Fabiana Alari, neurologa, si occupa delle patologie che colpiscono il sistema nervoso e cura persone con gravi difficoltà neuromotorie e neuropsicologiche. Il suo percorso professionale le ha fatto incontrare il Buddismo attraverso il quale ha compreso meglio il senso della sua professione
Dove hai incontrato il Buddismo?
In ospedale, proprio nel reparto che volevo abbandonare durante la specializzazione. Me ne ha parlato la mia collega Marinella con cui avevo iniziato a collaborare. Lei mi ha insegnato molto dal punto di vista professionale e non solo, ma il suo regalo più bello è stato parlarmi della pratica buddista. Mi ha preso letteralmente per mano e mi ha insegnato con affetto, pazienza e serietà come praticare correttamente. Ho un grande senso di gratitudine nei suoi confronti. Fin da subito ho avuto la fortuna di sperimentare che il “Buddismo è uguale alla vita quotidiana” e la mia pratica buddista è andata naturalmente di pari passo con la mia nuova professione di neurologo e, anche se ho nutrito dei dubbi, non mi sono mai data per vinta.
In cosa la pratica del Buddismo ti ha aiutato a migliorare sul piano personale e professionale?
A essere consapevole della mia Buddità e a misurare i miei limiti. Prima di incontrare la pratica, ho faticato molto durante gli studi, sia durante il corso di laurea che durante la specializzazione, sentendomi spesso inadeguata, e subendo talvolta umiliazioni. Ho lavorato con Marinella per quasi dieci anni, eravamo complementari, io stavo bene ma ero comunque precaria e, non avendo vinto un concorso per dipendenti, sono stata costretta a concludere la mia collaborazione con lei nonostante l’esperienza acquisita. Prima di andarmene mi ritrovai a formare la persona che avrebbe preso il mio posto. Mentre lo facevo mi rendevo conto che qualcosa in me era cambiato: avevo perso totalmente quel senso di inadeguatezza che mi aveva accompagnato negli anni precedenti. Tuttavia, da lì a poco sarei stata disoccupata, ma una disoccupata con il Gohonzon, e così decisi di “usarlo” per chiarire a me stessa quello che veramente volevo.
Il posto fisso?
Assolutamente no. Nel recitare Daimoku con lo scopo di trovare un lavoro che si confacesse alla mia personalità e alla mia vita, compresi che non era nella mia natura stare alle dipendenze di qualcuno e che non vincere quel concorso si era rivelato una cosa positiva, dato che ciò che maggiormente desideravo era essere indipendente sul lavoro. Finalmente avevo capito il nodo della mia sofferenza: io volevo esercitare la mia professione liberamente, volevo essere io “il capo” di me stessa, volevo un lavoro che mi gratificasse e creasse valore. Forse avrei guadagnato di meno e avrei avuto meno garanzie, ma quelle erano le mie priorità. Una volta chiarita la direzione del cuore, il mio universo si è mosso a ritmo e le divinità celesti sono venute in mio aiuto. Sono stata chiamata in una struttura privata d’eccellenza e lì ho cominciato a collaborare come libera professionista, dimostrando a me stessa che era veramente quello che volevo. Le gratificazioni professionali non si sono fatte attendere.
Che rapporto hai con la malattia?
Nella mia professione di neurologo sono quotidianamente a contatto con l’invecchiamento, la malattia e la morte, tre delle quattro sofferenze fondamentali della vita. Molte malattie neurologiche sono progressive e altamente invalidanti e colpiscono anche persone giovani che, da un giorno all’altro, vedono sconvolta la loro vita e quella dei loro familiari. È piuttosto comune che tali pazienti abbiano grandi sofferenze e spesso, non riuscendo a trovare una ragione valida, reagiscano con un senso di impotenza, di abbandono o di rabbia. Nella mia professione quotidiana mi sforzo di vederli e ascoltarli con il cuore, non con la testa, e di mostrare loro la bellezza e la ricchezza della loro vita adesso, così come sono, e la bellezza dell’universo di cui sono parte. Cerco di migliorare la loro condizione vitale, di fargli amare la vita e infondere in loro la voglia di trasformare la sofferenza in qualcosa di più grande, di “trasformare il veleno in medicina”, un principio buddista a cui sono molto legata.
E non ti sei mai scoraggiata?
Non nascondo che, anche dopo tanti anni di pratica medica, ci sono situazioni che umanamente faccio davvero fatica ad accettare, soprattutto quando si tratta di bambini o giovani. Nel campo della neurologia ci sono patologie molto gravi, e a volte è molto difficile mettere un filtro tra me e i pazienti. Quando questo accade, un bravo medico deve avere la saggezza e il coraggio di vedere questa difficoltà. È il motivo per cui, un anno fa, ho lasciato il reparto per gravi cerebrolesioni che, con grandi sforzi e sacrifici, avevo contribuito a creare insieme ad altri colleghi. Mi ero accorta che quei pazienti creavano in me una sofferenza più grande delle mie possibilità, coinvolgendomi troppo emotivamente, con il rischio di non essere di aiuto per loro. È stato difficile e doloroso rinunciare a quel reparto, ma oggi mi rendo conto di aver fatto la scelta giusta.
Il presidente Ikeda scrive che ascoltare con il cuore le persone malate è un’azione che si accorda con l’insegnamento buddista di “togliere la sofferenza e donare la pace della mente”. Sei riuscita a sperimentarlo con i tuoi pazienti?
Per me la relazione con i pazienti è la relazione con il Budda e trasmettere il rispetto per la vita, indipendentemente dalla loro condizione, è la mia missione. Quando guardo un paziente, vedo una persona che soffre con molti limiti oggettivi, ma vedo anche molte potenzialità oltre la malattia. Se io riesco a vedere la sua Buddità, mi dico, anche lui può farlo. Per questo mi sforzo continuamente di avere grande rispetto per le persone che ho davanti, di entrare in empatia con loro, di sentirne la sofferenza e di stimolare il loro senso di gratitudine per la vita, nonostante tutto. Qualche tempo fa ho visitato un giovane uomo sordo, cieco e costretto in carrozzina a causa di una grave malattia neurologica. È entrato in ambulatorio scuro in volto, piuttosto silenzioso; la mamma che lo accompagnava ha iniziato a raccontare la sua storia. Poi ha preso lui la parola facendo trapelare tutta la sua rabbia, non aveva più fiducia in nessuno, tantomeno nei medici che lo avevano avuto in cura e poi lo avevano abbandonato a se stesso. Durante la visita a un certo punto mi ha detto indicando i genitori: «A me non m’importa nulla di morire, mi dispiace solo per loro». Gli ho risposto piuttosto risentita, ma con l’intenzione di arrivare al suo cuore, che la sua vita era preziosa tanto per lui quanto per suoi genitori. Qualche tempo dopo sono andata a trovarlo a casa: mi ha colpito molto vederlo da solo in veranda ad annusare l’aria, avvolto nei suoi pensieri. L’ho chiamato per nome due volte e quando si è accorto di me mi ha rivolto lo sguardo facendomi un gran sorriso e tendendomi subito la mano. Ogni volta che visito una persona malata sento di creare una relazione speciale, il primo impatto è sempre emotivamente forte, ma subito dopo penso: «Non è un caso che oggi abbia incontrato me!» e così vado avanti con coraggio e cercando di manifestare sempre più compassione.
• • •
I valori che ispirano la medicina occidentale
«Credo anche che il medico e il malato debbano affrontare ognuno il proprio compito come soci uniti nell’impresa di sconfiggere la malattia. Questo concetto mi ricorda le “tre esortazioni” della medicina buddista ai medici, agli infermieri e ai pazienti, che li invitano a collaborare e a imparare insieme come lottare contro il male».
(D. Ikeda, R. Simard, G. Bourgeault, L’essenza dell’uomo, esperia, pag. 151)