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Riflessioni dalla proposta di pace 2017 - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 11:53

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Riflessioni dalla proposta di pace 2017

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«Senza una soluzione al problema dei rifugiati, che rappresenta una crisi umanitaria di proporzioni mai viste, la pace mondiale e la stabilità rimarranno irraggiungibili»

Anche nella proposta di pace presentata il 26 gennaio 2017 (BS, 182, 4), come ogni anno, alle Nazioni Unite, Daisaku Ikeda ha parlato della questione dell’immigrazione, in particolare dei rifugiati.
Ha scritto: « In concomitanza con il Summit delle Nazioni Unite per i rifugiati e i migranti del settembre scorso, è stata lanciata una nuova campagna per rispondere alle apprensioni associate all’aumento degli spostamenti di persone a livello internazionale. È chiaro che ogni tentativo di risolvere tali questioni deve tener conto delle preoccupazioni legittime di chi vive nei paesi che ricevono i migranti e i rifugiati. Come evidenzia l’ONU in questa campagna, è essenziale individuare i mezzi per contrastare questa deriva xenofoba e riumanizzare il discorso sui migranti e i rifugiati, senza tralasciare tali preoccupazioni» (pag. 12).

Sottolineando anche l’importanza dell’educazione ai diritti umani: «Oltre al protrarsi dei conflitti armati e della guerra civile, un altro grave problema che minaccia la società globale è rappresentato dai frequenti attacchi terroristici e dalla crescita dell’estremismo violento. Sono veramente troppi i casi in cui giovani privi di qualsiasi speranza per il futuro e alla ricerca di un significato per la loro vita vengono attratti da frange estremistiche. […] Credo che l’elemento fondamentale sia la promozione dell’educazione ai diritti umani» (pag. 37).

E anche: «La solidarietà è stata il punto focale del Summit umanitario mondiale che si è tenuto a Istanbul nel maggio scorso. Come sottolineato nella cerimonia di apertura, è essenziale mettersi al posto di chi è stato brutalmente sradicato dal conflitto e giorno dopo giorno si trova a dover affrontare scelte impossibili. Sotto la minaccia costante degli attacchi aerei voi scegliereste di rimanere nel luogo dove vivete oppure fuggireste dal pericolo per portare la vostra famiglia molto lontano in cerca di un rifugio? Consapevoli dei pericoli potenzialmente letali di una traversata via mare, vi attacchereste anche alla remotissima possibilità di una vita migliore e andreste in cerca di una barca, o rimarreste dove siete? Se i vostri figli si ammalassero durante la fuga, usereste i pochi soldi che avete per le medicine o per il cibo per l’intera famiglia? Dobbiamo ricordarci che queste persone, che vivono con estrema incertezza in circostanze disperate, sono esseri umani come noi, nati in un paese diverso e con storie diverse» (pag. 32).

In queste pagine trovate interviste ed esperienze per riflettere insieme su questo tema così complesso e importante che ci riguarda in prima persona e su cui il presidente Ikeda ci sta invitando ad agire.

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Accoglienza e integrazione

A colloquio con Daniela Di Capua, direttrice dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) e membro della SGI

Il flusso migratorio nel nostro paese è legato soprattutto alla speranza di trovare un lavoro?

Un flusso programmato per l’inserimento lavorativo non c’è più da diversi anni. I cittadini stranieri non comunitari , che vogliono venire in Italia per cercare lavoro non lo possono fare in maniera regolare. Quindi anche quella fascia cosiddetta del “migrante economico” non ha altro modo di venire se non tramite flussi irregolari, soprattutto attraverso gli sbarchi (dall’Africa, dalle coste della Grecia), o via terra passando per le frontiere del Nord est (ad esempio dal Friuli-Venezia Giulia). Molte persone arrivano in Italia per richiedere asilo.

Le persone che richiedono asilo in Italia sono tutelate?

Accogliere i richiedenti asilo non è una scelta, ma un obbligo di legge. Chi fa domanda di asilo (o di protezione internazionale che dir si voglia) è tutelato dalle leggi italiane, europee e internazionali.
Le due forme di protezione internazionale sono quella di Rifugiato e quella di Protezione sussidiaria. Se ne aggiunge una terza che è specificamente italiana: quella Umanitaria che si applica alle persone a cui è stata negata la protezione internazionale, ma per le quali il rientro nel paese di origine si considera pericoloso.

Cosa diresti alle persone che hanno paura o sono contrarie ad accogliere i migranti nel nostro paese?

L’informazione è fondamentale. Si può anche essere contrari alle politiche di accoglienza, ma almeno bisogna farlo sulla base di dati documentati, mentre le persone si accontentano di quello che sentono dire. È molto importante produrre e raccogliere fonti. I social network in questo senso hanno una responsabilità enorme, è vero che c’è più dibattito ma circola di tutto, e tutto viene preso come verità. Invece di litigare sul tema in base a pregiudizi o notizie sommarie, discutiamone dopo aver consultato le fonti ufficiali: i dati dell’Istat sull’integrazione, ad esempio, riportano quanti soldi portano gli immigrati, quante delle nostre pensioni sono finanziate dalle tasse pagate dagli stranieri…
Nelle scuole bisogna fare molto di più. È qui che si forma l’identità dei bambini. Le iniziative spesso riguardano il tema dei rifugiati, degli immigrati, ma forse si potrebbe risalire a monte, alla questione dei diritti e della loro fruibilità, e aiutare i giovani a sviluppare un forte senso civico: cosa vuol dire vivere in una comunità, e come interagire con le diversità. Bisogna lavorare per scardinare l’idea che la diversità sia un problema.

Molti dicono “rimpatriamoli nel paese d’origine”. È una strada percorribile?

Trovo che sia un pensiero molto pericoloso. Ma, a prescindere dai punti di vista personali, sul piano legale se una persona dichiara di voler presentare domanda di asilo, lo Stato Italiano ha il dovere di garantirne l’accoglienza per tutto il tempo in cui la persona attende l’audizione con la commissione per il diritto di asilo. È scritto nell’art. 10 della Costituzione, nella Convenzione di Ginevra che abbiamo sottoscritto e nelle direttive europee che chiedono a tutti gli stati membri di avere una normativa specifica sui richiedenti protezione internazionale.
Se una persona ottiene lo status di rifugiato è libera di restare in Italia, di trovarsi un lavoro, una casa, e di accedere a una serie di diritti quasi come un cittadino italiano. Se invece la domanda è respinta e viene espulso, dovrebbe essere rimpatriato. Ma per il rimpatrio, il Paese d’origine deve riconoscere che quella persona è un proprio cittadino, se ciò non avviene la persona rimane in Italia irregolarmente, cioè senza un permesso di soggiorno, senza nessun diritto né controllo. È Probabile che cadrà in meccanismi di carità o assistenza che non sono quelli dello Stato. Il passaggio successivo sarà il lavoro irregolare, probabilmente la marginalità sociale e successivamente la piccola criminalità. In questi casi quindi le conseguenze non gravano solo sulla persona, ma anche sulle comunità locali, senza che di fatto nessuna delle due parti ne sia realmente responsabile. Se non si è a conoscenza di tutti questi aspetti è facile avere una percezione negativa delle persone richiedenti asilo o rifugiate che siano.

Ci spieghi qualcosa sull’accoglienza?

Come dicevamo, l’accoglienza è un obbligo di legge nei confronti di coloro che richiedono protezione internazionale. Per tutto il tempo in cui attendono l’audizione con la commissione territoriale, lo stato italiano li deve accogliere. Solo negli ultimi tre anni lo Stato si è organizzato per dare accoglienza a tutti, prima non era in grado di farlo. Dopo la così detta “emergenza Nord Africa” del 2011 i posti di accoglienza sono aumentati; la Commissione Europea ha iniziato a fare dei controlli per verificare che ci fosse ottemperanza agli obblighi di legge e agli standard minimi europei. Più volte in passato l’Italia è incorsa in multe perché non aveva posti a sufficienza o quelli che c’erano non erano adeguati.

Come lavora lo SPRAR?

Lo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) è un sistema di accoglienza formato dagli enti locali (soprattutto Comuni) che volontariamente scelgono di attivare progetti per l’accoglienza e programmi di integrazione.
Accompagnare le persone all’integrazione comporta un vantaggio sia per la persona che per la comunità.
L’adesione volontaria da parte dei comuni che presentano domanda di ammissione allo Sprar è sicuramente un punto di forza, il Comune è colui che governa il fenomeno sul proprio territorio, senza subirlo: crea dei posti di lavoro per gli operatori dell’accoglienza, affitta strutture, paga i servizi, ecc. Se si creano dei servizi ne beneficiano tutti i cittadini, ad esempio: se viene attivato un autobus per portare a scuola i bambini, ne possono usufruire anche i bambini italiani; se si attiva uno sportello di orientamento al lavoro, tutti ne possono beneficiare. Inoltre lo SPRAR organizza l’accoglienza in appartamenti, e questo rende più facile il rapporto con la comunità locale evitando quelle situazioni di alberghi in periferia pieni di migranti di cui non si sa nulla e che fanno paura, proprio per la distanza non solo fisica che inevitabilmente si viene a creare.

Quindi l’integrazione con la comunità locale è un elemento centrale.

Nelle linee guida dello SPRAR a cui i Comuni devono attenersi è anche previsto che vengano destinati dei fondi ad attività di sensibilizzazione e informazione della comunità locale per favorire l’integrazione. Degli operatori vanno a prendere le persone appena arrivate, per farle conoscere ai vicini, ai commercianti, per facilitare la relazione tra persone anziché tra gruppi. Si lavora per facilitare l’incontro reale tra le persone sganciandosi dall’idea astratta del “fenomeno” immigrati. Il che non garantisce l’amicizia tra le persone, ma sicuramente un tipo di valutazione e percezione che va al di là dei pregiudizi, e che dovrebbe basarsi sul rispetto reciproco.

Quale pensi sia la strada da percorrere verso una gestione più dignitosa per tutti?

Penso che dovremmo lavorare di più sull’educazione ai diritti, soprattutto con i bambini, con i giovani, perché se un ragazzo/una ragazza cresce con un’idea chiara di cosa siano i diritti e cosa comportano, allora è più naturale che da adulto sviluppi una sensibilità verso questi temi. Mentre acquisirli da adulti è molto più difficile, e allora accade di pensare che i diritti siano per quasi tutti, o possano essere messi in discussione a seconda delle esigenze del momento.
Va anche fatta una riflessione e un lavoro sui paesi di provenienza: spesso si fanno considerazioni senza la consapevolezza dei danni storici che noi stessi abbiamo provocato in questi paesi. Non si tratta di favorire solo uno sviluppo economico, ma piuttosto democratico. Ci vuole molto tempo. Bisogna portare avanti tutto insieme.
Altrettanto importante è far conoscere le storie di queste persone, non in termini pietistici ma per comprendere bene le vere ragioni per cui sono fuggite dai loro paesi, affrontando viaggi che spesso durano anni. Queste persone non fuggono solo dai conflitti. Le persecuzioni previste nel diritto di asilo hanno a che fare in generale con l’impossibilità della persona di esercitare i propri diritti. Se le persone continuano ad arrivare da noi affrontando situazioni atroci – durante il viaggio vengono violentate, attraversano i deserti, molti di loro muoiono in mare – vuol dire che non hanno altra possibilità di scelta!

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Oltre la paura del diverso

di Mohamed Ambrosini, Pisa

Sono nato in una famiglia musulmana, da madre egiziana e padre italiano convertito all’Islam. Quando avevo cinque anni mia madre è morta, e a nove anni mi sono battezzato per non sentirmi diverso dai miei amici. Quando avevo tredici anni è morto anche mio padre. Sono cresciuto pensando che non sarei mai diventato felice, sentivo forte un senso d’impotenza e rassegnazione. Nel 2011, quando ho incontrato il Buddismo, la mia vita è cambiata e ho scoperto che ciò che consideravo la mia sfortuna era in realtà la mia missione. Nel 2014 mi sono laureato in Scienza della comunicazione con un interesse particolare verso le guerre e i conflitti, soprattutto in Medio Oriente.
Un anno dopo ho fatto volontariato con “Un ponte per…”, una ONG che si occupa di diritti umani e solidarietà tra i popoli. Il presidente Ikeda scrive: «Come possiamo scoprire qual è la nostra missione? Non lo scoprirete certo restando con le mani in mano, vi dovete sfidare in qualcosa, non importa cosa. Continuando a sfidarvi costantemente, la direzione da prendere si aprirà davanti ai vostri occhi in modo molto naturale» (D. Ikeda, Sfide e visioni per il futuro, esperia, pag. 11). Ho deciso di fidarmi e ho seguito il consiglio del mio maestro.
Nel 2015 mi venne sospesa la pensione che percepivo come studente senza genitori, non sapevo cosa avrei fatto per vivere ma avevo chiara una cosa: volevo stare vicino alle persone che soffrono di più nel mondo e basare la ricerca del mio lavoro sul concetto di creazione di valore. Decisi di fare un milione di Daimoku per realizzare il mio sogno. Facevo attività nella Gakkai, shakubuku tutti i giorni e studiavo il Buddismo. Quell’anno tre persone a cui avevo parlato del Buddismo hanno deciso di ricevere il Gohonzon. Parallelamente ho coltivato legami di amicizia con molti ragazzi migranti sentendo come mia la loro sfiducia e rassegnazione. Ci sono tanti pregiudizi sugli immigrati ma io, con le guide di sensei nel cuore, cerco di trasmettere a tutti il valore delle differenze e l’importanza di sconfiggere la paura del diverso. La pace è un processo che si costruisce con grandi sforzi e perseveranza, senza dimenticare che le prime vittime della guerra sono le persone che arrivano da noi in cerca di speranza e solidarietà.
A gennaio dell’anno scorso ho partecipato a un corso sul dialogo interreligioso in Tunisia. Eravamo giovani di varie religioni provenienti da diversi paesi, sono state giornate bellissime e costruttive. Qualche mese dopo stavo per accettare un lavoro lontano dalle mie aspirazioni, ma poco prima di firmare il contratto – avevo quasi finito il milione di Daimoku – mi ha chiamato la presidentessa di “Un ponte per…” dicendo che ero indispensabile per loro e che avrebbero trovato un modo per assumermi. Non me lo sarei mai aspettato! La direzione da prendere si stava aprendo davanti ai miei occhi in modo molto naturale e, ciliegina sulla torta, una mia cara amica a cui avevo fatto shakubuku decise di ricevere il Gohonzon.
A novembre sono andato in Iraq per un progetto di scambio tra giovani. Entrando in un campo di rifugiati siriani, dove la vita è veramente difficile, ho provato di nuovo quel forte senso di impotenza: credere che anche quella potesse essere la terra del Budda sembrava impossibile. Ma quando fui accerchiato da una cinquantina di bambini appena usciti da scuola, capii profondamente che era quello il momento in cui vincere sulla sfiducia. Giocando con loro ho capito quanto sia importante sorridere e trasmettere positività vincendo nel momento presente, perché è così che determino il futuro. In Iraq ho stretto legami fortissimi con le persone e ho promesso loro di tornare presto.
Infatti a gennaio di quest’anno sono tornato per partecipare alla Conferenza annuale della società civile irachena per la pace e la nonviolenza, e alla Conferenza finale del progetto giovani. Inoltre ho partecipato alla stesura finale della Carta degli intenti dei centri giovanili, un documento presentato all’ambasciatore dell’Unione Europea in Iraq e alle autorità locali. Come apertura è stata inserita una frase del presidente Ikeda, e la carta è stata letta alla conferenza davanti a duecento persone. Nella Proposta di pace del 2017 il presidente Ikeda scrive: «Tuttavia io non sono pessimista riguardo al futuro dell’umanità perché ho fede nei giovani del mondo, ognuno dei quali incarna la speranza e la possibilità di un futuro migliore».

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La sfida di vivere per un grande ideale

Raffaella Cosentino è una giornalista, vive in Sicilia – a Palermo – e si impegna ogni giorno in difesa dei diritti umani. Le abbiamo rivolto alcune domande sulla sua professione e sulla sua esperienza

Qual è secondo te la missione di un giornalista buddista?

Le difficoltà lavorative nel giornalismo scoraggiano molte persone, anche perché da noi l’informazione è parzialmente libera. Nella classifica sulla trasparenza siamo oltre il cinquantesimo posto nel mondo. Spesso il giornalismo è utilizzato per altri fini e non per un’opinione pubblica consapevole e informata. Io amo raccontare le storie e dare voce a chi viene discriminato, a chi subisce violazioni dei diritti umani, a chi nel suo piccolo lotta per cambiare la società, quindi alle storie positive. Mi interessa il giornalismo fatto per strada e l’ho scelto per entrare in relazione con più gente e con più storie possibili. Per me è importante parlare ai colleghi, e in generale a tutte le persone che incontro, del Buddismo di Nichiren Daishonin.

Qual è stata la motivazione che ti ha portato a lavorare con gli immigrati?

Avevo ventotto anni quando ho iniziato a praticare, nel 2008, e nello stesso anno ho preso il tesserino da giornalista professionista. Onestamente non sapevo come usare quel tesserino, ma facendo tanto Daimoku e leggendo gli incoraggiamenti del maestro Ikeda ho capito che mi interessava occuparmi di diritti umani.
Questo mi ha portato in maniera naturale a occuparmi dei migranti nel nostro paese, in un’epoca, alcuni anni fa, in cui non si capiva ancora la portata di questo fenomeno. Veniva considerato un argomento che non poteva andare in televisione perché non faceva audience, come se fossero poveri disgraziati che non interessano a nessuno. Solo dopo alcuni anni si è scoperto che è il più grande tema sociale e politico del momento. Sono stati lo studio e la preghiera a mettermi su questa strada. Attraverso la mia professione volevo favorire l’implementazione dei diritti umani nel nostro paese.
All’inizio volevo andare in aree di crisi, di guerra, poi mi sono resa conto che è ancora più grave quando queste violazioni esistono nel mondo occidentale, democratico e avanzato.

Qual è per te la sfida più difficile, il limite interiore che affronti quotidianamente nel fare questo lavoro?

La vera sfida è riuscire a creare valore ogni giorno in quello che la vita mi mette davanti, mantenendo la coerenza con i miei ideali, di fatto significa fidarmi del Gohonzon. Da un punto di vista lavorativo se si riparte dalla fede nessun lavoro può essere una gabbia, cioè il lavoro che si svolge serve per fare determinate esperienze e compiere la propria missione.
Oggi lavoro con un grande editore e sono arrivata in questa testata con un’esperienza forte di pratica: ho vinto il concorso in cui abbiamo partecipato in tremila in tutta Italia e mi sono classificata trentaduesima. È stata un’esperienza fatta con il Daimoku e con il Gohonzon, se si ritorna sempre alla fede non ci sono limiti.

Trovi ispirazione nelle proposte di pace del presidente Ikeda?

Moltissimo! Quella del 2015 in particolare parlava dei rifugiati e faceva l’esempio degli abitanti delle città di mare che accoglievano gli immigrati provenienti dagli sbarchi. Sensei incoraggiava a tenere aperto il cuore su questo fronte e mi venivano in mente Agata e Nawal, che per due anni hanno accolto 50.000 siriani arrivati alla stazione di Catania. Le persone scappavano dai centri d’accoglienza per raggiungere il Nord Europa, ma alla stazione trovavano il caos e finivano preda degli scafisti di terra che rubavano loro i soldi in tanti modi: nel cambio dal dollaro all’euro, nel fare il biglietto del treno, nel comprare un panino. Agata e Nawal, in maniera del tutto volontaria, li hanno aiutati con grandissima dedizione. È incredibile ciò che hanno fatto. Nella Proposta di pace del presidente Ikeda è citata una frase di un cittadino italiano che dice: «Sono persone in carne e ossa, come noi. Non possiamo rimanere a guardarle annegare» (BS, 176, 9). Quello che succede è terribile, conosco tanti attivisti, tante donne siciliane, che hanno dato l’anima per aiutare queste persone; la mia amica Carla, ad esempio, avvocatessa di Siracusa, che ha salvato tantissimi minori che arrivavano ad Augusta senza i genitori.

Come ti incoraggia la relazione con il maestro nel tuo impegno per i diritti umani?

Quando mi sento a un punto morto, oppure sono spaventata, se cerco una guida trovo sempre negli scritti di sensei un consiglio, una frase, qualcosa che mi illumina e mi aiuta a fare un’esperienza. Da giovane ho fatto attività nel gruppo byakuren e poi, nelle donne, ho fatto attività come responsabile di un capitolo.
Così ho creato una forte relazione col maestro. La cosa che mi è sempre piaciuta è proprio la protezione, il fatto che preghi per proteggere te stessa e gli altri e vedi che hai il potere di influenzare cose apparentemente non influenzabili. Nell’attività di protezione il legame col maestro è fondamentale.

Hai realizzato anche dei documentari?

Sì. L’avevo determinato tanti anni fa, finché non l’ho realizzato.
Le battaglie interiori sono quelle che ti permettono di fare ogni giorno un passo in avanti, come dice il maestro Ikeda. Un bel giorno ti giri indietro e vedi che hai fatto un sacco di strada. Nei documentari ritrovo quello che voglio fare veramente: raccontare in maniera approfondita una storia umana. Il primo documentario, L’ultima frontiera, è stato un’esperienza di pratica e di attività. L’ho fatto all’interno dei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). Dedicandomi agli altri si sono aperte delle possibilità insperate, non ci sono limiti nel realizzare i propri sogni.
Dopo tre anni ho realizzato Sul fronte del mare, un’intervista a un ex poliziotto di frontiera in pensione che si è molto impegnato nel voler chiudere il CIE di Bari. Racconta la frontiera dal punto di vista della polizia, il poliziotto di frontiera che da un lato fa il suo dovere fino in fondo, dall’altro non riesce a dormire la notte per ciò che fa. Credo sia un tormento che ci può rappresentare tutti.

Cosa consigli a un giovane che vorrebbe fare un giornalismo impegnato?

Il mio consiglio è di praticare e ricevere il Gohonzon! Di far parte della Soka Gakkai e sfruttare tutte le occasioni che offre la nostra organizzazione per crescere, perché nel giornalismo serve tanta forza per tenere la determinazione davanti alle tante difficoltà, non scoraggiarsi mai e usare il lavoro per creare valore. Io dubito che avrei fatto questo lavoro se non avessi iniziato a praticare. Avrei mollato tutto tanto tempo fa perché le difficoltà sono fortissime, anche pubblicare un singolo articolo è difficile! Ogni cosa che ho fatto è stata un’esperienza di fede, ogni inchiesta, ogni articolo pubblicato. Facendo sempre Daimoku per guadagnarsi la stima e la fiducia nel posto di lavoro.

È più importante denunciare una realtà esistente o trasmettere speranza?

Tutte e due sono importanti. Mi piace raccontare delle belle storie, ma è altrettanto importante la denuncia, l’inchiesta, far vedere ciò che non va.
È proprio connaturato alla mia missione mostrare quello che non va in modo che quella situazione cambi. Con i CIE ho fatto così. Tanti sono stati chiusi e sono sicura che senza il Daimoku non avrei trovato la forza e il coraggio di andare fino in fondo.

Quali letture buddiste ti ispirano maggiormente?

La frase del Gosho di Capodanno: «L’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre e trascura sua madre (RSND, 1, 1008) mi ha sempre colpito, sto cercando di migliorare questo aspetto. Un po’ di tempo fa parlando con una persona mi sono resa conto che nel chiamare i miei genitori non usavo “mamma” e “papà”, ma questo e questa e non me ne ero mai accorta. Ho pregato tanto quest’anno per la famiglia.
Inoltre, i romanzi La rivoluzione umana e La nuova rivoluzione umana sono fonti di ispirazione nel portare avanti ogni giorno la sfida di vivere per un grande ideale ed essere felice insieme agli altri.

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