Quello che stavo cambiando era il modo di vedermi: stavo imparando a volermi bene. Sentivo sempre più di essere una persona bella, perfetta così com’ero e in grado di vivere la vita che desideravo. Sentivo di avere un gran valore e tanto da offrire
Sono cresciuta con la convinzione di non potercela fare. Dall’età di due anni, a causa di un mancato vaccino, convivo e lotto con un handicap fisico causato dalla poliomielite che ha condizionato tutta la mia esistenza: cammino con l’aiuto delle stampelle e in spazi che non conosco, per evitare cadute, utilizzo la sedia a rotelle. I miei genitori per proteggermi mi impedivano di fare tante cose e, di fatto, non mi incoraggiavano a sfidarmi: avevo la sensazione di essere immobile mentre la vita mi scorreva davanti. Il massimo a cui potevo aspirare, secondo loro, era un diploma, un impiego pubblico e sposarmi con un vedovo o una persona con i miei stessi limiti. Così la mia rabbia cresceva e la scaricavo su chi mi stava vicino, addossando tutta la responsabilità sui miei genitori. Vivevo in un mondo d’inferno e stavo male. Ero andata a vivere da sola e cercavo qualcosa che mi tirasse fuori da quella condizione. Proprio in quel momento una cara amica mi portò a una riunione buddista. Era il 1999.
Iniziai poco dopo a sperimentare la forza della pratica buddista e, come mi fu consigliato, misi un obiettivo chiaro: presto mi sarei fidanzata ufficialmente. Avrei dimostrato ai miei genitori che potevo avere una vita normale e completa come tutti.
Recitavo Daimoku, facevo Gongyo, leggevo avidamente gli scritti del presidente Ikeda, sempre sostenuta dai membri del gruppo, anche quando sentivo inquietudine. Credevo di recitare per trovare un compagno, una persona con cui invecchiare insieme, ma in realtà quello che stavo cambiando davanti al Gohonzon era il modo di vedermi: stavo imparando a volermi bene. Sentivo sempre più di essere una persona bella, perfetta così com’ero e in grado di vivere la vita che desideravo. Cresceva in me la consapevolezza di avere un gran valore e tanto da offrire: potevo smettere di elemosinare attenzione, volevo una famiglia per kosen-rufu. I risultati non si fecero attendere.
Conobbi un uomo e cominciai a frequentarlo illusa che fosse la persona giusta, ma lentamente iniziai a mendicare il suo affetto. Questa volta recitai Daimoku con forza per avere una visione chiara della situazione: a lui non interessavo per costruire una famiglia. Capii, ringraziai e decisi di vivere fino in fondo la sofferenza di non essere stata scelta, senza scappare, perché era questo il dolore che volevo trasformare.
Il giorno dopo incontrai una persona speciale, totalmente diversa dalle altre con la quale iniziai la prima vera relazione della mia vita. Mi sembrava di conoscerlo da sempre: siamo andati subito a vivere insieme e l’ho presentato alla mia famiglia, proprio come desideravo. Tuttavia a volte mi sentivo soffocare, non ero abituata a tante attenzioni e alla costante presenza di un uomo nella mia vita. Profondamente non mi sentivo all’altezza di una relazione impegnativa ma grazie al Daimoku ho riconosciuto la mia “oscurità fondamentale”, le mie paure che si manifestavano come dubbi. Compresi che per avere una relazione di valore dovevo cambiare io per prima. Poi una mattina, davanti al Gohonzon, ho compreso che questa era una relazione di valore e duratura, perciò dovevo solo chiudere gli occhi e affidarmi. Così mi sono arresa alla bellezza di quell’amore.
Oggi Walter è mio marito, una splendida persona che mi rispetta; abbiamo una meravigliosa complicità tanto che, pur non praticando, riconosce il valore del Gohonzon e accoglie nella nostra casa le riunioni.
Dopo qualche tempo è emerso il desiderio di completare il nostro amore con un figlio. Dentro di me ero combattuta: da una parte sentivo naturale l’idea della maternità, dall’altra mi ritenevo incapace e non adatta a svolgere il delicato ruolo di madre. Pregai sinceramente e vidi manifestarsi tutte le mie paure quando sono risultata fisicamente impossibilitata a portare avanti una gravidanza, ma mio marito non si arrese e mi coinvolse in un percorso di adozione internazionale. Inoltrammo la richiesta e, nonostante una parte di me si aspettasse di avere difficoltà burocratiche che avrebbero rallentato l’adozione, non incontrammo nessun ostacolo. In realtà non ero ancora convinta e a pochi mesi dalla partenza per l’Etiopia, paese d’origine di nostro figlio, tutta la mia insicurezza riemerse, letteralmente paralizzandomi, anche fisicamente: ebbi un incidente e mi fratturai l’anca. Costretta a letto, trascorsi quei mesi recitando tutto il Daimoku che potevo, con l’insostenibile angoscia di non essere in grado di amare quel bambino che stava per arrivare, così come mia madre non era stata capace di farlo con me. Riaffiorarono i vecchi nodi karmici. Recitavo e studiavo. Il Gosho di Capodanno mi illuminò: «L’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre e trascura sua madre» (RSND, 1, 1008).
Compresi che prima di vivere liberamente la maternità, dovevo saldare il conto che avevo in sospeso con mia madre. Recitando Daimoku sentii la sofferenza di quella giovane donna spaventata, incapace come me di gestire il suo dolore. Provai per lei compassione e in cuor mio l’abbracciai. Sciolsi finalmente il rancore e la rabbia che da sempre mi portavo dentro e le esternai tutto il mio amore. Nacque in me una nuova fiducia: avrei accolto quel bambino nello stesso modo in cui avrei desiderato essere accolta io quando tornavo a casa dopo lunghi mesi di degenza ospedaliera. Avrei fatto di tutto per donargli tanto amore e una vita diversa.
Non è stato facile. Sono stati anni di lotta a suon di Daimoku per accettare e farmi accettare. Mio figlio Seid è la cosa più bella che mi sia capitata in questa esistenza, e lui lo sa. Ma io avevo paura.
Seid è arrivato per guarire le mie ferite più profonde. Mi sfidava con atteggiamenti provocatori, io reagivo con nervosismo e lui si chiudeva in se stesso. Proprio come succedeva tra me e mia madre. La pratica buddista è stata la chiave di accesso per rompere il duro guscio in cui si era rinchiuso per proteggersi: era stato costretto a vivere situazioni forti e le ferite si riaprivano. Non sempre riuscivo ad accogliere la sua sofferenza; piano piano mi sentii accettata, amata come figura materna. Sento che la chiave di volta nella mia vita è stato incontrare la forza del Gohonzon e poter contare sulla solidità della relazione con il mio maestro, Daisaku Ikeda. Desideravo per mio figlio lo stesso. Attraverso il mio esempio ho cercato di invogliarlo a praticare: infatti, da quando aveva sette anni, a volte recitiamo un po’ di Daimoku insieme onorando la bellezza della vita. Ho da subito cercato di sostenerlo nella sua passione per il calcio. Con orgoglio oggi posso dire che due anni fa, a quattordici anni, è entrato come allievo nel settore giovanile del Milan. Vive a Milano e sono sicura che grazie alla sua forza, determinazione e coraggio stia costruendo un’esistenza piena di gioia e saprà affrontare ogni situazione, facile o difficile che sia.
Oggi sono una figlia, una moglie e una madre felice. Punto di riferimento della mia famiglia di origine, sono ritornata ad abitare nel posto da cui tanti anni prima ero scappata. Ho compreso la mia missione: fare shakubuku ed essere felice e a mio agio lì dove sono. Di cambiamenti ne ho fatti tanti e con le attività di Senzatomica a Cava de’ Tirreni mi sono resa conto che ho davvero trasformato quell’idea di non potercela fare che mi aveva accompagnato per tanti anni. Sono riuscita a fare l’attività di guida alla mostra nonostante utilizzassi la sedia a rotelle per muovermi tra i pannelli riuscendo a coinvolgere tanti ragazzi e adulti. E questa, certamente, è solo una delle tante vittorie.