Cosa succede quando una psicologa, psicoterapeuta, ricercatrice e docente universitaria che si occupa di psicologia positiva incontra il Buddismo? Barbara Giangrasso ci racconta la sua esperienza in qualità di professionista e cosa è nato dall’incontro di due realtà apparentemente distanti
Di cosa si occupa la psicologia positiva?
I miei figli sostengono che si occupa di trovare il modo migliore per rendere felici le persone. La psicologia positiva è una branca della psicologia che studia il modo di promuovere il benessere e la felicità non solo in presenza di patologia ma anche con persone che provano qualche forma di disagio o che, semplicemente, vogliono migliorare la qualità della propria vita.
Qual è la differenza tra disagio e patologia?
Si può provare disagio senza necessariamente avere una patologia, e viceversa si può avere una patologia senza provare disagio. Per capire meglio, se un disagio è situazionale, ovvero legato a un certo aspetto della vita di una persona o a una situazione specifica, non si parla necessariamente di patologia. Diverso è quando determinati tipi di pensieri e azioni scatenano reazioni fuori controllo in molti ambiti della vita di una persona diventando “impedenti”. In un certo senso anche il Buddismo distingue tra sofferenza e malattia parlando nel primo caso di basso stato vitale che può confinare nei mondi bassi, come ad esempio quello d’Inferno; nel secondo caso descrivendo il disordine delle cinque componenti [cfr. D. Ikeda, La vita mistero prezioso, Sonzogno, 2005, pag. 181, n.d.r.]. In quest’ultimo caso penso sia necessario, insieme alla pratica, l’intervento di un professionista, ovvero di una persona che offra gli strumenti per agire su di esse. È comunque dimostrato che uno stato vitale elevato, il coraggio, la fede e l’ottimismo, elementi che anche la recitazione del Daimoku fa emergere, rendono le terapie più efficaci, riducendo in modo significativo il tempo di guarigione. Numerose ricerche scientifiche ormai lo dimostrano, così come anche molte esperienze di praticanti.
Quando psicologia e Buddismo si sono incontrati nella tua vita?
Studiando ho subito capito che psicologia e Buddismo potevano andare a braccetto e potenziarsi a vicenda. Il vero “matrimonio” è nato però quando ho iniziato a lavorare con la psicologia positiva, trovando riscontro alle mie idee di armonia tra psicologia e Buddismo in un articolo pubblicato nel 1998 nel quale Martin Seligman, uno dei fondatori e dei massimi esponenti a livello internazionale di psicologia positiva, riconobbe per primo nella filosofia della Soka Gakkai gli stessi princìpi di dedizione alla promozione delle potenzialità umane, propri del suo approccio, attuabili attraverso la trasformazione del modo di relazionarsi alla vita, basata sul raggiungimento sia del benessere individuale, sia di quello altrui (D. Ikeda, M. E. Seligman, Una scienza globale dello spirito umano, DU, 70, 32 ).
Quali sono gli elementi comuni tra Buddismo e psicologia positiva, e quali invece le differenze?
Tra gli elementi comuni sicuramente il fatto che al centro c’è la persona e che entrambi promuovono il benessere, l’empowerment del singolo e della comunità. Gratitudine, speranza, ottimismo, fiducia, sono tutti termini comuni, a cui entrambi mirano.
Ci sono concetti che si possono tradurre dall’uno all’altro con una quasi totale corrispondenza.
Per fare qualche esempio, il Buddismo parla di compassione, la psicologia positiva di empatia, il Buddismo di interrelazione, la psicologia positiva di relazioni interpersonali e così via.
Inoltre ambedue riconoscono che la felicità di un individuo non può prescindere dall’avere uno scopo di vita o senso di missione e dal sentirsi collegato agli altri. Se dovessi individuare uguaglianze e differenze tra i due in poche parole, direi che lo scopo ultimo di entrambi è la felicità del singolo e della comunità attuabile attraverso una rivoluzione interiore, ma mentre la psicologia lo fa unicamente con la ragione e l’azione, il Buddismo vi accede anche, e soprattutto, attraverso la fede e il risvegliarsi alla vera entità della vita.
Rimane un dato di fatto, che la sensazione di entrare in contatto con l’universo e con se stessi che si prova recitando Nam-myoho-renge-kyo non trova una corrispondenza nella psicologia. È una differenza di “mezzo”.
Che impatto ha avuto questo connubio sui tuoi studenti e su di te?
Come professionista certi concetti buddisti mi sono suonati sempre molto familiari, ma a volte non mi è facile evitare la sovrapposizione di psicologia e Buddismo. Talvolta questo mi crea delle difficoltà che supero approfondendo la relazione tra maestro e discepolo e studiando le parole del Gosho.
Un effetto tangibile di questo incontro è stata la messa a punto di un nuovo approccio alla promozione del benessere, il “Growth & Value” Positive Model, dove crescita personale e creazione di valore si intersecano per stimolare l’individuo alla massima espressione di se stesso. Il libro che ho scritto e che tratta di questo è diventato un testo all’interno del corso universitario che insegno ed è l’esempio di come i postulati psicologici derivanti da svariati approcci (sistemici, pragmatici, costruttivisti, strategici e di analisi della domanda), si fondono in un modello integrato che rintraccia le proprie origini nei princìpi promossi dalla Soka Gakkai. Gli studenti sono davvero molto stimolati dallo studio di qualcosa che può fornire loro strumenti per stare meglio con se stessi e con gli altri.
A seguito della pubblicazione del libro, questo modello è divenuto anche parte integrante dei servizi offerti gratuitamente a tutti gli studenti dell’ateneo di Firenze all’interno del Centro di Orientamento della Scuola di Psicologia, che si sostanzia in un percorso di dieci incontri di promozione del benessere basato sugli esercizi illustrati nel testo.
Grazie a questi interventi di promozione del benessere abbiamo ottenuto risultati meravigliosi: i nostri test dimostrano che le persone sono migliorate sul piano della felicità, della gratitudine, della soddisfazione per la vita e anche a livello della depressione, quando presente.
Comunque, al di là dei “tecnicismi”, non faccio mai un incontro di gruppo di questo tipo senza aver recitato prima un’ora di Daimoku. Il mio obiettivo è che non sia istruttivo – per quello ci sono i libri – ma evocativo, perciò recito per smettere i panni della docente e trasmettere qualcosa, per arrivare al loro cuore.
Nonostante tutto questo, non cito mai il Buddismo con gli studenti, evito di nominare qualcosa di religioso per etica e rispetto. Mi limito ad applicare princìpi universali. Attraverso varie tecniche insegno a cercare dentro di sè, ad avere autostima ecc… ma so che la rivoluzione umana senza Gohonzon è molto difficile e le persone lo sentono, tant’è vero che molti studenti in seguito hanno sentito il bisogno di approfondire individualmente lo studio e si sono avvicinati al Buddismo.
Infine, sempre frutto di questo connubio è stata la nascita due anni fa del primo corso di perfezionamento in psicologia positiva in Italia, creato affinché altri professionisti imparino ad applicare le stesse tecniche per promuovere il benessere. Sto recitando Daimoku affinché chi vi partecipa possa trovare un lavoro legato a questo ambito, creando valore ed espandendo la voglia di prendersi cura di se stessi e degli altri.
Citi il presidente Ikeda all’inizio del tuo libro: che cosa significa avere un maestro per te, come donna e come professionista?
La persona che mi ha avvicinato al Buddismo ha sempre avuto una forte relazione col maestro e questo mi ha stimolato ad approfondire questo legame, osservandola. La relazione col maestro è fondamentale in ogni ambito della mia vita e mi chiedo spesso: «Se sensei fosse qui, sarebbe contento di pensarmi sua discepola, membro della Soka Gakkai?». E questo non solo nell’attività o nella professione, ma anche in tutti gli altri ambiti della mia vita, soprattutto nell’educazione dei figli e nelle relazioni interpersonali. Questo mi aiuta, nei momenti di stasi o di difficoltà, a non perdere la strada, a muovermi cercando sempre di creare valore. Proprio come farebbe sensei.