l’esperienza della morte in un’esperienza di vita e il mio mondo di Inferno in Buddità. Ne La nuova rivoluzione umana il presidente Ikeda scrive: «La nostra rivoluzione umana ha inizio quando individuiamo l’unico male della nostra vita e decidiamo di eliminarlo, recitando sinceramente Daimoku e sfidandoci per essere vittoriosi» (NRU, 24, 165).
Determino di onorare ogni giorno i “tesori del corpo” recuperando al cento per cento forza e salute. E di utilizzare ogni grammo di energia e di gioia riconquistata per manifestare al massimo il mio potenziale e incoraggiare ogni giovane a vivere a pieno la sua vita. In questo momento estremo, dove imperano guerra e morte, rinnovo con più forza il voto di impegnarmi per portare avanti la visione del mio maestro e costruire la pace.
Nel volume 30 de La nuova rivoluzione umana, il presidente Ikeda scrive: «Sebbene i tempi possano cambiare, se un flusso costante di giovani sale sul palcoscenico di kosen-rufu, il maestoso fiume della Soka continuerà a scorrere senza mai esaurirsi anche nel lontano futuro. […] Giovani! Vi affido la Soka Gakkai. Vi affido kosen-rufu, il mondo intero e il ventunesimo secolo» (NR, 30, 597).

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Il rispetto della sacralità della vita

Cinzia Cattani è una dietista che lavora da anni nell’ambito dei disturbi del comportamento alimentare. Le abbiamo rivolto alcune domande

Quanti tipi di DCA conosciamo?

Cinzia Cattani: I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono descritti nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), pubblicata dall’Associazione degli Psichiatri Americani (APA).
Oltre ai più conosciuti, anoressia, bulimia, binge eating disorder, sono presenti altri disturbi alimentari provenienti dalle classificazioni dedicate all’infanzia, quali pica, disturbo da ruminazione e disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. In continua evoluzione, spesso i sintomi e le manifestazioni perdono i confini delle classificazioni.

È possibile individuare dei comportamenti che lasciano presagire la presenza di un DCA?

Cinzia: Il cambiamento del peso corporeo non è l‘unico indice che può farci pensare a un disturbo del comportamento alimentare.
Altri segnali possono essere: la perdita di naturalezza nel rapporto con il cibo; un‘attenzione particolare a quello che si mangia; l’ansia predittiva rispetto al cibo; manifestazioni di nervosismo e aggressività; l‘isolamento sociale e la perdita di interessi e di entusiasmo; il consumo dei pasti da soli e atteggiamenti ossessivi nel consumare i pasti; l’autolesionismo…

È possibile prevenire i DCA?

Cinzia: Per prevenire i DCA dobbiamo prevenire le cause che li scatenano. Quindi il cambiamento da apportare è sia a livello individuale che sociale.
è necessario avere un’attenzione maggiore all’educazione e a chi ne è responsabile (formazione degli insegnanti). L’educazione alimentare dovrebbe essere curata sin dall’infanzia per comprendere le caratteristiche e le esigenze del nostro corpo, insieme all’educazione a migliorare se stessi e al rafforzamento dell’autostima.
Dovremmo proporre alternative alla ricerca superficiale del piacere immediato valorizzando la ricerca di una felicità duratura libera da condizionamenti illusori.
Se dovessi riassumere in poche parole direi che dovremmo diffondere amore e rispetto della sacralità della vita, fiducia e speranza.

C’è qualche consiglio che vuoi condividere?

Cinzia: Come dietista consiglio di affidarsi ai terapeuti per lavorare con loro e riuscire ad ascoltare i propri bisogni, a dar loro voce e gradualmente a comprendere le proprie necessità sia fisiche che psichiche.
Sviluppando una nuova forma di potere libero, completamente diverso dal potere esercitato sul controllo dei propri bisogni che, portato all’estremo, sfocia in una buia prigione, come sono i disturbi del comportamento alimentare.

E per familiari e amici…?

Cinzia: I genitori spesso sentono un profondo senso di inadeguatezza, sono impauriti dalla veloce trasformazione delle loro figlie/i, e a volte tutto questo sfocia in aggressività più o meno latente.
Relativamente a cibo e diete suggerirei loro di affidarsi a degli esperti: il fai da te generalmente genera più problemi di quanti non ce ne siano già. I figli rimproverano spesso ai genitori di preoccuparsi più della ripresa fisica che non di come realmente stanno. E questo per loro è molto frustrante. Vorrei incoraggiare i familiari a cogliere l’occasione per approfondire il legame con i loro figli che crescono, per conoscerli meglio, incentivando il dialogo. A migliorare l’ascolto e a diventare essi stessi più forti per sostenere i figli nella crescita.
Agli amici suggerirei di sfruttare l’occasione per approfondire l’amicizia, spesso le relazioni si basano sulla prestazione sociale o sportiva e difficilmente scendono a livelli più profondi: chiediamo ai nostri amici come si sentono, cosa provano…
Ai parenti consiglierei di non dire mai: “Ti sei ripresa/o. Ti vedo meglio” e men che mai: “Finalmente hai ripreso peso”, ma piuttosto “Sono felice di rivederti, mi sei mancata/o molto!”.

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La gioia della rinascita

esperienza di Debora Giannini, Roma

In pieno lockdown, Debora si trova ad affrontare l’insorgere dell’anoressia nervosa di sua figlia. Basandosi sul Daimoku, sul Gosho e l’unità con i compagni di fede, lotta per far emergere una fiducia assoluta. E la svolta è proprio nel riuscire ad abbracciare con profonda compassione il proprio senso di inadeguatezza come madre insieme a quello di sua figli

Quando ho ricevuto il Gohonzon, nel 2013, ho sentito la gioia pura della rinascita. Una consapevolezza profonda del potenziale infinito della mia vita. Prima di iniziare a praticare il Buddismo, la mia vita era una corsa estenuante, una fatica costante per “fare”, dimenticandomi di “essere”.
Nel mio cuore si nascondeva una profonda sfiducia in me stessa e negli altri. E nel mio correre, cercavo di celare un intimo senso di inadeguatezza.
Solo iniziando a recitare Daimoku davanti al Gohonzon, ho percepito che dentro di me c’era una torre preziosa.
Il primo Gosho che ho voluto approfondire è stato proprio La torre preziosa: una notte che non riuscivo a dormire, l’ho letto nel buio della stanza, ed è stato come sentire che Nichiren Daishonin lo leggeva per me. Anche io ero Abutsu-bo, fatta della stessa materia dell’universo: acqua, terra, fuoco, aria, vento e spazio. Sentendo quella “torre preziosa” dentro di me ho cominciato a percepirla chiaramente anche negli altri, in tutti e in tutte le relazioni, anche con i loro inciampi o incomprensioni temporanee.
Ma la mia rivoluzione umana, anche come madre, è passata da un’esperienza di profonda sofferenza: l’anoressia nervosa della nostra figlia più piccola.
È cominciato tutto in sordina, subdola come sa essere una malattia mentale.
Eravamo in lockdown. Io più vicina a mia figlia, e nonostante questo non ho voluto cogliere i primi segnali del disturbo. Credo sia istintivo per un genitore rifiutare la malattia e la sofferenza di un figlio. Sei portato a pensare che a tuo figlio non possa succedere. Non debba succedere. Dopo una dieta estiva ferrea che io cercavo di arginare come potevo, senza contrastarla veramente, Marta è arrivata a pesare trentasette chili e a quel punto mi sono decisa ad affrontare la realtà, ho capito che avevamo bisogno dell’aiuto di specialisti. Marta ha iniziato un generico percorso di psicoterapia che l’ha aiutata ad arginare il disturbo, ma solo in superficie. Ha riacquistato peso ma era ancora in un labirinto. Ho iniziato a fare più Daimoku e più intensamente, con la determinazione di percepire chiaramente quello che aveva nel cuore e cosa dovevo fare.
Ho sentito davanti al Gohonzon che la sua mente era prigioniera e ho determinato di trovare i medici giusti. Dopo tante ricerche, praticando per non scoraggiarmi, ho capito che la strada giusta era ricorrere al Centro Disturbi Alimentari della nostra ASL.
Sono profondamente grata dell’accoglienza e della professionalità che abbiamo trovato, in un servizio pubblico che spesso disprezziamo. A gennaio è iniziato il percorso di terapia farmacologica, medica e psicologica per Marta e per noi genitori. È iniziata la vera salita, ma non ho mai perso di vista la vetta.
Proprio all’inizio del percorso terapeutico, con il settore abbiamo lanciato una nuova iniziativa: praticare insieme, anche se a distanza, tutte le mattine, dalle 6:30 alle 7:30. Recitare Nam-myoho-renge-kyo con costanza, unita ai miei compagni di fede, al mattino, sfidando il sonno e le cose da fare, ha fatto scaturire in me una nuova forza. Quando recitavo Daimoku, con la voce rauca del mattino, pensavo al ruggito di Sensei, sentivo un coraggio senza limiti. Sapevo che non sarei stata sconfitta, che Marta non sarebbe stata sconfitta.
Ho cambiato il mio ichinen, la mia determinazione in tutte le attività e sono riuscita a condividere la mia sofferenza con le mie compagne di fede, io che ho sempre fatto fatica ad aprirmi. Ho condiviso con loro l’obiettivo che mia figlia guarisse e il voto di incoraggiare con la nostra vittoria altri genitori che vivevano la dolorosa esperienza dell’anoressia.
Il Daimoku in unità con i compagni di fede è stato fondamentale nei giorni più bui, quando la malattia parlava e agiva al posto di Marta.
In parallelo, ho determinato di leggere tutti i giorni il Gosho L’offerta del riso e la spiegazione di Sensei.
«Nemmeno i tesori dell’intero sistema maggiore di mondi possono uguagliare il valore del proprio corpo e della propria vita. […] La vita è come una lampada e il cibo come l’olio, quando il cibo è finito la fiamma si spegne e senza cibo la vita si interrompe. […] Le persone comuni tenendo a mente le parole determinazione sincera diventano Budda» (RSND, 1, 997).
Leggevo e rileggevo tutte le mattine questo incoraggiamento per sentire quella determinazione sincera che Sensei spiega così bene come: il “cuore che crede, orientato nella direzione corretta, volontà, sincerità, premura”. Basare la mia mente sul mondo di Buddità.
Sentire la Buddità di Marta anche quando il suo sguardo era altrove, velato dalla malattia, profondamente triste.
Sentire, io per prima, la gioia di vivere e la premura mentre tornavo a prepararle tutti i pasti come quando era piccola. Sentire che Marta non era la sua malattia. Combattere la malattia con fiducia assoluta in Marta e in me come madre. Non giudicarla quando cadeva, apprezzare il suo sforzo e non le sue performance, e lo stesso fare con me stessa.
La svolta è stata proprio quando ho sentito che a quel senso di inadeguatezza che aveva spinto Marta nell’anoressia era collegato il mio sentirmi inadeguata come madre.
Ho vissuto davanti al Gohonzon una nuova profonda compassione per lei e anche per me.
Simultaneamente ho deciso che avrei vissuto un’esperienza positiva per incoraggiare i genitori che frequentavano con me l’incontro settimanale con i terapeuti della ASL.
Sono tornata a fidarmi di me stessa in ogni gesto, in ogni parola, in ogni silenzio che sceglievo per starle accanto davvero.
Una domenica mentre preparavo il “riso brillato” per Marta, lei mi poneva le solite domande ansiose sul cibo e io l’ho guardata in modo nuovo, forte e sereno e le ho detto di allontanarsi, che doveva fidarsi di me! L’ho detto in un modo che l’ha convinta davvero.
È uscita e, subito dopo, è rientrata per abbracciarmi e dirmi: «Grazie, ti voglio bene, mamma». Quell’abbraccio è stata la nostra vittoria. Sono riuscita a raccontare questa esperienza a trenta genitori che non conoscevo, concludendo: «Fidiamoci di noi stessi».
Ci siamo commossi insieme e ho provato una profonda gioia. È la gioia delle gioie, accendere una lampada per gli altri e, così, tenere ben illuminato anche il proprio cammino. Marta ha festeggiato, qualche giorno fa, il suo primo piatto di pasta con le polpette, dopo due anni. Ad oggi il suo percorso non è ancora terminato, ma so che abbiamo già vinto. Sono grata a Marta, sono grata ai medici, ai miei compagni e al mio maestro.
Ai nostri tre maestri, da cui imparo ogni giorno il rispetto e l’apprezzamento per la vera natura di Marta, il rigore che serve come genitore, la forza del dialogo sincero, la gioia di vivere con il voto per kosen-rufu nel cuore.

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