Ho sentito profondamente che anche se fossi rimasta tutta la vita così, avrei potuto comunque vivere bene ed essere felice, che potevo guarire l’indomani, ma anche riammalarmi il giorno dopo e che quindi, al di là di questo, dovevo godermi ogni momento
Ho iniziato a praticare il Buddismo di Nichiren Daishonin a ventun anni, a pochi mesi dalla morte di mia madre. Recitare Daimoku in quel momento mi consentì di “ammorbidire” il dolore e di sostenere tutta la mia famiglia. Dopo poco tempo, mio padre e mia sorella sono diventati membri e tutt’ora si dedicano a kosen-rufu. Mi sono sempre impegnata nelle attività giovani della Soka Gakkai, realizzando così grandi vittorie in tutti gli ambiti della mia vita.
Nel 2009 partecipai al corso mondiale giovani in Giappone, al quale era presente il presidente Ikeda. Lì promisi a sensei di diventare completamente felice, di non scendere più a compromessi e di prendermi cura di me.
Una volta rientrata, decisi di chiudere la relazione con la persona con cui convivevo da oltre sei anni. È stato un momento molto difficile e doloroso, voleva dire rimettere in discussione tutta la mia vita. Sentivo che l’unico punto fermo era il Gohonzon, ma soffrivo tantissimo e a fine 2010 iniziai ad avere problemi alla bocca. Me ne accorsi proprio pregando: il mio Daimoku era diverso.
Nel 2011 ho iniziato a fare i primi controlli. I medici non capivano cosa avessi, ipotizzando diagnosi gravi, come i primi sintomi di malattie di tipo degenerativo. Nel frattempo non riuscivo più a fare nemmeno le cose più “elementari” come parlare o mangiare. Inoltre avevo serie difficoltà a pregare, ma cercai di non scoraggiarmi e, siccome recitare da sola mentalmente era molto difficile, feci moltissime visite a casa alle giovani donne di cui ero responsabile. Questo mi permise di fare un Daimoku mentale più centrato e di non rimanere concentrata solo sulla mia situazione ma, incoraggiata dall’esempio di sensei, di aprire la mia vita e lottare insieme a chi stava affrontando come me diverse difficoltà.
Nonostante questo, mi chiedevo come potevo risolvere la malattia se non riuscivo a pregare, azione fondamentale nel nostro Buddismo. E mi ritrovai a pensare che la pratica corretta racchiude anche altri aspetti: l’offerta per kosen-rufu, lo studio e la pratica per gli altri. Mi concentrai, quindi, su questi per farne davvero il motore della mia rivoluzione.
Tra il 2011 e 2012 ho fatto tantissime visite specialistiche e, proprio perché non avevo una diagnosi specifica, pagavo ogni cosa. Non ho mai smesso di fare l’offerta, perché desideravo ripagare il debito di gratitudine e, grazie a questo, ho avuto tantissimi benefici: ho incontrato medici meravigliosi che mi hanno incoraggiata e che, viste le continue visite di controllo, hanno smesso di farmele pagare.
Forte delle mie nuove consapevolezze, ho iniziato ad approfondire con spirito rinnovato il Gosho e le guide di sensei. Leggevo tutti i giorni la spiegazione di Katuji Saito, responsabile del Dipartimento di studio, su Il prolungamento della vita e questo mi dette la possibilità di riflettere sul concetto di sacralità della vita stessa. Capii che anche solo un giorno in più aveva un valore inestimabile e quindi valeva la pena viverlo nel migliore dei modi. Così trovavo la forza per ripartire. Sebbene il problema continuasse a persistere, non ho mai pensato di essere sfortunata. La malattia, come dice Saito, ha la funzione di indebolire la forza vitale e fisica e ci porta a nutrire dubbi. Perciò non mi sono mai arresa e ho sempre lottato incoraggiata anche dalla frase di Nichiren che dice: «Sii profondamente convinta che la tua malattia non può durare e che non è possibile che la tua vita non venga prolungata! Prenditi cura di te e non affliggere la tua mente» (L’arco e la freccia, RSND, 1, 585). Desideravo metterla in pratica per sperimentare il principio secondo cui “il veleno si trasforma in medicina”.
Il problema era capire cosa avessi! Nessuno dei tanti specialisti incontrati sapeva darmi una diagnosi, ma io volevo risolvere e guarire, anche perché mia madre è mancata all’età di quarantadue anni a causa di una malattia molto rara. Una notte, pensando alla sua morte, decisi che sarei guarita, che avrei vissuto bene anche per lei, certa che la mia trasformazione avrebbe cambiato anche questo aspetto della sua vita, che si stava ripresentando nella mia.
Nel frattempo continuavo a svolgere il mio lavoro che, essendo a stretto contatto con il pubblico, era diventato molto stressante: alcune volte avevo paura di non riuscire a rispondere e le mie colleghe lo facevano per me. La mia difficile situazione si era ulteriormente complicata perché, alla fine del 2011, senza alcun motivo legato al lavoro, ero stata trasferita in un altro punto vendita e costretta a rinunciare alla promozione.
Oltre alla pratica personale, ho continuato a portare avanti quella per gli altri come responsabile di regione giovani donne, non risparmiandomi neppure nei momenti più bui e creando profondi legami. Nel 2013, una giovane donna ha avuto un problema di salute per il quale non poteva pregare. Condividere la stessa lotta mi ha dato ancora più forza nella decisione di vincere e mi ha permesso di fare un’esperienza di fede insieme a lei.
Incoraggiata da una responsabile nazionale decisi di scrivere a sensei per raccontargli quello che stavo vivendo, di andare fino in fondo e fare la risonanza magnetica all’encefalo, esame che nessun neurologo mi voleva prescrivere, perché per loro ero sana. In realtà mi spaventava terribilmente farlo, perché si sarebbe potuta evidenziare una delle malattie gravi che era stata ipotizzata.
L’esito fu negativo. Mi sentivo allo stesso tempo contenta perché avevo vinto su una mia paura e spaesata perché non sapevo contro cosa stavo lottando e quale era la cura. Da lì sono ripartita ancora una volta.
Mi misi in malattia. Mettere questa azione voleva dire accettare il fatto che ero malata, che dovevo veramente prendermi cura di me. Impiegai il mio tempo libero per fare tanta attività, anche per la mostra Senzatomica, che sarebbe iniziata a breve, e a coltivare le mie passioni. Tutto questo l’ho fatto nonostante i momenti di sofferenza. Ho sentito profondamente che anche se fossi rimasta tutta la vita così, avrei potuto comunque vivere bene ed essere felice, che potevo guarire l’indomani, ma anche riammalarmi il giorno dopo e che quindi, al di là di questo, dovevo godermi ogni momento.
In concomitanza con l’inaugurazione della mostra, a dicembre del 2013, sono tornata al lavoro, anche se non stavo del tutto bene. La svolta c’è stata a fine dicembre, in occasione della consegna dei Gohonzon. Nonostante stessi malissimo, raccolsi tutto il mio coraggio e raccontai ciò che stavo vivendo e il primo gennaio, dopo tre anni, guidai Gongyo di Capodanno al Centro culturale di Cagliari.
Sentii che se non avessi ripreso a parlare bene, di fatto non avrei potuto parlare liberamente agli altri di Buddismo. La sera stessa riuscii a farlo con una donna come non mi capitava da anni. Nel giro di pochi giorni con lo stupore di tutti, compreso il mio, ho ripreso a parlare sempre meglio e ora sembra quasi non abbia mai vissuto quei momenti.
Questo periodo di lotta mi ha permesso di sbocciare come donna, di aprire la mia vita. Sono diventata più forte, ho imparato ad andare fino in fondo e che, se quello che c’è in fondo non mi piace o è doloroso, ho comunque tutte le capacità per trasformare e superare qualsiasi cosa grazie alle fede.
A distanza di tempo, il mio spostamento nell’altro punto vendita si è rivelato una grandissimo beneficio, perché il negozio da cui sono stata trasferita è stato chiuso al pubblico a causa della crisi e io sarei stata sicuramente licenziata!
Non ho ancora scoperto che tipo di malattia ho avuto e non nego che qualche volta ho paura che si possa ripresentare, ma questa difficoltà mi ha permesso di sperimentare che ogni attività per kosen- rufu, fatta con il cuore e con tutto ciò che puoi offrire, ha lo stesso valore della preghiera e che la condivisione della lotta e il sostegno dei compagni di fede è fondamentale. Per questo ringrazio la mia famiglia, chi mi è stato vicino e tutte le giovani donne, che mi hanno permesso di lottare con loro e mi hanno sostenuto.
A venti giorni dalla mia guarigione ho ricevuto un regalo e una lettera del presidente Ikeda dove mi diceva che aveva pregato per la mia salute e la mia completa guarigione e che dovevo prendermi cura di me. In Giappone ci hanno detto che lui è il nostro maestro perché sa cosa c’è nel nostro cuore e ancora una volta me l’ha dimostrato. Sensei prega per noi sempre, ma la lotta dobbiamo condurla noi, dobbiamo prenderci la responsabilità di diventare felici e grazie alla nostra vittoria permettere anche alle altre persone di fare lo stesso.