Il Forum “Unity in Diversity” dal 5 all’8 novembre ha visto in Palazzo Vecchio la partecipazione di ottanta sindaci da sessanta paesi del mondo, soprattutto da zone di guerra. I quattro giorni di intenso dialogo sui temi della pace, della cultura e delle diversità, voluti dal sindaco di Firenze Dario Nardella hanno riunito non solo sindaci, ma anche premi Nobel (tra cui il Quartetto di Tunisi, Shirin Ebadi, Tawakkol Karman, Wole Soyinka) e tanti protagonisti del mondo del giornalismo, della cultura, della finanza e della scienza.
«Ogni grande idea – ha detto il primo cittadino di Firenze – non può che camminare sulle gambe delle persone e per questo i sindaci e i cittadini ricoprono un ruolo fondamentale nel condurre e sviluppare progetti di portata internazionale». Le città quindi come sintesi di convivenza di etnie, religioni e culture differenti e per questo possono farsi promotrici di una politica di pace volta a proteggere il reciproco patrimonio culturale e a costruire ponti che riducano le distanze fra le istituzioni locali e quelle internazionali. E a Daisaku Ikeda, «una persona che ha sempre operato credendo nel ruolo della cultura per la promozione del dialogo e della pace tra i popoli» ha chiesto di inviare un messaggio, «vista la grande relazione che lega la città di Firenze a lui e alla Soka Gakkai» (il Fiorino d’oro nel 1992 e il Sigillo della pace nel 2007). Nel testo integrale che segue il presidente Ikeda, a nome di tutti i membri SGI, condivide pienamente ideali e obiettivi del Forum: sottolineando come gli scambi in ambiti culturali ed educativi abbiano il potere di collegare le persone a un livello più profondo e possano così creare, anche in una dimensione interreligiosa, unità nella diversità.
Permettetemi di offrire a tutti i partecipanti presenti oggi al Forum internazionale “Unity in Diversity” un messaggio di solidarietà accompagnato da un sentimento di profondo rispetto.
Prima di tutto, esprimendo la mia profonda riconoscenza all’onorevole sindaco di Firenze Dario Nardella e all’assessore alla cooperazione e alle relazioni internazionali Nicoletta Mantovani, come anche ai rispettabili cittadini di Firenze, vorrei parlare di un importante evento che sta avendo luogo in questo momento nel mio paese.
A Kyoto, l’antica capitale del Giappone che ha appena celebrato il cinquantesimo anniversario del suo gemellaggio con Firenze, è stata allestita la mostra Leonardo da Vinci e la Battaglia di Anghiari: il mistero della Tavola Doria. La mostra è stata organizzata dal Museo d’Arte Fuji di Tokyo, da me fondato, ed è stata resa possibile grazie alla straordinaria cortesia della Repubblica Italiana, che ha permesso che i suoi tesori nazionali venissero esposti in Giappone, come anche al preziosissimo sostegno che abbiamo ricevuto da numerose persone e organizzazioni in vari paesi. La mostra girerà diverse città del Giappone come uno degli eventi speciali dedicati allo scambio culturale organizzati dal museo.
In questi giorni nella storica capitale dell’Oriente migliaia di cittadini di ogni estrazione sociale contemplano quotidianamente, a distanza di cinquecento anni dalla loro creazione, alcuni dei tesori più grandi dell’arte occidentale traboccanti dello spirito del Rinascimento: la Tavola Doria, che riprende la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (1452-1519), e la copia della Battaglia di Cascina di Michelangelo Buonarroti (1475-1564), due opere che un tempo si immaginava avrebbero adornato le pareti del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio.
Gli scambi in ambito culturale ed educativo hanno il meraviglioso potere di collegare le persone a un livello intimo e profondo e di elevare la loro esistenza verso sommità più alte, trascendendo il tempo e la distanza e persino le differenze etniche e religiose.
L’anima gioisce quando scopre un mondo diverso dal proprio, lo comprende ed entra in risonanza con esso. L’incessante susseguirsi di simili scambi sviluppa e approfondisce un ethos di rispetto e stima per ciò che è davvero buono e bello, caratteristica che il grande storico dell’arte Giorgio Vasari (1511-1574) con acume attribuiva a Firenze, il centro da cui si irradiò e fiorì lo spirito del Rinascimento.
E proprio come ci mostra la storia del Rinascimento, io credo che quando sviluppiamo un dialogo con altre civiltà, traendone ispirazione e insegnamento, scaturiscano dalla nostra esistenza valori nuovi e dinamici.
Sin dall’antichità le religioni, ciascuna a suo modo, sono state l’humus di quella vitalità spirituale e intellettuale dalla quale sbocciano i fiori rigogliosi e variegati della cultura e dell’educazione.
Ho sempre creduto che gli scambi in ambito culturale ed educativo diano l’opportunità di creare forum di dialogo aperto e nel contempo possano eliminare quel tipo di dogmatismo moralista che conduce a infruttuosi conflitti faziosi. Io sono solo una delle innumerevoli persone che spinte da tale convinzione hanno continuato a intraprendere iniziative del genere.
Nel nostro mondo di oggi nessuna comunità o società può esistere isolata, scollegata dalle altre. Credo che non sia esagerato affermare che non è più possibile costruire una vita individuale uniformandosi solo alle usanze della propria religione, come forse è successo in passato. Al contrario, le interazioni quotidiane nella società a livello locale tra persone provenienti da diverse tradizioni religiose portano spontaneamente a un dialogo interreligioso.
Come possiamo dunque alimentare un dialogo interreligioso costruttivo? Ritengo che una chiave importante sia, per ogni religione, il ritorno allo spirito originario.
Josei Toda (1900-1958), il secondo presidente della Soka Gakkai e mio maestro di vita, fu un uomo coraggioso dal credo e dalla convinzione incrollabili. Sostenuto dalla filosofia buddista del rispetto per la sacralità della vita, rimase saldo nonostante avesse sopportato due anni di prigionia per aver affrontato il regime militare giapponese durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra si dedicò all’educazione dei giovani sostenendo il principio della cittadinanza globale e la sua visionaria idea della “rivoluzione umana”, la convinzione che una trasformazione positiva nella vita di ogni individuo possa generare una grande corrente di cambiamento nella società e nel mondo.
Amava fantasticare che se i fondatori originari delle principali religioni come Shakyamuni, Gesù Cristo e Maometto si fossero riuniti in una stanza per una conferenza, avrebbero presto trovato un’intesa comune. In questa conversazione immaginaria probabilmente i grandi maestri avrebbero discusso animatamente sui metodi con i quali condurre le persone alla felicità. Avrebbero trovato un immediato punto di incontro nel loro grande desiderio di liberare il genere umano dall’infelicità e indubbiamente si sarebbero uniti nel perseguire la felicità delle persone e la pace nel mondo.
Quando saremo in grado di concepire e comprendere veramente i desideri e le azioni per la felicità delle persone dei grandi precursori delle varie religioni, e di eliminare nelle generazioni future il dogmatismo intollerante che ancora persiste, credo che si spalancherà sconfinato davanti a noi l’orizzonte dell’amore universale per l’umanità.
In particolare, in quest’epoca di globalizzazione le religioni devono trascendere le loro differenze e trovare una base comune. E io credo che ciò sia possibile. Dico questo perché si tratta di una aspirazione originariamente innata nella saggezza di ogni religione mondiale.
Per darvi solo qualche esempio: Martin Luther King Jr. (1929-1968) dichiarò: «Siamo tutti presi in una rete ineludibile di mutualità. […] Siamo fatti per vivere insieme a causa della struttura interconnessa della realtà», mentre Martin Buber (1878-1965), filosofo ebreo, proclamò: «Ho bisogno di un Tu per divenire: diventando Io, dico Tu. Ogni vita reale è incontro».
Questi pensieri risuonano profondamente nel concetto buddista dell’”origine dipendente”. Il Buddismo percepisce questo mondo come una rete multidimensionale di interconnessioni e interrelazioni mistiche tra tutte le forme di vita. Tutti gli esseri e i fenomeni esistono o si manifestano solo grazie alla loro relazione con altri esseri o fenomeni. Niente esiste in isolamento, indipendentemente da altre vite. Questa saggezza intuitiva trova un chiaro riscontro nella biologia come anche in moderne scoperte scientifiche.
Il principio dell’origine dipendente che permea la storia del Buddismo trova la sua perfetta manifestazione nelle azioni compassionevoli.
La parola giapponese per “compassione” è jihi, che è composta di due caratteri cinesi: ji, che deriva dal pali e dal sanscrito e significa “amicizia sincera” o “cuore di puro amore e affetto”; e hi, che ugualmente significa “compassione” – lo spirito di empatia per le sofferenze degli altri – e “misericordia”.
Lo spirito di compassione trova la sua manifestazione nelle azioni altruistiche volte a comprendere le sofferenze e le angosce di tutte le persone immedesimandosi in esse e impegnandosi insieme per superarle. Come viene spiegato nel Sutta-nipata, una delle scritture buddiste: «Così come una madre darebbe la vita per proteggere il proprio figlio, il suo unico figlio, così dovremmo sviluppare un cuore sconfinato per tutti gli esseri».
Questo spirito di compassione si è sviluppato nell’ahimsa, che è l’essenza della nonviolenza, in quanto principio della dignità della vita, ed è al primo posto tra i princìpi etici buddisti. Ad esempio, la scrittura buddista Dhammapada dichiara: «Tutti tremano di fronte alla violenza; a tutti è cara la vita. Mettendoti nei panni degli altri, non uccidere mai né sii causa di uccisione».
“Mettersi nei panni di un altro” esprime lo spirito di profonda empatia verso coloro che potrebbero essere danneggiati e uccisi. Il veto di uccidere è la base da cui deriva la teoria della pace nel Buddismo.
È inoltre un fatto storicamente ben noto che il re Ashoka (304 a.C.-232 a.C.) dell’antica India, grazie al rimorso che provò per la tragedia causata dalla guerra che aveva intrapreso, applicò l’etica dell’ahimsa nel governo del suo popolo garantendo la libertà di religione. In India questo principio fu ereditato dal Mahatma Gandhi (1869-1948), il grande campione della nonviolenza.
Lo spirito di compassione e ahimsa è un nobile principio che sostiene la dignità della vita ed è di natura equivalente alle virtù dell’amore per l’umanità, per il prossimo, e per tutti gli esseri viventi predicate dalle altre religioni mondiali.
Sento una profonda sintonia con la recente dichiarazione di Papa Francesco, che ha lanciato un avvertimento riguardo alla natura dell’economia moderna: «Com’è possibile che non faccia notizia se un anziano senzatetto muore per assideramento, ma fa notizia se il mercato azionario perde due punti?».
Le grandi religioni dichiarano la dignità interiore di ogni vita umana e la preziosità di ogni singolo individuo ed esprimono l’empatia verso gli altri come una verità universale, manifestandola in azioni per la salvezza del genere umano.
Nel nostro mondo contemporaneo l’umanità ha davanti a sé innumerevoli problematiche su scala globale. Solo agendo insieme possiamo affrontarle e sfidarle.
Il Buddismo insegna che la via del bodhisattva – chi si impegna a superare i problemi dell’umanità dimostrando le due virtù della saggezza e della compassione nella propria vita e mettendo gli altri nella condizione di fare altrettanto – è una vita di autentica felicità e gioia.
Nichiren (1222-1282), il maestro buddista giapponese del tredicesimo secolo di cui i membri della SGI abbracciano gli insegnamenti, definisce così il termine “gioia” enunciato nel Sutra del Loto: «”Gioia” significa che se stessi e gli altri insieme provano gioia. […] Allora sia se stessi che gli altri insieme troveranno gioia nel possesso della saggezza e della compassione».
La saggezza sopracitata è la profonda comprensione dell’origine dipendente e la sua applicazione è la pratica altruistica della compassione.
Questa filosofia è inoltre coerente con il concetto dei diritti umani, perché i diritti umani implicano l’empatia verso le persone e i loro diritti.
La cosa più importante da ricordare è che non sono le persone che esistono per il bene della religione bensì è la religione a esistere per il bene delle persone.
Continuiamo a impegnarci nel dialogo con indomita perseveranza per costruire e rafforzare la nostra solidarietà di “religioni per il bene delle persone”.
Cosa dovrebbero fare ora i diversi credi religiosi per i giovani che vivranno nel futuro? Cosa possono fare le religioni? Dovremmo sinceramente condividere tra noi questi interrogativi mentre raccogliamo insieme la nostra compassione e la nostra saggezza e creiamo l’”unità nella diversità”. Questa è la mia profonda determinazione personale.
Prego affinché i fiori della creatività umana continuino a sbocciare e a diffondersi senza sosta dalla mia amata terra di Firenze.