In ogni gruppo ci sono persone diverse, ognuna con le sue esperienze e il suo vissuto. Come uno scrigno che contiene una varietà infinita di gioielli, uno diverso dall’altro, ma di pari valore
“Diversi corpi, stessa mente”… siamo tutti diversi, ma con obiettivi comuni. La bellezza del Buddismo è il rimanere se stessi senza appiattirsi e nello stesso tempo lottare con uno scopo comune: la serenità personale e la pace nel mondo. Chi pratica da un po’ di tempo avrà senz’altro sentito parlare di questo principio, conosciuto in giapponese come itai doshin, tanto facile da capire quanto difficile da mettere in pratica.
Tempo fa io stessa mi sono trovata ad affrontare un problema, apparentemente banale, inerente all’unità in un gruppo e, nonostante i miei trentatré anni di pratica, è stato molto più difficile di quanto pensassi. Non ero pronta e, soprattutto, “non era colpa mia”.
Ho sperimentato sulla mia pelle cosa vuol dire che gli ostacoli «emergono in maniera disorientante», come scrive Nichiren. E io infatti ero disorientata.
Insoddisfatta per non essere riuscita a gestire il problema, molti pensieri negativi si affacciavano alla mia mente. Era una lotta con me stessa: la mia capacità di giudizio era offuscata dall’emotività e sentivo l’urgenza di ritrovare la giusta direzione. Per questo leggevo Le quattordici offese, dove il Daishonin scrive: «La colpa di pronunciare una sola parola sprezzante contro chi abbraccia e predica il Sutra del Loto, che sia un monaco o un laico, è più grave della colpa di insultare direttamente il Budda Shakyamuni. […] Perciò tieni a mente queste parole e non dimenticare che coloro che abbracciano il Sutra del Loto non dovrebbero, per nessun motivo al mondo, insultarsi l’un l’altro, perché chi ha fede nel Sutra del Loto diventerà sicuramente un Budda e chi offende un Budda commette una grave colpa» (RSND, 1, 670).
Mi sforzavo, leggendo, di distogliere il pensiero dal criticare, ma meccanicamente, senza una comprensione profonda. Non lo dovevo fare e basta. Superficialmente, vedevo questo Gosho proiettato in un Giappone del tredicesimo secolo, così lontano nel tempo, dove scuole buddiste di ogni tipo imperversavano sulla povera gente di allora che, oltre a essere sfruttata materialmente, era in perpetua confusione su quale fosse l’insegnamento corretto da seguire.
Era chiaro il motivo sul perché Nichiren li ammonisse così: ne andava di mezzo la loro sopravvivenza nel vero senso della parola. Mi rimaneva difficile farne un concetto moderno, da applicare oggi.
Passavano i mesi, sempre con questo senso di irrisolto, e con in più la sensazione che in ogni momento poteva accadere di nuovo e io non avrei saputo gestire la situazione, senza scivolare ancora nel giudizio negativo.
L’aiuto nelle parole di Toda
L’estate scorsa ho deciso di leggere nuovamente La rivoluzione umana con lo scopo di capire la profondità del pensiero del secondo presidente Josei Toda.
Da allora ho iniziato a leggere almeno un volume al mese, per rinfrescare la mia fede e ritrovare quell’entusiasmo iniziale che tanti anni di pratica possono indebolire. Ero sicura di trovare la risposta al mio cruccio, aspettavo solo di leggere la pagina giusta per me, come mi era già successo altre volte.
Arrivata al secondo volume, precisamente al capitolo “Radici”, mi si è spalancato un mondo nuovo, un modo di attualizzare il concetto di unità descritto nel Gosho. Gli occhi di Toda guardavano al 1947, un anno tra i più tremendi per il Giappone, nel quale la popolazione versava in condizioni spaventose e le religioni tradizionali e quelle più recenti andavano incontro a continue scissioni e frazionamenti. In questo contesto così caotico – che possiamo riscontrare anche al giorno d’oggi -, Toda cercava di immaginare quale potesse essere la struttura più adatta per costruire la Soka Gakkai per non cadere vittime di dispute interne, come succedeva a tutte le altre organizzazioni, religiose o no.
In base a questa sua riflessione sulla disunità che regnava in ogni dove, Toda un giorno decise di parlarne direttamente con i responsabili: «Nessuna organizzazione oggi può sfuggire a questo genere di problemi […]. L’unica associazione che può sfuggire a questo destino è la Soka Gakkai, per la semplice ragione che è l’unica che si fondi sugli insegnamenti del Daishonin. Noi possiamo conservare la nostra unità perché la nostra fede è la piattaforma su cui poggia la nostra organizzazione. […] Io mi sto sforzando in ogni modo di realizzare questo obiettivo, ma il requisito essenziale è una forte fede» (RU, 2, 157). I presenti ascoltavano perplessi, pensando che non c’erano accenni di disarmonia all’interno dell’organizzazione. E inoltre dato che la soppressione della Soka Gakkai durante la guerra fu operata dal governo militare e non originò certo da problemi interni, non capivano perché Toda fosse quasi irritato con loro.
Mentre leggevo, ho avuto la sensazione di essere lì con gli altri responsabili e che Toda, guardando i presenti attraverso le sue spesse lenti, si rivolgesse anche a me: «Può darsi che adesso non riusciate a capire perché io vi stia parlando di queste cose, ma ricordate bene: se solo dovesse accadere il minimo contrasto al nostro interno, dovuto al fatto che qualcuno dimentica lo scopo ultimo della nostra associazione, e si dovesse giungere a una spaccatura, la Soka Gakkai sarebbe destinata a scomparire. […] Non basterà certo ripetere “unità, unità” per svilupparla davvero. Per mantenere una salda unità occorre avere radici profonde, ovvero una forte fede e un autentico senso di missione. Se ognuno di voi avanzerà sforzandosi di manifestare tutto il proprio potenziale perseguendo allo stesso tempo il nostro obiettivo comune, l’unità si rafforzerà naturalmente. Allora non dovremmo temere più niente al mondo» (Ibidem, 158-159).
“Radici profonde… forte fede… e autentico senso di missione”, ecco la chiave per procedere uniti. Leggo queste parole e capisco un po’ di più, aggiungo un tassello alla mia comprensione. Continuo a leggere.
«Voglio ribadire una cosa – continua Toda – rivolta allo sviluppo della nostra organizzazione in futuro. Può darsi che pensiate di essere devoti nella fede e in effetti ritengo che sia così, ma non dovete mai dimenticare quale sia la vostra missione di leader all’interno del nostro movimento. In termini concreti, se fra noi dovesse nascere una seppur minima forma di contrasto, le radici del nostro movimento non sarebbero più indistruttibili. Riuscite a seguirmi? Dovete cercare per tutta la vita di approfondire la vostra fede, senza smettere mai. Non si può realizzare una salda unità solo a forza di idee e di allenamento mentale» (Ibidem, 159).
«Se fra noi dovesse nascere una seppur minima forma di contrasto…» era proprio quello che era successo nel gruppo. Un piccolo contrasto che aveva scatenato una reazione smisurata. Mi viene in mente che anche una piccola crepa può mettere in pericolo la stabilità di una casa. Ciò che era accaduto non era da sottovalutare, ma da trasformare, subito. E ho chiara una cosa fondamentale: senza unità non ci può essere propagazione. Se non siamo uniti tutti i nostri sforzi per kosen-rufu saranno completamente inutili, infatti un movimento disunito all’interno non ha nessuna credibilità. Ricercare questa unità è la base per espandere il nostro movimento.
«Perché il presidente Ikeda sottolinea così tanto l’unità di itai doshin per il futuro della SGI?», scriveva Katsuji Saito. «Nel mondo di oggi le differenze tra le religioni stanno creando grandi conflitti – negando così il concetto stesso di religione – e stanno diventando la causa per la distruzione dell’umanità. Ikeda ritiene che la SGI possa svolgere la funzione di connettere tra loro le varie religioni promuovendo il dialogo interreligioso per costruire la pace nel mondo. In tali azioni la SGI può esprimere al meglio le sue capacità. Questa è la grande visione del nostro maestro, e noi discepoli dovremmo condividerla.[…]. È naturale a volte sentire irritazione o insofferenza gli uni verso gli altri, soprattutto quando si è sotto pressione. Ma bisogna parlarne apertamente. La chiave di itai doshin è il coraggio di dialogare» (BS, 136, 2). Questa nuova consapevolezza ho cercato di riportarla sia nel gruppo che nella mia vita. Queste erano le risposte che cercavo.
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Unità nella diversità
Nella spiegazione del Gosho Itai doshin, il presidente Ikeda approfondisce il significato dell’unità tra i credenti
«Quando fra le persone prevale lo spirito di “diversi corpi, stessa mente”, esse realizzeranno tutti i loro scopi, mentre se hanno uno “stesso corpo e diverse menti” non possono ottenere niente di notevole» (RSND, 1, 550).
Vorrei ribadire brevemente il significato del concetto di “diversi corpi, stessa mente”. “Diversi corpi” significa che tutti noi abbiamo ruoli, caratteri e personalità diverse. “Stessa mente”, oppure stesso cuore o spirito, significa in generale condividere uno scopo o dei valori; significa anche coltivare il desiderio di realizzare insieme un ideale o un nobile obiettivo.
Dal punto di vista buddista “avere la stessa mente” indica fondamentalmente la fede fondata sull’unità fra maestro e discepolo: il discepolo si assume il compito di tradurre in realtà la volontà e il mandato del Budda di realizzare kosen-rufu. Per il discepolo impegnarsi e vincere con lo stesso spirito del maestro costituisce l’essenza dello spirito di “diversi corpi, stessa mente”.
Il riconoscimento esplicito che benché “uniti nello spirito” siamo tutti “diversi gli uni dagli altri” è un punto estremamente importante. Il Daishonin non parla di “stesso corpo, stesso spirito” – un’espressione che nella lingua giapponese indica l’unità fra persone simili – ma usa l’espressione “diversi corpi, stessa mente” per porre l’accento sull’unità nella diversità. In altre parole ci sta dicendo che per realizzare un obiettivo comune non dobbiamo negare o sopprimere le nostre individualità. Se ci uniamo permettendo a ciascuno di noi di esprimere appieno, grazie al potere della Legge mistica, il suo potenziale unico, saremo in grado di manifestare la forza invincibile racchiusa nello spirito di “diversi corpi, stessa mente” (BS, 116, 14).