Dedicarsi alla propagazione del Buddismo è un atto nobile e altruistico che si basa sul coraggio. È avere «la certezza di fare un regalo» all’altra persona
«Questo io affermo. Che gli dèi mi abbandonino. Che tutte le persecuzioni mi assalgano. Io continuerò a dare la mia vita per la Legge!»
L’apertura degli occhi, RSND, 1, 253
Questo brano del Gosho contiene un’affermazione molto forte di Nichiren, espressione della sua promessa irremovibile di dedicarsi a qualunque costo alla felicità del genere umano. Ma cosa significa per noi dare la propria vita per la Legge? Non ci viene chiesto di sacrificarla, bensì di utilizzarla per il valore più alto: permettere a tutti, indistintamente, di ottenere la Buddità, noi compresi. Il termine giapponese shimei, tradotto come missione, è composto da due ideogrammi: shi, che vuol dire “usare” e mei che significa “vita”. Il direttore generale Nakajima spiega: «L’essenza del Buddismo risiede nel nostro comportamento come esseri umani, perciò quel che conta è come viviamo ogni giorno, ogni momento, cercando sempre di migliorare noi stessi e di aprire la nostra vita agli altri» (NR, 550, 7).
Per poterlo fare, dobbiamo tirar fuori da dentro di noi la saggezza necessaria per raggiungere un giusto equilibrio, impegnandoci nelle attività buddiste nel modo che più ci appartiene. Qualunque cosa noi facciamo per la felicità degli altri porterà benefici alla nostra vita; questo è ciò che ho imparato.
Alla fine degli anni Ottanta, fraintendendo del tutto questo concetto e seguendo la mia indole altruistica, iniziai a dedicarmi completamente agli altri tralasciando tutto il resto. Questa interpretazione del tutto personale mi portò a esaurirmi sia fisicamente che mentalmente e a finire in ospedale. Ricovero e convalescenza furono un periodo molto difficile. Una volta superato il brutto momento di confusione totale, compresi che il mio esaurimento era dovuto, in parte, a un’errata interpretazione delle parole di Nichiren e decisi di ricominciare da capo, cambiando atteggiamento. Ero talmente arrabbiato con la mia parte oscurata che promisi, in cuor mio, che sarei diventato un “campione di shakubuku”, dando a più persone la possibilità di scoprire la propria natura di Budda. Era il mio voto.
In fondo, parlare di Buddismo a un’altra persona è un atto di coraggio fatto cuore a cuore, dove alla base c’è la compassione e la certezza di fare un regalo a chi lo riceve, com’era successo a me quando mi avevano parlato per la prima volta di Buddismo. Il punto di partenza è che ognuno possiede la natura di Budda, il massimo valore, ma non sa come manifestarlo, come tirarlo fuori: rispettare davvero qualcuno è consentirgli di far emergere le sue capacità.
Si fa shakubuku mettendo un seme, annaffiandolo, curandolo, proteggendolo, insegnando a praticare correttamente. Continuando a praticare ci rendiamo conto che, come è scritto in un altro Gosho: «Colui che abbraccia questo sutra dovrebbe essere pronto a incontrare difficoltà» (RSND, 1, 417). Quest’ultime nella mia pratica e nella mia vita non sono certamente mancate; a volte ho perso, ho tentennato, molte altre ho vinto e sono arrivato a comprendere che trasformare significa crescere.
È stato necessario più volte rinfrescare la mia decisione, dal momento che la condizione necessaria per vivere coerentemente è che un voto è veramente tale quando lo si porta avanti fino in fondo.
Se desideriamo vincere e dimostrare la prova concreta dobbiamo sviluppare interiormente il coraggio e la forza d’animo per continuare a combattere costantemente. La fede non è qualcosa che colpisce le persone “a caso”, ma il risultato di una lotta profonda all’interno di se stessi.